Il dì di festa. Vacanze medievali, fra lussuria e penitenza

Maria Giuseppina Muzzarelli per “Le smanie per la villeggiatura”

“Le smanie per la villeggiatura”, la nuova rubrica estiva della pagina Facebook Lezioni di Storia Laterza, prosegue con un contributo di Maria Giuseppina Muzzarelli.

Domenica dopo domenica, la rubrica accompagnerà i lettori alla scoperta del significato delle ‘vacanze’ e dei viaggi in diverse epoche e contesti storici, dall’antica Roma alla Germania della DDR, dai Greci dell’Odissea al Medioevo, fino all’avvento del turismo di massa, con gli scritti di Simona Colarizi, Alberto Mario Banti, Laura Pepe, Massimiliano Papini, Maria Giuseppina Muzzarelli, Alessandro Marzo Magno e Gianluca Falanga.

 

> Prossimo appuntamento: domenica 15 agosto,
con Alessandro Marzo Magno e Smanie e follie. La villeggiatura da Goldoni a Byron.

Già online i contributi di Laura Pepe e Massimiliano Papini.

 

 

Il dì di festa. Vacanze medievali, fra lussuria e penitenza

Maria Giuseppina Muzzarelli

 

Vacanza significa sospensione di un’attività, di lavoro o di studio, spesso in corrispondenza di qualche particolare ricorrenza o di una festa religiosa. Nel Medioevo le feste ritmavano regolarmente la vita dei singoli e delle collettività. Oltre un quarto dei giorni era festivo: domeniche, Natale, Epifania, Candelora, Annunciazione, Pasqua, Ascensione, Pentecoste, ricorrenze patronali o predicazioni. Anche quando arrivava un predicatore in città e teneva i suoi sermoni per giorni e giorni (e ogni predica durava parecchie ore) si sospendevano le usuali attività, dunque era vacanza,  non si lavorava, si era liberi dalle usuali occupazioni.

Noi oggi associamo l’idea di vacanza al piacere, al divertimento, al godimento fisico, ecco non era propriamente così nel periodo medioevale, anzi fino almeno all’XI secolo la festa era sì sospensione del lavoro ma anche dell’attività sessuale. Dai Libri penitenziali, testi ad uso dei sacerdoti che suggerivano la penitenza appropriata per ogni peccato, in uso fino al pieno Medioevo, si ricava una sorta di ossessione nei riguardi dell’attività sessuale regolarmente vietata nei giorni di festa. Preclusa nelle tre Quaresime (quaranta giorni prima di Pasqua, di Natale e di Pentecoste) ma anche negli anniversari delle nascite dei santi apostoli, nelle feste principali, in quelle pubbliche ed in diverse altre occasioni specificate, ne derivava che restavano in media appena una cinquantina di giorni all’anno per la manifestazione lecita dello slancio sessuale. Dunque festa ha significato per un periodo non breve vacanza dal lavoro ma anche privazione del piacere, almeno in teoria.

La festa implicava seguire le funzioni religiose e principalmente andare in chiesa. Qui si riesce a cogliere qualche nesso con un mondo a noi più prossimo. Sino a non molti decenni fa l’andare in chiesa alla domenica era pratica devozionale ma anche occasione sociale: nel suo piccolo una festa. Era, soprattutto per le donne, il momento di uscire di casa, di vedere altre persone e di farsi vedere e in questo si coglie un senso di festa, il piacere dell’esibizione. Festa per le donne poteva essere indossare gli abiti più belli proprio per andare in Chiesa. A Bologna la moglie di un drappiere nel giorno della festa di San Domenico, che cade l’8 di agosto, venne fermata dagli incaricati del controllo del rispetto delle leggi suntuarie perché indossava una gonnella con strascico che era proibito dai provvedimenti contenuti negli Statuti cittadini del 1250-61. Gli incaricati del controllo non poterono procedere per la resistenza opposta da chi la contornava (“propter tumultum gentium”) e la donna fu quindi convocata davanti alle autorità competenti. Le norme suntuarie che facevano parte degli Statuti cittadini facevano regolarmente riferimento alle esibizioni femminili per proibirle o quanto meno limitarle e suggerivano di effettuare controlli nelle vicinanze delle chiese nei giorni festivi proprio in quanto era l’occasione per eccellenza per mettersi in mostra  e ostentare abiti ed accessori. A secoli di distanza, perdurando il disciplinamento di vesti, ornamenti, feste e banchetti, si è mantenuto nelle norme suntuarie (che hanno continuato ad essere emanate fino al Settecento) il riferimento alla necessità di contenere le esibizioni delle donne nei giorni festivi. Un documento emanato a Foligno nel 1567  lamentava il fatto che domenica 3 agosto  una giovane della città esibì una veste di seta che fece mormorare tutta Foligno. Talmente bella e desiderabile da scatenare un’incontenibile emulazione a rischio  di consumare i patrimoni dei cittadini: “Mo semo per andare in precipitio, che oltre  che si fanno in maritare una giovane, non ci manca altro  che di cominciare a mettere questa maledetta usanza  di far vesti di drappo”.

Per tutto il periodo che corre dalla metà del XIII fino almeno alla fine del XVI dalle parti delle chiese alla domenica e nei giorni festivi si appostavano gli incaricati della vigilanza: la festa era esibizione ma anche rischio di multa o di sequestro del capo proibito.

Il “dì della festa” si distingueva dal “giorno da lavorare” per l’abbigliamento ma non solo. Si caratterizzava anche per attività ludiche, non di rado trasgressive, che soprattutto a carnevale davano luogo a travestimenti e ad eccessi di vario genere. Ecco le parole con cui il predicatore Osservante Bernardino da Feltre (1439-1494)  condanna a Pavia nel 1494 il “carnasal” “che te farà deventar una bestia”. Non uno ma ben tre condottieri inducevano a suo dire al peccato: “Uno ha piantato una bandiera de saltanti et chorizanti. L’altro ha messo uno squadrone de papanti et ingurgitanti. Et terzo va intorno cum una brigata de stravestiti et mascherati. El bisogna descazar questa bestia che fa tanto male”. Festa era ballare, cantare e darsi un’identità posticcia e mangiare in abbondanza. Fra i cibi da festa c’era la carne. Per la festa d’Ognissanti in Toscana vigeva una particolare abitudine alimentare: consumare un pranzo a base di oca. Meno terragno e più gentile l’uso per Pentecoste, detta Pasqua Rosada, di adornare le chiese di fiori o di far piovere durante la messa petali di rose. Usi che contraddistinguevano il tempo festivo.

Quanto ai mascheramenti, talvolta facilitavano offese e violenze. Che la festa sfociasse in atti aggressivi è abbastanza noto. I feroci putti fiorentini che amavano organizzare sassaiole e altre violenze sono passati alla storia così come il tentativo di Girolamo Savonarola di partire da loro per una profonda riforma dei costumi. Le feste liberavano non solo dal lavoro ma anche dal controllo e davano luogo ad attacchi alla gerarchia e all’onore in particolare delle donne. Sul finire del Medioevo, dopo la cacciata a Firenze di Piero de’ Medici la milizia savonaroliana mise mano a una vasta operazione di cristianizzazione della principale festa pagana, il Carnevale. Nel 1497, anno di affermazione di un gonfaloniere savonaroliano e dunque della concreta possibilità di realizzare il programma politico e morale del frate domenicano, Savonarola intese capovolgere il trasgressivo e lascivo carnevale in un grande falò delle vanità convertendo i denari raccolti per vani festeggiamenti in una questua realizzata dai fanciulli, trasformati da aggressivi distruttori in fattivi collaboratori del programma savonaroliano, volta a finanziare il Monte di Pietà. A ben vedere e a modo suo anche il falò delle vanità organizzato da Savonarola rappresentava una peculiarissima festa oltre alla liberazione dal peccato realizzata incenerendo libri giudicati lascivi, abiti, dadi e altri analoghi oggetti in luogo delle anime dei loro possessori. Un grande rito collettivo liberatorio suggestivo e partecipato. Savonarola ne promosse ben due di falò del genere (uno nel febbraio del 1497 e il secondo nel febbraio dell’anno successivo) e prima di lui molti altri predicatori ne organizzarono in varie città d’Italia. Nel 1497 una grande piramide ottagonale  alta 30 braccia e di oltre 100 braccia di perimetro costituita da sette gradini come i peccati capitali prese fuoco ai quattro angoli a un segno convenuto mentre le campane del palazzo della Signoria diffondevano i rintocchi. Il carnevale del 1497 terminò così con il solo bruciamento senza altre feste con grande rincrescimento da parte del popolo. Savonarola godeva di vasto seguito ma togliere al popolo le feste era rischioso e non fu l’unico rischio che corse il frate. Ne uscì perdente. All’indomani del martedì grasso del 1497 si intensificarono le attività antifratesche e ben presto si affermò una nuova signoria contraria a Savonarola con il tumulto dell’Ascensione. Seguì il divieto di predicare per il frate il cui corpo venne bruciato il 23 maggio 1498 sulla stessa piazza dove era divampato l’anno prima il falò delle vanità. Per molti fu una festa: macabra, terribile ma partecipata.

Anche in occasione delle feste del calendimaggio (l’antica festa del primo maggio) si registrava la caduta delle regole e l’abbandono alla vitalità incontrollata. Il giorno di calendimaggio del 1304 un gruppo di fiorentini organizzò una rappresentazione dell’Inferno sul fiume Arno. Ne parlano le cronache. Su barche di varia foggia e misura vennero sistemati apparati scenici per riprodurre i luoghi e i supplizi dell’inferno con fantocci, graticole per arrostire i reprobi, caldaie piene di acqua bollente per bollirli, spiedi ed altro ancora. L’effetto sul pubblico di questo spettacolo sconvolgente fu enorme e duraturo il ricordo in considerazione anche del finale tragico con il crollo del ponte alla Carraia. Molti morirono per vedere la festa e così andarono di persona a verificare come erano le pene dell’Inferno, commenta sarcastico il cronachista Marchionne di Coppo Stefani.

Segnavano il tempo della festa anche giostre e tornei soprattutto fra XII e XIII secolo. Erano valvole di sfogo per giovani turbolenti ed esercizi di abilità per aristocratici che poi si trasformarono in vere e proprie feste aperte a più gruppi sociali anche a quanti non vivevano di rendita, ad esempio i soldati di professione. Le giostre erano un modo di guadagnare premi ambiti, spettacoli molto graditi, partecipati e noti a tutti tanto da originare il modo di dire: “Tutti corriamo il palio. A chi prima è a morire”.

Il tempo libero dal lavoro doveva servire a “prendersi consolazione” il che non per tutti significava mangiare a crepapelle o lanciarsi in attività aggressive bensì, all’opposto, darsi alla preghiera e alla penitenza. Poteva anche essere tempo dedicato allo studio e alla riflessione. Alla fine del medioevo in taluni ambienti intellettuali si venne affermando un nuovo concetto di svago sulla base di suggestioni del pensiero umanista. Contestualmente si è dilatata una riflessione sul valore economico del tempo fondata su una nuova razionalità applicata agli affari e in particolare ai titoli di restituzione maggiorata del denaro prestato. Nel valutare l’esigibilità di un interesse assunse sempre più rilievo  il trascorrere del tempo e la considerazione degli eventi che in quel tempo potevano prospettarsi, positivi o negativi che fossero. È l’epoca degli orologi nelle piazze e dello sviluppo del pensiero del francescano spirituale Pietro di Giovanni Olivi secondo il quale “il tempo… è realtà specifica per ogni singolo oggetto e… rispetto a ciascuna cosa appartiene per proprietà o per diritto a questo o a quello”. Il tempo diventa manifestamente un bene economicamente valutabile, qualcosa da non perdere, da investire per ricavarne il massimo profitto: siamo alle origini di molte forme del nostro attuale pensiero ivi compreso tormento del doverci divertire per forza in vacanza perché se no è tempo sprecato, un investimento sbagliato. Ottimo modo per rovinarci le vacanze!