Il lato violento dell’Italia

Benedetta Tobagi legge David Forgacs

Dalla Grande guerra alle torture del G8, David Forgacs analizza il modo in cui la ferocia di Stato è usata come messaggio

Benedetta Tobagi, Robinson, 30 gennaio 2021

La violenza si intensifica quando il potere viene meno: questa massima, formulata da Hannah Arendt nel 1969, è la chiave di lettura principale attraverso cui David Forgacs, decano dei cultural studies, scandaglia corsi e ricorsi della violenza in Italia dall’Unità ai nostri giorni. Attraverso dodici capitoli, dalle esecuzioni dei disertori durante la Grande guerra alle squadracce fasciste, dalle atrocità coloniali alla guerra civile, dagli stupri di guerra alla violenza diffusa degli anni Settanta, dalle torture di polizia del G8 alle recenti aggressioni a sfondo razziale, Messaggi di sangue (Laterza) analizza il modo in cui gli atti di violenza pubblica sono usati come messaggi, come i mezzi di comunicazione li abbiano trattati e quale impronta abbiano lasciato nella memoria collettiva, lavorando, come nel precedente Margini d’Italia, su una vasta gamma di fonti tra cui spiccano fotografie, filmati, canzoni popolari, opere letterarie e cinematografiche.

Forgacs si concentra soprattutto sulle forme di violenza agite dallo Stato, dai suoi rappresentanti o con la sua connivenza, data la particolare frequenza e gravità con cui si sono manifestate nella nostra storia, rispetto ad altri Paesi europei. Pensiamo al terrorismo, per esempio: omologhi delle Brigate rosse sono apparsi anche altrove, mentre lo stragismo con coperture istituzionali resta una tragica specialità nostrana. La scarsa legittimazione dei poteri governativi ha radici profonde nel circolo vizioso ricorso per cui violenza è spesso la risposta a una debolezza del potere (come fu la repressione del banditismo nel Sud postunitario), ma l’abuso di potere alimenta la sfiducia, erodendo ulteriormente la legittimazione, Weber docet.

Il contesto “significa” le immagini e determina l’impatto che hanno sul pubblico. L’esibizione sulle prime pagine dell’Ora di Palermo degli scatti di Letizia Battaglia sulla scena dei delitti mafiosi alimenta l’empatia per le vittime e lo sdegno verso Cosa Nostra, di cui mette a nudo la natura feroce, contro ogni mitizzazione romantica: una dinamica del tutto diversa rispetto al voyeurismo morboso che caratterizzava la pubblicazione di immagini analoghe nella cronaca nera statunitense negli anni Quaranta.

La propaganda per immagini diventa anch’essa terreno di battaglia. Nel 1865, alle cartoline della fiera brigantessa Michelina Di Cesare in costume tradizionale che brandisce il fucile (antesignana dell’affascinante dirottatrice palestinese Leila Khaled in kefiah e mitra), il Regno rispose diffondendo dopo la cattura immagini degradanti del suo cadavere martoriato a seno nudo. Questa lotta si serve anche della “risignificazione” delle immagini diffuse dal nemico: quando il regime espone i cadaveri degli antifascisti, allo scopo di degradarli e insieme incutere terrore, la stampa clandestina li trasforma in martiri.

L’ampiezza dell’arco temporale consente di mettere in evidenza analogie tra eventi lontani, per esempio tra gli eccessi nella gestione dell’ordine pubblico a Genova nel 2001 e la repressione cruenta dei moti di piazza milanesi nel 1898, in cui, tra l’altro, si osservano all’opera le prime embrionali forme di “controinformazione” e di reportage fotografico di denuncia sociale.

Forgacs gestisce una materia vasta e complessa con grande chiarezza argomentativa e concettuale. Inoltre, nella migliore tradizione della storiografia anglosassone, scrive in modo limpido e insieme coinvolgente. Dato la centralità della dimensione comunicativa, il libro si chiude con una nota sulla pericolosità dei nuovi strumenti informatici, che ampliano a dismisura la possibilità di diffondere e amplificare i “messaggi di sangue” a costo zero. E in verità, seguendo il dipanarsi di alcuni fili nel lungo periodo, sono molte le riflessioni su temi d’attualità, non solo italiana, stimolate da questo saggio. L’ondata di azioni contro statue e monumenti, per esempio, mostra come, sebbene spesso ci voglia molto tempo perché ingiustizie e abusi di potere siano riconosciuti come tali, un potente bisogno di riconoscimento, seppur tardivo, del significato e delle implicazioni di ciò che è accaduto sopravviva intatto. La violenza è culturalmente variabile, nello spazio e nel tempo, ma ciò non deve impedire di riconoscerla comunque come tale, a posteriori (triste leitmotiv, agli abusi di norma segue invece un lungo oblio, e lo Stato non chiede mai scusa, né tantomeno si assume le responsabilità).

L’enfasi sul nesso tra perdita di potere e ricorso alla violenza, infine, invita a guardare da una diversa prospettiva fatti come il recente assalto a Capitol Hill. Senza sminuirne la gravità, questa poderosa fiammata è un’implicita manifestazione di debolezza, che non deve distoglierci dall’osservare con speranza le poderose, pacifiche mobilitazioni democratiche in Georgia e nel resto del Paese. Perché, come insegnava Gandhi, la non violenza non ha nulla a che vedere con l’impotenza, bensì è la suprema virtù del coraggioso.

 

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