Quando Bankitalia sfidò il partito unico del debito pubblico

Valerio Castronovo legge Leonida Tedoldi e Alessandro Volpi

Breve storia del disavanzo

Valerio Castronovo | il Sole 24 Ore | 8 giugno 2021

Ancora contenuta al 38,9% del Pil sino al 1970, da allora la spesa pubblica aveva cominciato a prendere il volo, in coincidenza con il terzo governo Rumor, a seguito di un uso politico smodato del deficit quale leva per l’acquisizione di consenso. Una specie di “keynesismo all’italiana”, poiché si basava sulla convinzione di poter finanziare e riassorbire il debito pubblico indefessamente e a basso costo. Sennonché lo stock del debito, che pareva ancora governabile sino a metà degli anni 70, era andato crescendo velocemente. Tanto che s’era reso necessario nel 1977 un prestito dall’Fmi, dopo quello dalla Germania che aveva voluto in garanzia una parte delle riserve auree di Bankitalia. L’anno dopo, però, non era stato più possibile dilazionare la nostra adesione all’iniziativa concertata fra il presidente francese Valéry Giscard d’Estaing e il cancelliere tedesco Helmut Schmidt, che aveva dato luogo nel marzo 1979 al Sistema monetario europeo. In questo contesto prese avvio la fase che portò al “divorzio” della Banca d’Italia dal Tesoro. Come risulta anche dalla Storia del debito pubblico in Italia. Dall’unità a oggi, di L. Tedoldi e A. Volpi (Laterza), il nuovo titolare del Tesoro Beniamino Andreatta dovette correre ai ripari dopo che il 22 marzo 1981 la lira era stata svalutata del 6% nell’ambito dello Sme e il tasso di sconto aveva raggiunto la quota record del 19 per cento. Era perciò, essenziale contenere la crescita della liquidità bancaria e arrestare l’inflazione. Banca d’Italia non poteva più finanziare in disavanzo attraverso una politica di espansione monetaria. Di qui l’esigenza di una modifica delle procedure di spesa e di distribuzione del reddito.

Ad assecondare la svolta di Andreatta servì solo momentaneamente l’allarme da lui lanciato nell’ottobre 1981 sul “potenziale devastante” dell’indebitamento pubblico, poiché avrebbe depauperato le risorse del Paese e ne avrebbero sofferto anche le nuove generazioni. Un piano d’azione triennale che includeva un consistente taglio della spesa statale, insieme all’aumento e delle tariffe di alcuni servizi pubblici, aveva suscitato un coro di proteste e Andreatta era riuscito a sollevare la Banca d’Italia dall’obbligo di assorbire i titoli del debito pubblico emessi dal Tesoro che non si erano collocati sul mercato.

Tuttavia tale era la pressione esercitata dai diversi gruppi d’interesse contrari o recalcitranti a un ridimensionamento della spesa pubblica che il rapporto debito/Pil balzò dal 63,1% del 1982 all’85,1% del 1985. Erano innanzitutto i dipendenti dello Stato a beneficiare di un’estensione della spesa pubblica, in quanto assicurava l’aumento dei posti di lavoro e percorsi più rapidi di carriera. A loro volta, varie componenti del ceto medio si avvantaggiavano degli allettanti tassi di rendimento dei titoli di Stato. Sulla presenza pubblica in economia facevano affidamento i sindacati per accrescere l’occupazione nelle imprese a partecipazione statale. In base a questo genere di consociativismo, esisteva dunque una sorta di “partito unico del debito pubblico”, di grosso blocco sociale, che traeva profitto dall’incessante aumento della spesa. Perciò il debito aveva continuato a salire. D’altronde l’eterogenea coalizione di governo fra Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli costituitasi nell’agosto del 1983, aveva seguitato a rimandare la decisione di porre uno stop al disavanzo pubblico. E l’opposizione Pci aveva rafforzato la sua presenza negli Enti locali, che continuavano a pompare soldi dallo Stato. In pratica, a opporre un argine agli sperperi dell’assistenzialismo e del clientelismo era rimasta solo la Banca d’Italia. Nel fortilizio di via Nazionale si sarebbero aperte grosse brecce, trasformandolo da banca centrale a semplice capogruppo, se la sua autonomia non fosse stata difesa tenacemente: in pratica se Ciampi non si fosse opposto con grande autorevolezza al disegno, concepito da una parte del mondo politico, di disgregare i flussi monetari per settori merceologici e non secondo logica macroeconomica. Ma per tanto tempo ancora la classe politica alla direzione del Paese sarebbe riuscita a padroneggiare la situazione grazie alla possibilità per l’Italia di scaricare, prima, sul cambio e, poi, sul debito le sue numerose anomalie in fatto di inflazione, spesa pubblica, evasione fiscale, iniquità distributiva, dualismo territoriale, conflittualità sociale, debolezze istituzionali e di governo. Finché, all’inizio degli anni 90, alla vigilia del trattato di Maastricht, l’opinione pubblica prese coscienza che si era giunti a raschiare il fondo del barile.

 

Scopri il libro: