Appesi a un ponte tibetano

Simone Donati e Carlo Melzi d'Eril leggono Glauco Giostra

Il processo penale permette di passare dalla «res iudicanda» alla «res iudicata» in un bilanciamento di interessi governato da mani sapienti e razionali.

Simone Donati e Carlo Melzi d’Eril, il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2020

Ci sono libri che leggi per piacere, libri che leggi per dovere, e libri che leggi perché finiscono per esserti utili. Quello che è appena uscito, di Glauco Giostra, Prima lezione sulla giustizia penale, per Laterza, un volumetto che disegna l’architettura del processo penale per non addetti ai lavori, vanta tutte e tre le caratteristiche. Prima di spiegare il perché, una confessione: entrambi noi, fin dalla più tenera età intellettuale, quella universitaria (prima pensavamo solo al pallone) ci siamo imbattuti negli scritti di Giostra. Laureandi e dottorandi in procedura penale, poi, siamo stati accaniti lettori dei suoi numerosissimi lavori. L’accanimento derivava dalla voglia di provare e riprovare quella emozione con cui si giravano le pagine, ognuna delle quali regalava un’idea, scioglieva un dubbio, semplificava un concetto complesso.

Più di vent’anni dopo, induriti dalla professione, e forse un po’ smaliziati dalla ricerca e dall’insegnamento, abbiamo preso in mano questo piccolo ma denso volume. Avevamo continuato a studiare gli interventi di Giostra, ma sempre per trovare un argomento a sostegno di una tesi. Questa volta abbiamo letto per imparare, come eravamo abituati da studenti e, forse, nel tempo, avevamo dimenticato. E abbiamo ritrovato la stessa emozione e capito perché ci troviamo davanti a uno dei rari esempi di testo con quelle tre caratteristiche di cui dicevamo.

Il piacere è quello di avere a che fare con una lingua ricca e sorprendentemente semplice: anche la letteratura scientifica ha autori capaci di scegliere la parola perfetta. Il dovere è, per così dire, deontologico: saremo schiavi del principio di autorevolezza, ma pensiamo che chi si occupa di processo penale deve leggere alcuni autori, tra cui il “nostro”. Infine, siamo convinti che questo libro sia utile a chiunque. In un’epoca di crisi dei corpi intermedi, in cui le istituzioni hanno perso la fiducia dei cittadini, l’opera di alfabetizzazione, ovvero divulgazione non banalizzante del sapere specialistico, è ancora più preziosa.

Giostra, espertissimo anatomopatologo, squaderna l’oggetto degli studi di una vita, ne spiega il funzionamento separando il grano della fisiologia dal loglio della patologia. Il processo è paragonato a «un ponte tibetano che consente di passare dalla res iudicanda (cioè il fatto da giudicare) alla res iudicata (cioè la decisione sull’esistenza del fatto e sul suo rilievo penale) che è destinata a valere pro veritate per l’intera collettività». Le disposizioni sono denudate, ne è scoperta la ragion d’essere, per ricondurre le regole di dettaglio a una cornice che ne svela il senso profondo. Improvvisamente tutto diventa così chiaro da riuscire a percepire il peso e la responsabilità delle scelte che stanno alla base di disposizioni: frutto di una «metabolizzazione socio-culturale spesso secolare» esse esprimono il nostro modo di intendere il rapporto tra Autorità e Individuo. In questo senso, a ragione, la giustizia penale può essere considerata «la più fedele carta d’identità di un popolo».

Nel compiere questa operazione, prima di tutto culturale, Giostra si fa maestro di metodo: in un mondo malinconicamente testardo nella direzione opposta, egli mostra che problemi complessi non consentono soluzioni condensabili in uno slogan. Ogni passo dell’iter verso la decisione è cadenzato da norme che costituiscono la colatura di un bilanciamento di interessi. Un bilanciamento che, per stare in equilibrio, deve essere governato da una mano delicata, insieme sapiente e razionale. Delicata per evitare crolli, sapiente per trovare la migliore distribuzione dei pesi, e razionale per rendere sopportabile quell’atto «terribile e odioso», come direbbe Luigi Ferrajoli, dell’uomo che giudica l’uomo.

Diamo un assaggio di questo metodo. L’autore affronta nelle prime pagine il “nocciolo laico” dell’assolvere e del condannare. Un compito definito «necessario» perché «una società non può lasciare privi di conseguenze comportamenti incompatibili con la sua ordinata sopravvivenza» ma anche «impossibile, perché non siamo in grado di conoscere la verità. O, meglio, non possiamo mai avere la certezza di averla conseguita». Il filo del discorso è ripreso nell’epilogo del libro, ove si rammenta l’intento delle pagine precedenti: «cogliere le difficoltà e i limiti dell’umana necessità di giudicare». Ecco subito un ammonimento: «la consapevolezza di queste inadeguatezze dovrebbe consigliarci di guardare con disincantata prudenza agli esiti processuali» che precede la «grande lezione»: «l’irrinunciabilità etica e politica di questa nostra giustizia imperfetta, amministrata da uomini imperfetti, ma indipendenti da ogni potere e soggetti soltanto alle imperfette regole a cui la collettività chiede loro di attenersi». La chiusa del ragionamento, e del libro, però, propone un impegno e suggerisce una speranza, così corroborante che, di questi tempi, merita di essere riportata per intero: «ci lasciamo, dunque, dove ci siamo incontrati: dinanzi a un ponte tibetano malfermo, fragile, dal costrutto contorto, insopportabilmente lungo. Ricordiamoci di tenercelo caro, questo ponte. Magari commiseriamone l’inadeguatezza, ma impegniamoci a difenderlo da chi intende reciderlo, perché passa comunque molto al di sopra di quell’intollerabile realtà di soprusi, di discriminazioni, di repressione del dissenso, di emarginazione delle minoranze, di imposizione di dommi politici o religiosi, di repressione rivoluzionaria, che troppo spesso, a tutte le latitudini della storia e della geografia, prende abusivamente il nome di giustizia». Ci hanno insegnato che le migliori recensioni sono quelle che contengono luci e ombre. Arrivati alla fine, ci siamo accorti di esserci concentrati sulle prime, dimenticando le seconde. Veniamo alle ombre, allora. La nostra consolidata esperienza di correttori di bozze ci ha permesso di trovarne una: nel testo, a pagina 138, manca una parola. L’aggiungeranno nella seconda edizione.