Recovery, un piano verso il futuro senza un disegno chiaro

Roberto Ciccarelli intervista Gianfranco Viesti

Intervista all’economista Gianfranco Viesti: «Il piano approvato senza discussione pubblica. E un errore grave: il confronto avrebbe potuto migliorarlo. Manca un chiaro disegno sul futuro, una visione d’insieme emerge mettendo insieme i pezzettini»

Roberto Ciccarelli, il manifesto, 29 aprile 2021

Rispetto agli oltre cinque triliardi di dollari destinati negli Stati Uniti all’economia, i 750 miliardi del Next Generation europeo sono piccola cosa. A Gianfranco Viesti, docente di economia all’università di Bari e autore di Centri e periferie. Europa, Italia Mezzogiorno dal XX al XXI secolo (Laterza) chiediamo se saranno sufficienti per la «crescita». «Dipende da come saranno spesi. Ai fondi stanziati dalla Commissione Ue vanno aggiunti quelli nazionali – risponde – Nel presidente Biden vedo tuttavia una capacità di intervento molto maggiore rispetto a quella che c’è oggi in Europa. Dobbiamo essere più ambiziosi. Alla crescita descritta come sostenibile ecologicamente dovrebbe aggiungersi una inclusiva socialmente. Per crescita oggi si intende il recupero del «gap» di produzione provocato dal Covid. Non basta senza maggiore inclusione dei cittadini, con salari decenti, istruzione, salute, partecipazione alla vita collettiva. Il progetto europeo avrà un futuro, spero, se produrrà benefici per tutti gli europei e non solo per i ceti medio-alti favoriti dai cambiamenti della tecnologia e dell’economia. Il Covid rischia di esasperare queste fratture. Il piano europeo non risolve i problemi, ma potrebbe essere un primo passo importante per rilanciare l’idea dell’Europa.

Nel piano di ripresa e resilienza del governo Draghi si sostiene che gli investimenti porteranno 750 mila occupati in cinque anni. Solo il primo anno di pandemia ha creato 950 mila senza lavoro. Che tipo di occupazione è quella prevista dal piano?

È una grande incognita. Se fosse un’occupazione diversa, questa stima modesta quantitativamente andrebbe letta insieme a un miglioramento qualitativo. Occupazione migliore significa a tempo indeterminato, con condizioni migliori di lavoro, sia nel privato che nel pubblico. Spero che il piano di ripresa riesca a provocare aspettative diffuse di miglioramento e porti a una nuova stagione di investimenti da parte delle imprese. Questo è il momento più difficile per attendersi investimenti spontanei da parte delle imprese, vista l’incertezza. È la leva pubblica che può cambiare lo scenario.

Se e quando cambierà il blocco dei licenziamenti quali potrebbero essere gli effetti sulla ripresa?

Non lo sappiamo, c’è molto timore perché soprattutto nei servizi e nelle piccole imprese potrebbe esserci una sensibile distruzione di posti di lavoro. Sappiamo che una possibile crisi occupazionale sarà selettiva. Non me la aspetto nell’industria che funziona abbastanza regolarmente, non nell’edilizia che riprenderà. Il nodo sono i servizi alle persone a cominciare da commercio, alberghi e ristoranti. È una situazione nuova: nelle recessioni precedenti crollava l’industria mentre i servizi tenevano. Ora è diverso. Ma non facciamo i profeti di sventura. Nell’estate dell’anno scorso c’è stata un rimbalzo importante. Potrebbe ripetersi.

Si parla di una conversione sociale ed ecologica della crescita economica. Non c’è il rischio che sia solo un restyling «green» del capitalismo?

Sì, questo è il difetto d’origine di questo piano creato in un paese molto poco abituato a pensare al proprio futuro che ragiona solo sui tempi brevi. È stato approvato da un governo tecnico senza una discussione pubblica. È un errore grave: una discussione pubblica avrebbe potuto produrre non solo un miglioramento di molti aspetti tecnici, ma anche una maggiore condivisione.

Ma c’è un’idea di paese da oggi al 2026?

Non l’ho trovata, ma un’immagine complessiva non c’era nemmeno nel piano di Conte. Non è difficile capire perché. E il risultato del fatto che non si parla di futuro da vent’anni. Se negli anni Settanta c’era una dirompente voglia di cambiare le cose, oggi viviamo in un periodo di eccesso di adattamento alla realtà. Tuttavia, mettendo insieme i vari pezzettini del piano, si potrà costruire un quadro d’insieme più positivo.

Si preparano 57 nuove grandi opere, commissariamenti e «semplificazioni». È questo lo sviluppo sostenibile?

Si finanziano i grandi collegamenti ferroviari. S–e avessi fatto io il piano avrei investito molto di più nelle ferrovie regionali e soprattutto sulle reti urbane. Avrei anche dedicato molte più risorse per interventi integrati fisici e immateriali nelle città. Le città sono il punto decisivo dell’Italia perché sono i luoghi dell’esclusione sociale e della diseguaglianza, ma anche il possibile terreno di una nuova occupazione terziaria- Vedremo. La consegna del piano a Bruxelles non chiude il discorso. Bisognerà vedere come sarà attuato e quali saranno gli effetti dei progetti. I prossimi 12-18 mesi saranno molto importanti anche per indirizzare in maniera opportuna le risorse.

II piano dovrebbe destinare il 40% dei fondi al Sud, ma ci sono molte incognite. Ci aiuta a fare un po’ d’ordine?

Non mi pare che ci sia ancora un quadro chiarissimo. Ci sono cifre sui totali, ma manca ad esempio l’indicazione di quanto sarà speso nel Sud per i nuovi progetti, escludendo quelli «vecchi». Il Sud potrebbe diventare il cuore del progetto: non solo produrre energia ma sviluppare tecnologie e imprese nelle rinnovabili così come nell’economia circolare. In che modo i rifiuti da tragedia diventano un’occasione di buon lavoro e buona impresa? E in che modo sui grandi servizi come scuola e sanità si intende riequilibrare gli effettivi diritti di cittadinanza, oggi assai diversi? Questo non dipende solo dagli investimenti sulle case della salute o sull’edilizia scolastica, ma anche dalle risorse correnti.

La pandemia ha rivelato la crisi nel rapporto tra stato e regioni nella sanità e nella scuola. Il piano del governo non ne parla. Lei ritiene che sia necessaria una riforma del titolo quinto della costituzione?

È un problema serissimo. Parte della soluzione può essere di tipo giuridico istituzionale, come una clausola di supremazia. Resto però convinto che il nodo sia di carattere politico. L’eccesso di protagonismo dei presidenti delle regioni è il frutto contemporaneo della debolezza dei governi nazionali e di quella dei partiti che creano dialogo e condivisione tra le élite locali e nazionali.

 

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