Potere e identità

Un estratto da “A tutto campo”, l’ultima intervista a Zygmunt Bauman

Modernità: della costrizione a non essere nessuno, o a diventare un altro

Un estratto da “A tutto campo”, l’ultima intervista a Zygmunt Bauman

 

Peter Haffner Fra gli autori che L’hanno influenzata in maniera significativa, ce ne sono due che non provengono dal recinto della Sua specializzazione, cioè dalla sociologia: lo scrittore Franz Kafka e lo psicologo Sigmund Freud. Che cosa hanno da dirci sulla conditio humana del presente, sulla nostra vita?

Zygmunt Bauman È difficile rispondere a questa domanda. Come si può indicare a dito quello che ci insegnano oggi? Il pensiero del presente è un prodotto collettivo di autori come loro. Una volta che un’idea diventa di dominio comune, è morta, perché nessuno si ricorda più da dove viene. Appartiene ormai alla classe delle cose autoevidenti. Kafka fu assolutamente rivoluzionario, e Freud fu assolutamente rivoluzionario. Ma quando noi oggi riflettiamo su di loro, ci appaiono semplicemente ortodossi. Le idee cominciano la loro vita come eresie, la proseguono fino a diventare ortodossia, e la finiscono come superstizioni. Questo è il destino di ogni idea nella storia. Kafka e Freud sono già uniti nella «doxa», nel senso della filosofia greca, cioè come opinione universalmente riconosciuta.

P.H. Che cosa c’era, dunque, di rivoluzionario in Kafka?

Z.B. La sua analisi del potere e della colpa. Il processo e Il castello sono due documenti fondamentali della modernità. A mio avviso, nessuno dopo Kafka è riuscito a migliorare l’analisi del potere. Prendiamo Il processo. Un tale viene accusato. Egli vorrebbe sapere di che cosa è accusato, ma non ha modo di scoprirlo. Vorrebbe giustificarsi, ma non sa per che cosa. È pieno di buona volontà e deciso a pellegrinare presso tutte le istituzioni che possano dargli informazioni al riguardo. Cerca inutilmente di arrivare al processo. Alla fine, viene giustiziato senza sapere in che cosa consista la sua colpa. La sua colpa consiste nel fatto di essere stato accusato.

P.H. Il principio base della procedura penale di uno Stato di diritto è la presunzione di innocenza: fin tanto che la colpa non è provata, chiunque va considerato innocente.

Z.B. Kafka mostra che le cose vanno in maniera diversa. Poiché gli innocenti non sono accusati, chi è accusato dev’essere colpevole. Il fatto di essere ritenuto colpevole rende Josef K., il protagonista del romanzo, criminale. È lui che deve dimostrare la sua innocenza. Ma per poterlo fare, deve sapere di che cosa viene incolpato. Ma non lo sa, e nessuno glielo dice. È una situazione tragica.

P.H. E nel Castello?

Z.B. L’eroe del romanzo, un certo K., presume che delle persone molto in alto nel castello siano esseri razionali. Certo, non ha confidenza con loro né loro ne hanno con lui; tutto è misterioso, non trasparente e inavvicinabile. Egli lotta inutilmente per ottenere il riconoscimento della propria esistenza professionale e privata. Ma K. crede comunque che i funzionari del castello si comporteranno in maniera razionale, e che lui potrà parlare con loro del motivo, della causa della sua sconfitta. Kafka ci dice poco su questo K., ma dal testo si capisce che è presumibilmente una persona colta. È un uomo razionale, uno che, come dice Max Weber, sceglie i mezzi giusti per i suoi obiettivi dando per presupposto che gli altri pure operino in maniera razionale. Ma le cose non stanno così, e questo è il suo errore peggiore. Poiché il potere degli abitanti del castello consiste proprio nel fatto che si comportano in modo irrazionale. Se si comportassero in maniera razionale, si potrebbe trattare con loro, li si potrebbe probabilmente convincere o si potrebbe combattere contro di loro e forse vincere. Ma se sono irrazionali, se il loro potere consiste nella irrazionalità, è impossibile farlo.

[…]

P.H. Che cosa significa Sigmund Freud per Lei?

Z.B. Freud, come Kafka, è diventato parte del nostro pensiero. Un bene comune, per così dire. Per noi, oggi, concetti come inconscio, «Es» e «Io» e «Super-io», sono familiari. Il filosofo, sociologo e psicologo americano George Herbert Mead, che ha fornito un contributo essenziale alla questione della identità, non usa questi termini, ma intende sostanzialmente la stessa cosa quando parla di I e Me, di «Io» e «Me». «Io» sono quello che viene dal mio pensiero, quello che sono veramente, quello che è autentico. Ma io sono diviso in due, perché a questo «Io» che viene dall’interno si aggiunge dall’esterno il «Me», quello che le persone intorno a me pensano di me, come mi vedono, come credono che io sia in realtà. La nostra vita è una lotta per la coesistenza amichevole fra l’«Io» e il «Me». Questo è un altro modo di raccontare la storia raccontata da Sigmund Freud.

P.H. Mead diceva che l’individuo riceve la sua identità tramite l’interazione con altri individui. Ci sono più «Me» diversi, e compito dell’«Io» è di sintetizzarli in una immagine unitaria di sé. L’identità nella modernità «liquida» o «fuggevole» di oggi ha qualcosa a che fare con questa interazione, ma è molto più complessa. Ognuno ha ora non più solo tanti «Me» ma anche tanti «Io». Di questo Lei si è occupato soprattutto.

Z.B. L’identità è oggi una questione di negoziazione. È, in effetti, liquida: noi non siamo nati con una identità data una volta per tutte, che non cambia mai. Di più: possiamo avere diverse identità contemporaneamente. In una conversazione su Facebook Lei può scegliere una identità, nella successiva conversazione un’altra. Può cambiare di volta in volta la Sua identità, ci sono identità che vanno di moda. Questo gioco combinato di «Io» e «Super-io» o di «I» e «Me» è parte del nostro compito quotidiano. Freud preparò il terreno per questo gioco.

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P.H. L’identità, oggi – dice il sociologo francese François de Singly –, non ha più radici. Alla metafora delle radici, egli preferisce quella dell’àncora. Diversamente dall’abbandono delle proprie radici, che è rinuncia alle tutele sociali, il levar l’àncora non ha niente di irrevocabile o definitivo. Che cosa non La convince in questa impostazione?

Z.B. Può diventare un altro solo chi cessa di essere chi era. Egli deve rigettare continuamente quello che è stato il suo Io fino ad allora. Di fronte alle continue nuove possibilità quel suo Io gli appare ben presto come non moderno, inappropriato e insoddisfacente.

P.H. Non ha qualcosa di liberatorio, il fatto che uno possa cambiare? In America, nel Nuovo Mondo, il mantra era ed è: scopriti di nuovo!

Z.B. Per la verità, non è una strategia nuova quella di darsela a gambe quando la situazione diventa scabrosa. È quello che sempre hanno cercato di fare gli uomini. Ma è nuovo il desiderio di sottrarsi assegnandosi un nuovo Sé scelto dal catalogo. E quello che all’inizio poteva essere stato l’approdo consapevole su nuove sponde, si trasforma rapidamente in una ossessiva routine. Il liberatorio «puoi diventare un altro» diventa il costrittivo «devi diventare un altro». Questo «devi» ha poco a che fare con l’agognata libertà, e molti vi si ribellano proprio per questo motivo.

P.H. Che significa, allora, essere libero?

Z.B. Essere liberi vuol dire poter perseguire i propri desideri e obiettivi. L’arte di vivere orientata al consumo, che è tipica della modernità liquida, promette certo questa libertà, ma non realizza quel che promette.

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P.H. Quali altri autori oltre a Kafka, Freud e Simmel citerebbe, fra quelli che L’hanno influenzata in maniera particolare?

Z.B. Molti hanno avuto un ruolo nel mio pensiero, ognuno col suo stile, la sua peculiarità. Antonio Gramsci l’ho già ricordato: non potrò mai sottolineare abbastanza quanto io gli sia debitore. Egli mi ha permesso una onorevole presa di distanza dal marxismo. Solo grazie a lui riuscii a cessare di essere un marxista ortodosso senza diventare un antimarxista. Il mio amico Leszek Kołakowski non poté farlo. Egli riuscì a prendere congedo dal marxismo solo diventando antimarxista. Probabilmente non aveva letto Gramsci, non so. Antonio Gramsci è uno dei filosofi più brillanti, umani, che io conosca.

P.H. E fra i pensatori più recenti?

Z.B. Fra questi ultimi, mi è particolarmente vicino Claude Lévi-Strauss, che va considerato come il fondatore dello strutturalismo etnologico. C’è stato un tempo della mia vita, alla fine degli anni Sessanta, in cui ero completamente preso, incantato da Lévi-Strauss. Che cosa ho preso da lui? Devo precisare che io sono molto eclettico, attingo dovunque trovi qualcosa di eccitante, che si innesta bene nel mio pensiero, ma non mi sento obbligato ad accettare il pensatore in sé. Da Lévi-Strauss ho preso l’abolizione dell’idea di cultura come corpo unitario. Anziché riflettere sulle culture, sulla loro diversità, egli parlava di modalità di approccio universali. Non usava la parola «cultura», ma la parola «struttura». È entrato nella storia come strutturalista. Ma in realtà egli ha rinunciato all’idea di una struttura, di un’organizzazione data, di un assetto fisso delle cose. Insisteva sulla universalità dello strutturarsi. La struttura è per lui un’attività. Non un corpo, ma un’attività in un certo senso incerta, che non finisce mai. Nulla è costituito una volta per tutte, le strutture non sono fossilizzate, pietrificate, immutabili. E proprio così io cerco di descrivere la realtà, le realtà sociali, la loro dinamica. La cultura sta al centro delle mie ricerche come un processo dinamico, che non è mai compiuto.

 

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