Capitolo quinto.
Nell’era delle masse
Con la Rivoluzione francese è iniziata l’era delle masse, nella quale tuttora viviamo.
Ed è iniziata, con Napoleone Bonaparte, l’era di nuovi capi dotati di straordinari
poteri personali, eletti o acclamati delle masse, che hanno esercitato il potere con
idee, metodi, mezzi, scopi e risultati così diversi e opposti, da lasciare avvolta
in una perenne incertezza la possibilità di realizzare effettivamente “il governo
del popolo, dal popolo, per il popolo”.
Nell’era delle masse sono avvenute guerre e rivoluzioni mondiali, combattute in nome
e per il bene del popolo, sacrificando milioni di persone di quello stesso popolo
in una lotta mortale di capi e di masse schierate su fronti opposti, per negare o
per affermare il diritto dei governati a eleggere e revocare pacificamente i propri
governanti.
Talvolta è stato proprio questo diritto a consentire le più antidemocratiche esperienze
di potere personale di un capo. Ma lo stesso diritto ha consentito ai governati di
eleggere all’esercizio del potere i più strenui difensori della democrazia. L’oscillazione
fra queste opposte esperienze, che si sono alternate nel corso degli ultimi duecento
anni, ha reso sempre incerta la previsione sul futuro del “governo del popolo, dal
popolo, per il popolo”.
È il grave paradosso della democrazia nell’era delle masse, iniziato con l’avvento
al potere di Napoleone Bonaparte, il primo capo che abbia imposto un regime di governo
personale chiedendo e ottenendo dai governati, attraverso un plebiscito, la rinuncia
volontaria alla libertà e al diritto di eleggere e revocare i governanti. E poiché
la rinuncia è avvenuta in nome della sovranità del popolo, l’avvento dell’impero napoleonico
può essere considerato la prima esperienza della “democrazia recitativa” nell’era
delle masse: formalmente democrazia, di fatto governo del capo.
Io sono la rivoluzione
Nel 1792 Robespierre si era opposto alla dichiarazione di guerra della Francia all’Austria
perché temeva che avrebbe aperto la strada alla dittatura militare. Il capo del governo
rivoluzionario aborriva la dittatura, e dichiarò che avrebbe preferito un’assemblea
rappresentativa di liberi cittadini governati da un re piuttosto che un «popolo di
schiavi» governato da un dittatore. Due giorni prima di essere ghigliottinato, l’Incorruttibile
aveva messo in guardia contro gli «effetti magici» della dittatura di un capo, «che
corrompe la libertà, avvilisce il governo, distrugge la Repubblica, degrada tutte
le istituzioni rivoluzionarie, presentate come l’opera di un solo uomo; rende odiosa
la giustizia nazionale, presentata come istituita dall’ambizione di un solo uomo».
Come Robespierre aveva paventato, fu la guerra a favorire nella repubblica francese
l’avvento al potere di un generale vittorioso, emerso dalla moltitudine anonima dei
sudditi dell’antico regime. Fu durante la vittoriosa campagna d’Italia nel 1796 che
il giovane Napoleone Bonaparte, comandante generale a ventisette anni (era nato in
Corsica nel 1769 da una famiglia di origini italiane) ebbe la consapevolezza di non
essere «più un semplice generale ma un uomo chiamato ad influire sulle sorti di un
popolo», ad essere «un attore decisivo sulla nostra scena politica».
Geniale nell’arte militare, Bonaparte fu altrettanto geniale nel servirsi della propaganda
per trasfigurare la sua persona da sconosciuto ufficiale in un capo leggendario aureolato
di gloria, esaltando le sue imprese e le sue vittorie con i proclami, i bollettini
di guerra, e i giornali fatti pubblicare da lui stesso per osannare i suoi successi.
Stampe popolari, poesie, canzoni furono dedicate alle sue gesta. Poi, asceso al potere,
grandi artisti come Jacques-Louis David, Antoine-Jean Gros e Auguste-Dominique Ingres
parteciparono alla creazione della leggenda napoleonica con i loro dipinti, che lo
ritraevano in pose eroiche, da quella di audace generale in guerra fino all’apoteosi
imperiale.
Della rivoluzione il giovane Bonaparte aveva accettato l’abolizione del privilegio
ereditario e l’eguaglianza civile dei cittadini, ma senza condividerne gli ideali
democratici né la partecipazione delle folle. Per Bonaparte, nonostante le sue iniziali
simpatie giacobine, le folle rivoluzionarie erano la plebaglia, la «vile canaglia»,
come la definì dopo aver assistito alla giornata del 10 agosto.
Bonaparte riconosceva il principio della sovranità popolare, lo considerava anzi «l’unica
cosa che noi abbiamo ben definito», ma non credeva alla capacità del popolo di governarsi
da sé. «Gli uomini non nascono per vivere liberi», perché «la libertà è un’esigenza
sentita da un piccolo gruppo di persone, che la natura ha dotato di una mente più
nobile rispetto alla massa degli uomini. Di conseguenza, può essere repressa impunemente.
L’uguaglianza, invece, contenta le masse».
Dopo il colpo di Stato del 9-10 novembre (18-19 brumaio) 1799, con una serie di riforme
costituzionali approvate dagli organi della repubblica e confermate dal voto plebiscitario
del popolo, Napoleone si fece proclamare il 18 maggio 1804 imperatore dei francesi,
incoronandosi con le proprie mani, il successivo 2 dicembre, in una fastosa cerimonia
celebrata nella cattedrale di Notre-Dame alla presenza del papa. Dando origine a una
propria dinastia, Napoleone volle rappresentarsi come un novello Carlo Magno, rinnovatore
dell’impero romano e unificatore dell’Europa. Tutto ciò sempre proclamando di agire
per la salvaguardia dei princìpi e delle conquiste della Rivoluzione francese, perché
«io sono la rivoluzione», come disse il 24 dicembre 1800, dopo essere scampato a un
attentato.
Imperatore della rivoluzione
Assicurato il predominio della nuova borghesia e dei notabili; garantita ai contadini
l’acquisizione definitiva delle terre espropriate alla nobiltà e al clero; eliminati
brutalmente i residui rivoltosi della Vandea e gli ultimi estremisti rivoluzionari;
consacrati i diritti di proprietà, di uguaglianza e di libertà in un nuovo codice
civile, Napoleone proclamò che «la rivoluzione, rimasta fedele ai princìpi in nome
dei quali ebbe inizio, è finita», presentandosi come l’interprete della volontà generale
del popolo francese, al di sopra delle fazioni, che avevano diviso la repubblica minacciandone
la rovina.
Fece perciò appello a tutti i francesi, dai nobili emigrati ai giacobini arrabbiati,
affinché si unissero «tutti alla massa del popolo» nella nazione una e indivisibile.
Inoltre, nel 1801 attuò la pacificazione religiosa con il Concordato fra la repubblica
e il papa, considerando la fede religiosa e l’apparato liturgico della Chiesa uno
strumento fondamentale per il governo delle masse: «Per il popolo, una religione ci
vuole», dichiarò alla vigilia del Concordato, perché non «può esserci ordine in uno
Stato senza la religione». E i suoi argomenti per sostenere tale affermazione suonavano
come una restaurazione del recinto sacro della Chiesa e del re:
La società non può esistere senza la diseguaglianza delle fortune, e la diseguaglianza
delle fortune non può esistere senza la religione. Quando uno muore di fame accanto
a un altro che rigurgita di cibo, gli è impossibile accettare una tale differenza
se non c’è un’autorità che gli dica: “Dio vuole così; bisogna che ci siano dei poveri
e dei ricchi nel mondo; ma poi, e per tutta l’eternità, la spartizione dei beni si
farà diversamente”.
Nei confronti delle masse, se non erano quelle dei suoi soldati fra i quali viveva
durante le campagne militari, Napoleone nutrì insofferenza e disprezzo. Quando fu
progettata la cerimonia dell’incoronazione imperiale, qualcuno propose di celebrarla
nel Campo di Marte, in ricordo della festa della Federazione, ma l’imperatore rifiutò
risolutamente:
i tempi sono cambiati. Il popolo, allora, era sovrano, tutto doveva essere fatto davanti
a esso: stiamo attenti a non fargli pensare che le cose stiano sempre così. Il popolo,
oggi, è rappresentato dai poteri legali. Io, poi, non riuscirei a vedere il popolo
di Parigi, né tanto meno quello francese, in venti o trentamila pescivendole o in
altra gente di quella specie che invadesse il Campo di Marte; non ci vedo che la plebaglia
ignorante e corrotta di una grande città. Il vero popolo, in Francia, sono i presidenti
dei cantoni e i presidenti dei collegi elettorali; il vero popolo è l’esercito, nei
cui ranghi sono i soldati di tutti i comuni della Francia.
Per l’incoronazione scelse la cattedrale di Notre-Dame perché «è più adatta, perché
è più vasta e conserva ricordi, che parlano con maggior forza all’immaginazione; essa
darà alla cerimonia un carattere di grande solennità».
Nell’arte di governo, Napoleone attribuiva grande importanza all’immaginazione:
è grande la potenza dell’immaginazione. Ci sono uomini che non mi conoscono, che non
mi hanno mai visto; avevano soltanto sentito parlare di me, e cosa non farebbero per
me! Ecco cosa fa il fanatismo! Sì, l’immaginazione governa il mondo. Il difetto delle
nostre moderne istituzioni è che non hanno niente che parli all’immaginazione. Soltanto
con essa si può governare l’uomo; senza l’immaginazione l’uomo è un bruto.
Per esaltare il riconoscimento del merito come unico fondamento per entrare a far
parte della nuova aristocrazia del regime napoleonico, fu istituita nel 1802 l’onorificenza
della Legion d’onore. A quanti deridevano le onorificenze chiamandole “ciondoli”,
Napoleone replicò: «È coi ciondoli che si guidano gli uomini».
Pur fondando il suo potere su un immenso e capillare apparato poliziesco, Napoleone
considerava altrettanto importante il “governo dell’opinione pubblica”. Per questo,
insieme al controllo rigoroso della stampa, istituì un imponente apparato simbolico
e rituale per rappresentare la sovranità nazionale e la grandezza della Francia, identificandole
con la glorificazione della sua persona come capo civile e politico, oltre che genio
militare: «Io – disse nel 1802 – non governo in quanto generale, ma perché la nazione
ritiene che io possegga le qualità civili proprie di chi debba governare; se essa
non pensasse così, il governo non potrebbe reggersi».
Il culto degli eroi
Napoleone fu il primo capo nell’era delle masse che realizzò una personalizzazione
del potere con un consenso plebiscitario, presentandosi come un uomo nuovo, figlio
della rivoluzione: «Io sono venuto dal popolo, mi sono fatto da me», affermò nel 1800;
«La mia politica è quella di governare gli uomini come vuol esser governata la maggioranza.
È questo, mi sembra, il modo di riconoscere la sovranità del popolo».
Fallito come creatore di un impero dinastico, Napoleone fu il fondatore della democrazia
recitativa, il capostipite di alcune generazioni di nuovi capi venuti dal popolo che
nel corso dell’Ottocento e soprattutto durante il Novecento, con il consenso del popolo
e in suo nome, hanno usato il potere personale per negare ai governati il diritto
di scegliere e revocare i governanti.
Napoleone generò un mito popolare che sopravvisse alla disfatta militare, alla fine
del suo impero nel 1815, al ritorno della monarchia borbonica in Francia e alla restaurazione
nel continente europeo del potere delle teste coronate per diritto divino. Prigioniero
nell’isola di Sant’Elena, costruì in prima persona questo mito con il racconto delle
sue memorie, nelle quali si raffigurava come strenuo difensore dei principi e delle
conquiste della rivoluzione, che aveva combattuto contro i sovrani dell’antico regime
per dare la libertà a tutti i popoli. Il mito di un Napoleone campione della democrazia
divenne popolare in Francia soprattutto dopo il ritorno delle ceneri dell’imperatore
a Parigi, il 14 dicembre 1840.
La cultura romantica contribuì a consolidare questo mito fra le nuove generazioni,
che esaltarono soprattutto l’uomo nuovo venuto dal popolo, assurto al vertice del
potere unicamente per le sue capacità, con il sostegno del popolo. Leggenda vivente,
Napoleone diede un forte impulso al culto romantico dell’eroe, soprattutto nella figura
del grande uomo d’azione, il capo politico che domina con la sua personalità un’epoca
storica. Anche nemici di Napoleone come Chateaubriand subivano il fascino della sua
immagine: «Bonaparte – scrisse nelle sue memorie – non è più il vero Bonaparte, ma
è una figura leggendaria composta con le fantasie del poeta, le insegne del soldato
e i racconti del popolo; è il Carlo Magno e l’Alessandro dell’epopea medievale che
noi vediamo oggi. Questo eroe fantastico resterà il vero personaggio».
Quando il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) vide Napoleone
attraversare Jena a cavallo, alla testa del suo esercito invasore, il 13 ottobre 1806,
scrisse in una lettera di aver visto in lui «l’anima del mondo». Anni dopo, nelle
lezioni sulla filosofia della storia tenute fra il 1821 e il 1831, il filosofo esaltò
Napoleone fra i grandi uomini della storia, che nella loro azione individuale realizzano
la «volontà dello spirito del mondo».
Nella scia hegeliana, il filosofo Thomas Carlyle (1795-1881), uno dei primi storici
della Rivoluzione francese, tenne nel 1840 a Londra una serie di conferenze sul culto
degli eroi, i grandi uomini artefici della storia:
la storia universale, la storia di quanto l’uomo ha compiuto in questo mondo altro
non è, in sostanza, se non la storia dei grandi uomini che hanno operato quaggiù.
Furono questi Grandi, i condottieri dell’umanità; gli ispiratori, i campioni e, in
un senso vasto, gli artefici di tutto quello che la moltitudine collettiva degli uomini
è riuscita a compiere e a conseguire.
Grandi uomini erano i fondatori di religioni come Maometto, i poeti come Dante, i
riformatori religiosi come Lutero, ma il più importante fra i grandi uomini era per
Carlyle colui
che comanda sugli uomini; colui al cui volere i nostri voleri debbono essere subordinati
e rassegnati con fedeltà di sudditi che trovano nel far ciò il proprio benessere,
può essere considerato come il più importante dei grandi uomini. Egli è praticamente,
per noi, la sintesi di tutte le varie forme di eroismo; sacerdote ed educatore, ogni
forma di dignità temporale o spirituale inerente ad un uomo, si incarna in lui per
comandarci, per largirci un insegnamento costante e pratico; per dirci, giorno per
giorno, ed ora per ora, quel che si debba fare.
Carlyle dedicò l’ultima delle sue conferenze all’eroe come sovrano, mettendo a confronto
Cromwell e Napoleone, e giudicando il secondo inferiore a Cromwell, perché nella natura
di Napoleone v’era un ciarlatano, che lo indusse a tradire la democrazia, in cui aveva
avuto fede sincera da giovane, per corteggiare monarchi e papi, fino a fondare una
propria dinastia come se «l’enorme rivoluzione francese non avesse avuto altro che
questo significato». Napoleone il ciarlatano perse così il senso della realtà e «credette
troppo nella possibilità di abbindolare gli uomini», perché «non vide nella natura
umana niente di più profondo della ingordigia e di questa possibilità di lasciarsi
abbindolare». Ma si ingannò, e «come un uomo che costruisce sulle nuvole, la sua casa
crolla con lui in un confuso precipitare di macerie e sparisce dalla faccia della
terra».
Il capo nell’era delle masse
Di un Napoleone ciarlatano scrisse anche l’aristocratico francese Alexis-Charles-Henri
Clérel de Tocqueville (1805-1859), che nel dicembre 1850, mentre era convalescente
a Sorrento, iniziò a raccogliere note e riflessioni per un’opera su Napoleone, per
far vedere, fra l’altro, «come e perché questa nazione indocile in quel momento correva
volontariamente incontro alla servitù»; per mostrare «con quale arte impareggiabile
egli ha scoperto fra le opere della Rivoluzione le più demagogiche, tutto ciò che
era adatto al dispotismo, facendolo venir fuori naturalmente, partendo dal suo governo
interno»; per «contemplare lo sforzo di questa intelligenza quasi divina, rozzamente
impiegata a comprimere la libertà umana»; e infine per vedere, sotto il peso della
«macchina ammirevole» del dispotismo napoleonico, «la società compressa e soffocata
che diventa sterile, il movimento dell’intelligenza che si rallenta, lo spirito umano
che s’infiacchisce, le anime che si rimpiccioliscono, i grandi uomini che cessano
di apparire, un orizzonte immenso e pieno in cui, da qualunque parte ci si volti,
non compare più che la figura colossale dell’Imperatore stesso».
Affascinato dal «genio impaziente e mobile» di Napoleone, Tocqueville voleva ripercorrere
tutta la sua folgorante avventura fino alla sua caduta, per poi «seguire l’immensa
traccia che ha lasciato dietro di sé in questo mondo». E mostrare, infine, «cosa significhi
l’Impero nella Rivoluzione francese, il posto che deve occupare quest’attore singolare
in questa strana opera teatrale il cui epilogo ci sfugge ancora».
Tocqueville non continuò l’opera, ma nel suo piano di lavoro aveva previsto un capitolo
sul «lato commediante, ciarlatano, piccolo del grande uomo; persino volgare. Cosa
aveva del nuovo ricco, del “parvenu”. Il suo gusto per lo sgargiante, la falsa grandezza,
l’ampolloso, il gigantesco»; e inoltre, il carattere «delle sue conquiste diverso
da quello degli altri conquistatori: propagandista e guerriero, mantenendo in una
certa misura il carattere propagandistico delle guerre della Rivoluzione. Violenza
mista a filosofia dei lumi. Vi è qualcosa di Napoleone misto al XIX secolo».
Nello stesso anno in cui l’aristocratico francese annotava le sue riflessioni su Napoleone,
il filosofo americano Ralph W. Emerson (1803-1882), amico di Carlyle e ammiratore
dei grandi uomini, da lui definiti «uomini rappresentativi», dedicava a Napoleone
un ritratto presentandolo come il «democratico tipico», un personaggio «assolutamente
moderno», nel quale «l’uomo comune trova le qualità e le possibilità di tutti gli
altri», riconoscendo in lui «un cittadino di origine borghese che mediante meriti
molto intelligibili è pervenuto ad una posizione così eccelsa e dominante da poter
soddisfare tutti i gusti che possiede l’uomo comune, ma che lui è costretto a negare
o a nascondere».
Proprio per la sua capacità «di adattamento allo spirito delle masse», aggiungeva
Emerson, Napoleone era stato «non soltanto rappresentativo, ma in effetti, accaparratore
ed usurpatore degli altri spiriti». Nell’ascesa al massimo potere Napoleone ebbe il
consenso delle masse perché era «l’idolo degli uomini comuni, perché egli ebbe, in
modo addirittura straordinario, le qualità e i poteri dell’uomo comune». Lo stesso
imperatore, ricordava Emerson, si vantava di aver sempre camminato in accordo «con
le opinioni delle grandi masse e con gli eventi». E le masse, concludeva il filosofo
americano, «hanno avuto in lui un organo ed un Capo» perché c’era una «identità tra
Napoleone e la massa del popolo», riposta nella convinzione che di lui il popolo aveva,
cioè «che era l’effettivo rappresentante, il suo genio, il suo pensiero, non soltanto
quando lo trattava bene, ma quando lo redarguiva, lo puniva e lo decimava con le sue
coscrizioni». In conclusione, Napoleone era l’uomo rappresentativo delle masse moderne:
l’agente o l’incaricato d’affari della classe media della moderna società, della folla
che si assiepa nei mercati, che invade i negozi, le manifatture, le navi del mondo
moderno, mirando alla ricchezza. Egli fu l’agitatore, il distruttore delle prescrizioni,
l’interno perfezionatore, il liberale, il radicale, l’inventore dei mezzi, colui che
spalancò porte e restaurò mercati e distrusse monopoli e abusi.
Secondo Emerson, Napoleone «ebbe le virtù delle masse e ne incarnò anche i difetti»,
perché fu privo di sentimenti generosi; e «al vertice di un’epoca e a capo del popolo
più intelligente del mondo» ogni sua azione «che mostri generosità» era «avvelenata
dal calcolo». Era senza scrupoli nel modo più assoluto: «Rubava, calunniava, assassinava,
avvelenava, secondo il proprio interesse. Non sapeva cosa volesse dire la generosità
e non provava che un odio volgare. Era intensamente egoista, perfido, baro. Un prodigioso
fanfarone, insomma»; e dopo essere giunti «al vertice di ogni splendore e di ogni
vera grandezza, voi non incontravate già un gentiluomo perfetto, ma un impostore ed
un bricconcello, che meritò il nome di Jupiter Scapin, che vorrebbe significare una
specie di Giove canaglia». Alla fine della sua avventurosa epopea di instancabile
conquistatore e dominatore, Napoleone il democratico, l’uomo moderno, «lasciò la Francia
rimpicciolita, più povera, più debole di quanto l’avesse trovata al suo avvento; e
si doveva ricominciare la lotta per la libertà».
Napoleone, per Emerson, fu vittima del suo «esorbitante egoismo», che alla fine lo
irretì nelle sue illusioni di una sconfinata volontà di dominio. Nel destino di Napoleone,
il primo capo nell’era delle masse, il filosofo americano intravide il destino della
civiltà moderna: «Fino a che la nostra civiltà sarà essenzialmente una civiltà di
proprietà, di limiti, di barriere doganali, di esclusivismi, non sarà altra cosa che
un inganno di specchi riflessi e di illusioni». Ammiratore dei grandi uomini ma democratico
assertore del valore peculiare d’ogni singolo individuo, Emerson deprecava l’esistenza
di «individui comuni» nel senso di individui senza individualità, annullati in «quello
che noi definiamo “masse”», ma deprecava che «le masse, dai primi giorni della storia
ai nostri giorni, son tutte quante gente da strage e carne da cannone», per concludere
che «il “nessun conto” della vita umana è la tragedia quotidiana».
Le nuove masse
Dopo la fine dell’avventura napoleonica, per un secolo l’Europa fu teatro di una lotta
epocale fra opposte concezioni della sovranità. E sempre nuove e più ambiziose furono
le mete additate dai democratici per giungere alla realizzazione di una società di
cittadini liberi in totale eguaglianza. «La rivoluzione francese – avevano affermato
nel loro manifesto i cospiratori della “congiura degli Eguali” – è soltanto il prodromo
d’un’altra rivoluzione, molto più vasta, molto più solenne, e che sarà l’ultima. Il
popolo ha marciato sui corpi dei re e dei preti coalizzati contro di lui: succederà
lo stesso ai nuovi tiranni, ai nuovi tartufi assisi al posto dei vecchi», per porre
fine alle «abominevoli distinzioni di ricchi e poveri, di grandi e piccoli, di padroni
e servi, di governanti e governati», e generare «una massa d’uomini pienamente felici».
Nei primi decenni dell’Ottocento, alla lotta per la libertà e l’eguaglianza civile
si aggiunse la lotta per l’eguaglianza sociale promossa da movimenti che si definivano
socialisti o comunisti. «Uno spettro s’aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo.
Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia
contro questo spettro: papa e zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti
tedeschi»: iniziava con queste parole il manifesto lanciato dai comunisti di diverse
nazionalità, riuniti a Londra alla fine del 1847, per incitare il proletariato mondiale
a unirsi nella lotta contro il dominio politico, economico, sociale, religioso e culturale
della borghesia.
Autore principale del manifesto, pubblicato all’inizio del 1848 in inglese, francese,
tedesco, italiano, fiammingo e danese, era un giovane filosofo tedesco, Karl Marx
(1818-1883) insieme all’amico Friedrich Engels (1820-1895). Marx era figlio di una
agiata famiglia ebrea tedesca, Engels di un industriale tedesco proprietario di un’azienda
a Manchester. Intellettuali di professione, studiosi di economia, teorici del materialismo
storico e di un socialismo da loro definito scientifico, furono politicamente impegnati
nel promuovere l’organizzazione di un movimento comunista internazionale, senza però
mai diventare loro stessi capi di masse e neppure di partito. Quando, nel 1851, si
trovarono isolati dalla Lega dei comunisti che avevano diretto dal 1847, Marx scrisse
a Engels di essere vivamente compiaciuto «del totale e assoluto isolamento nel quale
noi due, tu e io, ci troviamo», ricevendo in risposta dall’amico un eguale compiacimento
perché «non abbiamo bisogno dell’appoggio di nessun partito di nessun paese»: «Per noi che disprezziamo la popolarità, che
diffidiamo di noi stessi quando cominciamo a diventare popolari, che valore può avere
un “partito” cioè una banda di asini che giurano nel nostro nome, perché pensano che
siamo come loro?».
Nonostante ciò, entrambi ebbero un ruolo decisivo nel diffondere per la prima volta
una visione altamente positiva della massa come entità collettiva identificata con
le classi lavoratrici delle campagne e soprattutto con il proletariato operaio delle
moderne fabbriche della rivoluzione industriale, che dall’Inghilterra si diffuse nel
continente sconvolgendo in profondità l’assetto millenario delle tradizionali società
rurali e urbane.
Nel manifesto comunista, Marx ed Engels descrissero con immagini di potente efficacia
la nuova massa della classe operaia:
L’industria moderna ha trasformato la piccola officina del maestro artigiano patriarcale
nella grande fabbrica capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche
vengono organizzate militarmente. E vengono poste, come soldati semplici dell’industria,
sotto la sorveglianza di una completa gerarchia di sottufficiali e ufficiali. Gli
operai non sono soltanto servi della classe dei borghesi, dello Stato dei borghesi ma vengono asserviti giorno per giorno, ora per ora dalla macchina, dal sorvegliante,
e soprattutto dal singolo borghese fabbricante in persona. Questo dispotismo è tanto più meschino, odioso ed esasperante,
quanto più apertamente esso proclama come proprio fine ultimo il guadagno.
Con l’espansione dell’industria moderna, il proletariato «non solo si moltiplica;
viene addensato in masse più grandi, la sua forza cresce, ed esso la sente di più»,
associandosi nelle lotte per migliori salari e migliori condizioni di lavoro e di
vita. In tal modo, «l’unione degli operai si estende sempre di più», favorita «dall’aumento
dei mezzi di comunicazione, prodotto dalla grande industria, che mettono in collegamento
gli operai delle differenti località», così che mentre nel Medioevo i cittadini per
la loro unione «ebbero bisogno di secoli, i proletari moderni con le ferrovie la attuano
in pochi anni». L’organizzazione degli operai in classe e in partito politico era
per Marx un processo costante e inarrestabile, che accresceva la potenza della massa
operaia come forza politica rivoluzionaria destinata a liberare tutta l’umanità da
qualsiasi diseguaglianza, sfruttamento e assoggettamento dell’uomo da parte dell’uomo.
Mentre la borghesia, con la Rivoluzione francese, aveva istituito una democrazia politica
e civile, lasciando però sopravvivere e anzi aggravando le diseguaglianze e la servitù
delle classi lavoratrici, i pionieri del socialismo e del comunismo esaltavano il
proletariato come la nuova massa popolare che, per inevitabile processo storico, avrebbe
distrutto la proprietà borghese dei mezzi di produzione e realizzato, con l’avvento
di una società senza classi, la liberazione totale dell’umanità in una vera democrazia.
Dal materialismo storico e dal socialismo scientifico di Marx ed Engels ebbero origine
i partiti socialisti che organizzarono e mobilitarono i lavoratori, creando associazioni
di massa che ebbero alla loro guida capi provenienti dalla borghesia intellettuale
e politica, convertiti alla ideologia della rivoluzione sociale dalla convinzione
della inesorabilità storica dell’avvento della società socialista. I partiti di ispirazione
marxista, tuttavia, si divisero fra coloro che ritenevano l’avvento del socialismo
conseguenza della emancipazione dei lavoratori ad opera dei lavoratori medesimi, e
coloro che invece ritenevano necessaria l’organizzazione di una minoranza di rivoluzionari
di professione, che dovevano conquistare il potere con la violenza e instaurare la
dittatura del proletariato per guidare le masse all’abbattimento della società borghese
e alla costruzione del socialismo. Per i marxisti, il problema cruciale della democrazia,
la libera scelta dei governanti da parte dei governati, sarebbe stato risolto soltanto
con il superamento della distinzione fra governanti e governati originata dalla divisione
dell’umanità in classi sociali.
Democrazia di massa
Mentre in Europa, dopo la fine dall’impero napoleonico, la democrazia sembrava ovunque
soppressa dalla restaurazione delle monarchie di diritto divino, negli Stati Uniti,
dopo le resistenze di molti Padri fondatori alla partecipazione delle masse al governo,
la democrazia si affermò durante gli anni trenta dell’Ottocento con la presidenza
di Andrew Jackson (1767-1845), “il bardo della democrazia”, come fu soprannominato.
Con l’adozione del suffragio universale maschile in tutti gli Stati e la formazione
di partiti politici, che mobilitavano le masse per le elezioni locali e soprattutto
per l’elezione del presidente, gli Stati Uniti apparivano a Tocqueville, che vi soggiornò
per sei mesi fra il 1831 e il 1832, «il solo paese al mondo ove esiste», da poco fondata,
una democrazia «viva, attiva, trionfante», come egli disse all’Assemblea nazionale
della Seconda repubblica francese il 18 settembre 1848.
Ma già tredici anni prima, pubblicando le sue riflessioni sulla democrazia americana
dopo il suo viaggio, Tocqueville aveva scritto:
Oggi il principio della sovranità popolare ha preso negli Stati Uniti tutti gli sviluppi
pratici immaginabili; spogliato di tutte le funzioni di cui si è avuto cura di rivestirlo,
esso viene adattato a seconda delle necessità. Ora è il popolo in massa che fa le
leggi come in Atene; ora i deputati, eletti con suffragio universale, lo rappresentano
e agiscono sotto la sua immediata sorveglianza. […]. Il popolo partecipa alla formazione
delle leggi, poiché sceglie i suoi legislatori, alla applicazione di esse, perché
nomina gli agenti del potere esecutivo […]. Il popolo regna nel mondo politico americano
come Iddio regna nell’universo. Esso è la causa e il fine di ogni cosa: tutto esce
da lui e tutto finisce in lui.
Quel che era accaduto in America era un’anticipazione di quello che sarebbe accaduto
in Europa:
la democrazia, che ormai regna sovrana nelle società americane, avanza a gran passi
verso il potere anche in Europa […]. Una grande rivoluzione democratica si va operando
presso di noi; tutti la vedono benché non tutti la giudichino egualmente. Alcuni la
considerano come una novità e, ritenendola un fenomeno accidentale, sperano ancora
di poterla arrestare; altri invece la credono irresistibile poiché sembra loro il
fatto più antico, continuo e duraturo della storia.
Per Tocqueville, il principale fattore propulsivo della rivoluzione democratica non
era la libertà né la sovranità popolare, ma il desiderio dell’eguaglianza. Nulla avrebbe
potuto arrestare la marcia egualitaria della rivoluzione democratica: «È possibile
che la democrazia, dopo aver distrutto la feudalità e vinto i re, si arresti di fronte
ai borghesi e ai ricchi? Si arresterà proprio quando è divenuta più forte e ha così
deboli avversari?».
Nella storia dei settecento anni precedenti, osservava l’aristocratico liberale, non
c’era stato «un solo avvenimento che non abbia contribuito al progresso dell’eguaglianza».
Se così era avvenuto nel passato, così sarebbe stato nel futuro, affermava Tocqueville,
che attribuiva allo «sviluppo graduale dell’eguaglianza» l’inesorabilità di un «fatto
provvidenziale»: «ne ha i principali caratteri: è universale, è duraturo, sfugge alla
potenza dell’uomo. Tutti gli avvenimenti, come tutti gli uomini, servono al suo sviluppo».
Tocqueville confessava di contemplare con «un terrore quasi religioso» lo spettacolo
di «questa irresistibile rivoluzione che ha avanzato per tanti secoli attraverso ogni
ostacolo e oggi ancora procede in mezzo alle rovine da essa prodotte». Voler arrestare
l’inesorabile sviluppo della democrazia sarebbe come «voler lottare contro la volontà
di Dio».
L’aristocratico liberale accusava i governanti al potere e le «classi più potenti,
intelligenti e morali della nazione» di non aver neppure tentato di impadronirsi della
democrazia «per poterla dirigere. La democrazia è dunque stata abbandonata ai suoi
istinti selvaggi; essa è cresciuta come quei bambini che, privi delle cure paterne,
crescono da soli nelle strade delle nostre città non conoscendo della società che
i vizi e le miserie». Quando una democrazia siffatta si impadronì improvvisamente
del potere, «ognuno si è sottomesso servilmente ai suoi più piccoli desideri ed essa
fu adorata come l’immagine della forza», e quando, alla fine, la democrazia «si indebolì
per i suoi eccessi, i legislatori concepirono l’imprudente progetto di sopprimerla
invece di cercare di istruirla e di correggerla, e invece di insegnarle a governare,
la respinsero dal governo».
Negli Stati Uniti, Tocqueville aveva constatato come fosse possibile educare la democrazia
a governare, anche se era «ben lontano dal credere che essi abbiano trovato la sola
forma di governo che possa darsi la democrazia», ma nell’esperienza americana egli
aveva cercato «un’immagine della democrazia, del suo carattere, dei suoi pregiudizi,
delle sue passioni» e aveva voluto studiarla «per sapere quello che noi dobbiamo sperare
o temere da essa».
Imperatore delle masse
Pochi anni dopo aver pubblicato le sue riflessioni sulla democrazia americana, Tocqueville
fu testimone di una impetuosa avanzata della democrazia in Europa nel 1848, con l’esplosione
di moti rivoluzionari che sconvolsero tutto il continente. Ovunque nuove folle lottarono
per la riforma costituzionale, il suffragio universale, la libertà di stampa e di
associazione, l’eguaglianza politica e sociale. Inoltre, fra le popolazioni assoggettate
a dominatori stranieri, le rivoluzioni del ’48 associarono la democrazia alla lotta
per l’indipendenza nazionale. Ma alla fine del 1849, la “primavera dei popoli”, come
furono chiamati i moti rivoluzionari del 1848, era già stata soffocata dalla repressione
armata della reazione assolutista.
La rivoluzione ebbe successo solo in Francia, dove il 24 febbraio 1848 fu proclamata
la repubblica, con l’adozione del suffragio universale maschile. Il 10 dicembre 1848
fu eletto presidente, con oltre il 70 per cento dei voti, il principe Luigi Napoleone
Bonaparte (1808-1873), figlio di un fratello dell’imperatore. La vittoria di Luigi
Napoleone, che aveva vissuto la sua giovinezza in esilio da avventuriero cospiratore,
tramando per restaurare la dinastia bonapartista in Francia, fu dovuta quasi esclusivamente
alla popolarità del mito napoleonico fra la borghesia, la piccola borghesia e le masse
contadine, oltre che alla abilità politica dello stesso Luigi Napoleone. Alleato con
i repubblicani conservatori e i cattolici, egli si presentò come il pacificatore della
Francia, il garante dell’ordine e della proprietà, e nello stesso tempo come il promotore
di riforme sociali per la prosperità delle classi lavoratrici.
Luigi Napoleone si sentiva il legittimo erede della dinastia napoleonica e l’interprete
delle “idee napoleoniche”, cioè di una concezione della democrazia di massa fondata
sulla sovranità popolare, espressa dal suffragio universale, ma attuata nella persona
del capo, che incarna la nazione.
Eletto presidente, attuò una politica repressiva nei confronti dei politici radicali
e socialisti, accusandoli di demagogia sovversiva. Nello stesso tempo organizzò cerimonie
solenni nella capitale e frequenti viaggi in diverse città per incontrare le masse,
presentandosi come il capo “eletto da tutta la Francia”, “il legittimo capo della
Grande nazione”, “il Salvatore della nazione”. Con una stampa largamente asservita
o compiacente, con l’intervento dei prefetti per organizzare manifestazioni popolari
nelle città dei suoi viaggi, e soprattutto con l’evocazione del mito di Napoleone
imperatore democratico, il ricordo delle sue glorie militari, l’esibizione dei simboli
napoleonici (come l’aquila imperiale) associati ora alla sua persona, Luigi Napoleone
diffuse fra le masse la glorificazione della sua immagine di capo della nazione, che
derivava la legittimità dal popolo che lo aveva eletto. Come presidente, si oppose
alla limitazione del suffragio universale, «il solo principio che la Provvidenza abbia
mantenuto in piedi per tenerci uniti», come disse all’Assemblea nazionale il 31 maggio
1850.
Il suffragio universale servì a Luigi Napoleone per conquistare il potere personale.
Il 2 dicembre 1851, con un colpo di Stato, sciolse l’Assemblea nazionale ed eliminò
le opposizioni con una dura repressione. Un anno dopo, il 21 novembre 1852, un plebiscito
approvò con 7.800.000 voti favorevoli e 250.000 contrari la restaurazione dell’impero,
e il 2 dicembre successivo Luigi Napoleone assunse il nome di Napoleone III (non II
per rispetto al figlio di Napoleone, Napoleone Francesco Carlo, 1811-1832).
Il parlamento fu privato di qualsiasi autonomia, e tutto il potere fu concentrato
nelle mani dell’imperatore. «Il tratto caratteristico del suo spirito in materia politica
era l’odio e il disprezzo per le assemblee», osservò Tocqueville che nel 1849 fu per
cinque mesi ministro degli Esteri ma si dimise quando il principe presidente rimaneggiò
il governo per asservirlo ai suoi voleri. Luigi Napoleone, aggiungeva Tocqueville,
credeva fermamente di essere un uomo del destino, necessario per la Francia, fortemente
convinto della sua legittimità a governare, animato da una «specie di adorazione astratta
per il popolo» ma con «ben poco gusto per la libertà»: «L’orgoglio che il suo nome
gli dava, e che era senza confini, s’inchinava volentieri davanti alla nazione, ma
si rivoltava all’idea di subire l’influenza di un parlamento».
Nei discorsi alle folle Luigi Napoleone associava la fondazione della dinastia napoleonica
alla fondazione della Seconda repubblica, proclamandosi legittimo rappresentante dell’una
e dell’altra. Con maggior consapevolezza del grande zio, Napoleone III fece appello
alle masse per legittimare il suo potere personale, convinto che «il regno della caste
è finito e si può solo governare con le masse», perché la massa è «la forza dalla
quale emanano tutti i poteri». Per questo riteneva necessario organizzare e disciplinare
le masse «perché possano formulare la loro volontà» e «possano essere dirette e illuminate
sui loro veri interessi», proteggendole dai demagoghi socialisti e radicali. Le masse,
osservava Luigi Napoleone, sono mosse principalmente dai sentimenti, perciò «un grande
genio» può governarle esercitando su di esse un’influenza simile a quella divina:
«è un fluido che si spande come l’elettricità, esalta le immaginazioni, fa palpitare
i cuori, e rapisce perché tocca l’anima prima di persuadere». Del resto, è nella natura
della democrazia, concludeva il principe presidente, «personificarsi in un uomo».
L’impero di Napoleone III durò diciotto anni e fu disfatto soltanto nel 1870, dopo
la sconfitta militare subita nella guerra contro la Prussia. Il 4 settembre 1870 fu
proclamata in Francia la Terza repubblica, con la nomina di un governo di difesa nazionale.
Società di massa
Per tre mesi, dal 18 marzo al 28 maggio 1871, nella Parigi assediata dall’esercito
prussiano, una folla rivoluzionaria formata da esuli della rivoluzione del 1848, neogiacobini,
radicali, socialisti, anarchici, libertari, insorse contro il governo provvisorio
della repubblica, controllato da una maggioranza di deputati monarchici e repubblicani
conservatori. Gli insorti parigini fecero eleggere un Consiglio comunale, che il 28
marzo proclamò la Comune e subito varò un programma di riforme sociali egualitarie
e anticlericali. Ma l’esperienza della Comune finì con una settimana di feroce guerra
civile fra l’esercito e gli insorti, che incendiarono le Tuileries con altri edifici
statali, e fucilarono alcuni ostaggi fra i quali un arcivescovo. La repressione militare
fece oltre 20.000 vittime con esecuzioni sommarie; migliaia di insorti furono condannati
alla deportazione.
Marx celebrò la Comune come il primo esperimento di governo delle masse proletarie,
ma essa rimase per quattro decenni l’ultimo tentativo rivoluzionario avvenuto nel
continente europeo. Nei successivi quarant’anni le masse lavoratrici divennero sempre
più attive nella politica europea, con la nascita e lo sviluppo di associazioni, sindacati
e partiti che si dichiaravano socialisti, e la diffusione crescente di agitazioni
e scioperi dei lavoratori nelle industrie, nei trasporti, nel commercio e nei servizi
pubblici. Queste agitazioni sfociavano talvolta in scontri sanguinosi con la forza
pubblica e in episodi di violenza da parte dei manifestanti, ma nei quarant’anni dopo
la Comune non ci furono folle rivoluzionarie in Europa occidentale, e neppure ci furono
altre esperienze di regimi democratici trasformati in dittatoriali da nuovi capi legittimati
dal consenso delle masse con votazioni plebiscitarie. Ovunque, fino alla Grande Guerra,
prevalse in Europa il governo parlamentare rappresentativo, con un progressivo ampliamento
del diritto di voto. Sia pure limitato ai maschi, il suffragio universale fu introdotto
in gran parte dei paesi occidentali.
Il progresso del governo rappresentativo fu anche conseguenza della diffusione dei
partiti politici, che organizzavano le masse per rivendicare diritti, protestare contro
ingiustizie, chiedere riforme politiche e sociali, affermare i propri principi e i
propri ideali. Conservatori e riformatori, liberali e socialisti, laici e cattolici,
monarchici e repubblicani, nazionalisti e internazionalisti si contrapposero nelle
piazze e nelle aule parlamentari mobilitando le folle. La politica coinvolse un numero
sempre più ampio di cittadini. Gli stessi governi, in tutti gli Stati, inventarono
nuove feste nazionali e celebrazioni pubbliche per inculcare nelle masse l’adesione
alle istituzioni statali esistenti, attraverso un processo di integrazione che aveva
i suoi principali veicoli nella scuola pubblica e nel servizio militare obbligatorio.
A promuovere e favorire l’integrazione fra le popolazioni all’interno dello Stato
contribuirono la diffusione della stampa e i nuovi mezzi di trasporto e di comunicazione,
rendendo in particolare più facile l’afflusso dalle campagne alle città, dalla provincia
alla capitale.
La marcia inarrestabile della democrazia di massa, prevista da Tocqueville nei primi
decenni dell’Ottocento, aveva assunto nel primo decennio del Novecento un ritmo impetuoso,
fisicamente percepibile nella corposa realtà di una popolazione che per tutto l’Ottocento
si era moltiplicata con straordinaria vitalità. Nel 1800 gli europei, compresi i russi,
erano circa 190 milioni, nel 1910 oltre 400 milioni. Negli stessi anni la popolazione
degli Stati Uniti crebbe dai 5 milioni del 1800 a oltre 90 nel 1910. Aumentarono contemporaneamente
le moltitudini che affollavano le grandi città, per crescita naturale della popolazione
residente e per l’afflusso costante di gente proveniente dalle campagne. Fra il 1800
e il 1910 la popolazione di Londra passò da un milione e mezzo a oltre tre milioni;
quella di Parigi da 700.000 a oltre due milioni. Le metropoli divennero il simbolo
della nuova società di massa.
Un Machiavelli per l’era delle folle
Nella società moderna, affermava nel 1895 Gustave Le Bon, non era possibile governare
ignorando le masse, come avevano fatto per secoli i sovrani. I governanti dovevano
ora fare i conti «con una potenza nuova, la più recente sovrana dell’età moderna:
la potenza della folla». Fra le rovine delle credenze che per millenni avevano dominato
le masse con l’autorità di Dio e del monarca, «la potenza delle folle è la sola che
non subisca minacce e che veda crescere di continuo il suo prestigio».
Gustave Le Bon (1841-1931) fu una singolare figura di studioso. Medico, scienziato,
inventore, esploratore, autore di numerosi libri che trattavano di medicina, antropologia,
fisica, fotografia, equitazione, archeologia, etnologia, pedagogia e sociologia, verso
i cinquant’anni si dedicò allo studio della psicologia delle folle e i suoi libri
su questo tema, tradotti in molte lingue, gli diedero nei primi trent’anni del Novecento
una fama internazionale. Alcuni importanti capi politici, come il presidente americano
Theodore Roosevelt, i presidenti del Consiglio francesi Aristide Briand e Georges
Clemenceau, nonché Benito Mussolini si dichiararono pubblicamente suoi ammiratori.
Il suo libro sulla psicologia delle folle fu letto e annotato da Lenin e dal generale
Kemal Pascià (Atatürk), fondatore della repubblica turca. È molto probabile che il
giovane Adolf Hitler ne abbia letta a Vienna la traduzione tedesca, pubblicata nel
1908. Ed è altrettanto probabile che Charles De Gaulle, quando era giovane ufficiale
dell’esercito francese, abbia studiato il libro di Le Bon.
Antirivoluzionario ma non reazionario, Le Bon era severamente critico nei confronti
della Rivoluzione francese perché la vedeva guidata da fanatici che esaltavano le
folle e le incitavano alla violenza, con l’illusione «che si può riformare una società
da cima a fondo seguendo i dettami della ragion pura». Profondamente ostile al socialismo
e alle classi popolari organizzate dai socialisti, Le Bon ebbe l’ambizione di essere
il Machiavelli della politica nell’era delle masse, perché le folle erano ormai le
protagoniste dominatrici nella lotta politica. Chi voleva governare nella società
moderna doveva fondare il suo potere sulle masse. Come Machiavelli aveva fatto con
IlPrincipe,Le Bon volle insegnare ai capi come conquistare e governare le masse.
La folla per Le Bon è un agglomerato di persone che assumono caratteristiche nuove
e diverse da quelle che possiedono in quanto singoli individui. Coloro che compongono
la folla, indipendentemente dal tipo di vita, dall’occupazione, dal temperamento e
dall’intelligenza che hanno, acquistano una psicologia comune, un’«anima collettiva»,
come la chiama Le Bon, che li fa sentire, pensare e agire in modo diverso da come
ciascuno di loro farebbe isolatamente. «Nella folla, le attitudini coscienti, razionali
e intellettuali dei singoli individui si annullano, e predominano i caratteri inconsci».
Così, quando è assorbito nella folla, l’individuo «scende di parecchi gradini la scala
della civiltà. Isolato, era forse un individuo colto; nella folla è un istintivo,
e dunque un barbaro. Ha la spontaneità, la violenza, la ferocia, e anche gli entusiasmi
e gli eroismi degli esseri primitivi». Infine, nella folla l’individuo acquista un
senso di illimitata potenza, che lo spinge all’azione.
Ciò accade, precisa Le Bon, non solo se la folla è composta da individui ignoranti
o appartenenti alle classi popolari, ma anche se è invece formata da individui colti
o appartenenti alle classi superiori: «Le decisioni di interesse generale prese da
un’assemblea di uomini illustri, ma di specializzazioni diverse, non sono molto migliori
delle decisioni che potrebbero esser prese in una riunione di imbecilli». Quando sono
assorbiti in una folla, l’accademico e il ciabattino si comportano allo stesso modo,
irrazionalmente, perché la folla «è sempre intellettualmente inferiore all’individuo
isolato. Ma dal punto di vista dei sentimenti, e delle azioni determinate da tali
sentimenti, essa può, a seconda delle circostanze, essere migliore o peggiore».
Caratteristica fondamentale delle folle per Le Bon è l’esigenze di avere una guida:
«La folla è un gregge che non può fare a meno di un padrone». Convinto che i popoli
abbiano sempre bisogno di un capo, Le Bon considerava però rari i grandi capi, dotati
di forti convinzioni e capaci di diffonderle fra le masse, suscitando in esse una
nuova fede. Egli tuttavia non condivideva il culto dei grandi uomini, e citava con
ammirazione principalmente Napoleone, perché aveva intuito la psicologia delle folle
e le governava con l’immaginazione. Ma deprecava le dittature dei due Napoleoni e
paventava l’avvento di nuovi Cesari portati al potere dalle masse, perché, come dimostrava
il caso della Francia, per «provare sperimentalmente che i Cesari costano caro ai
popoli che li acclamano occorsero due rovinose esperienze nello spazio di cinquant’anni»:
la prima «costò tre milioni di uomini e un’invasione, la seconda comportò uno smembramento
territoriale e l’istituzione di eserciti permanenti».
Come governare le folle
Le Bon considerava la maggior parte dei capi politici «retori sottili, che mirano
all’interesse personale e cercano il consenso lusingando i bassi istinti»; ma grandi
o piccoli che siano, affermava, per conquistare le masse i capi devono usare gli stessi
modi di persuasione retorica. Le doti necessarie a un capo non sono né l’intelligenza
né la cultura, che possono anzi nuocergli perché, lasciando vedere la complessità
delle cose, riducono molto «l’intensità e la violenza delle convinzioni» necessarie
a suggestionare le folle. La parola è lo strumento fondamentale e indispensabile per
conquistare le masse.
L’arte degli uomini di governo «consiste soprattutto nell’uso della parola», perché
la potenza della parola è così grande «che bastano alcuni termini ben scelti per far
accettare le cose più odiose». Nella politica di massa, il potere di una parola non
dipende dal suo significato «ma dall’immagine che essa suscita. I termini dal significato
più confuso possiedono a volte il più grande potere», se sintetizzano le aspirazioni
inconsce delle masse e la speranza della loro realizzazione. Per questo i capi hanno
tutto l’interesse «a profondersi nelle più inverosimili esagerazioni. L’affermazione
non è mai troppo violenta, né il tono troppo minaccioso».
I modi retorici che Le Bon consigliava, sulla base della psicologia delle folle, erano
soprattutto l’affermazione e la ripetizione. L’affermazione «pura e semplice, svincolata
da ogni ragionamento e da ogni prova, costituisce un mezzo sicuro per far penetrare
un’idea nello spirito delle folle». Anzi, ribadiva, quanto più «l’affermazione è concisa,
sprovvista di prove e di dimostrazioni, tanto maggiore è la sua autorità». L’affermazione
deve essere ripetuta continuamente per farla penetrare «nelle regioni profonde dell’inconscio,
in cui si elaborano i moventi delle azioni». Solo così è possibile influenzare la
folla, i cui caratteri specifici sono la suggestionabilità, l’incapacità di ragionare,
l’esagerazione dei sentimenti, il semplicismo delle opinioni, caratteristiche che
apparentano la folla al bambino o agli esseri primitivi per «la facilità a lasciarsi
impressionare dalle parole e dalle immagini, a farsi trascinare in atti lesivi dei
suoi più evidenti interessi».
Il capo deve perciò apprendere «l’affascinante potere di seduzione che hanno le parole,
le formule e le immagini», e servirsi di parole e di formule capaci di evocare immagini
che agiscano sulla suggestionabilità delle folle. Le idee propagandate alle masse
le conquistano «soltanto se rivestono una forma semplicissima, che sia traducibile
in immagini», perché tutto quello che colpisce le folle «si presenta sotto forma di
un’immagine impressionante e precisa, priva di interpretazioni accessorie, ma arricchita
magari da un qualche fatto meraviglioso: una grande vittoria, un grande miracolo,
un grande delitto, una speranza. È essenziale presentare le cose in blocco, senza
mai indicarne la genesi». Nella psicologia delle folle, le immagini «acquistano la
vivacità delle cose reali» e sono considerate reali: «L’irreale predomina sul reale».
In conclusione, affermava Le Bon citando Napoleone, «conoscere l’arte di impressionare
l’immaginazione delle folle, vuol dire conoscere l’arte di governarle».
Tutto ciò va tenuto presente soprattutto nelle elezioni politiche. Il candidato può
promettere «senza timore le più imponenti riforme. Le promesse esagerate producono
sul momento un grande effetto e non impegnano affatto per l’avvenire», perché l’elettore
non si preoccupa mai di sapere se l’eletto ha rispettato la proclamata professione
di fede, in base alla quale avrebbe dovuto giustificare la sua elezione. Il candidato
che aspira a diventare un capo deve possedere soprattutto il prestigio, «l’elemento
fondamentale della persuasione», «la molla più forte di ogni potere»: il prestigio,
spiegava Le Bon, è «una sorta di fascino che un individuo, un’opera o una dottrina
esercitano su di noi». La caratteristica del capo dotato di prestigio è di «impedirci
di farci vedere le cose quali sono, di paralizzare i nostri giudizi». A formare e
rafforzare il prestigio contribuisce molto il successo: «L’uomo che ha successo, l’idea
che si impone, cessano, per questo solo fatto, di essere contestati».
Meglio il governo parlamentare
Liberale conservatore con l’incubo di un incombente potere assoluto di Cesari sostenuti
dalle masse, Le Bon tuttavia non sottoponeva le folle in quanto tali a un irrimediabile
giudizio di condanna. Le folle, affermava e ripeteva, possono essere tanto criminali
quanto eroiche, secondo le circostanze, i sentimenti, la suggestione di chi si pone
alla loro guida: «Si possono condurre facilmente alla morte per il trionfo di una
fede o di una idea. Si possono accendere d’entusiasmo per la gloria e per l’onore».
Gli eroismi delle folle sono evidentemente incoscienti, commentava Le Bon, ma aggiungeva
che «è proprio con tali eroismi che si fa la storia. Se si dovessero mettere all’attivo
dei popoli soltanto le grandi imprese freddamente ragionate, gli annali del mondo
ne registrerebbero ben poche».
Allo stesso modo, pur criticando il governo parlamentare, Le Bon non auspicava un
regime autoritario e avversava decisamente lo Stato accentratore, che controlla ogni
attività della vita individuale e collettiva. Egli preferiva comunque il regime parlamentare
perché, anche se le assemblee potevano talvolta assumere le caratteristiche della
folla, riteneva che in moltissimi casi i parlamentari «riescono a conservare la loro
individualità e ciò può consentire all’assemblea di elaborare eccellenti leggi tecniche».
Nonostante tutti gli inconvenienti, concludeva Le Bon, «le assemblee parlamentari
rappresentano lo strumento migliore che i popoli abbiano sinora trovato per governarsi,
e soprattutto per sottrarsi al gioco delle tirannie personali. Rappresentano la formula
ideale di governo, almeno per quanto riguarda i filosofi, i pensatori, gli scrittori,
gli artisti, e gli scienziati, ossia tutto ciò che costituisce la vetta di una civiltà».
Infine, pur pensando che «il suffragio delle folle è spesso pericoloso», non pensava
alla revoca o alla limitazione del suffragio universale: se «dovessi decidere la sua
sorte, lo conserverei così com’è».
Per Le Bon, tuttavia, l’era delle masse non era favorevole al governo parlamentare
ma piuttosto ai capi ambiziosi che aspirano a conquistare un potere personale. I capi
«tendono oggi a sostituire progressivamente i pubblici poteri via via che questi si
lasciano contraddire e indebolire», perché grazie al potere conferito loro dal consenso
delle masse i capi «ottengono dalle folle una docilità molto più completa di quella
mai ottenuta dai governi».
Nel 1911 le previsioni sul futuro della democrazia, formulate da Le Bon in un libro
sulla psicologia politica, erano tutt’altro che positive, perché nuovi fattori economici
e sociali, egli prevedeva, avrebbero accentuato la trasformazione del “governo del
popolo, dal popolo, per il popolo” in una democrazia recitativa, dove i governi parlamentari
sarebbero stati una mera facciata, mentre i detentori del potere reale sarebbero stati
indipendenti dalla scelta e dal controllo dei governati.
Tra i fattori che favorivano questa trasformazione della democrazia, Le Bon indicava
la dimensione sovranazionale dell’economia capitalista, con «l’intrecciarsi degli
interessi fra popoli un tempo separati che non avevano nulla in comune» e che ora
«vivono condizionandosi reciprocamente e non potrebbero sussistere gli uni senza gli
altri». In questa situazione, affermava Le Bon, «la potenza dei fattori economici
si è sostituita alla potenza dei re e delle leggi»:
su tutti i grandi movimenti industriali e commerciali che trasformano la vita delle
nazioni, creano ricchezza in un punto e povertà in altri, l’influsso dei governi,
una volta così notevole, si indebolirà sempre di più. Convinti essi stessi della loro
impotenza, i governi seguono i movimenti, ma non li dirigono. Le forze economiche
sono i veri padroni, che dettano le volontà popolari cui non si resiste affatto. Con
il progresso della scienza, dell’industria e delle relazioni internazionali, sono
nati dei nuovi padroni ai quali i popoli e i loro stessi sovrani devono obbedire.
Infine, osservava Le Bon, la democrazia era messa in crisi dal progresso della tecnica,
il vero motore della civiltà moderna, che esigeva «conoscenze teoriche e pratiche
tanto vaste, iniziative così ardite e un giudizio tanto sicuro che solo menti eccezionalmente
dotate potevano conseguire»; di conseguenza, nella società moderna era inevitabile
una «progressiva differenziazione delle intelligenze e quindi delle situazioni sociali»,
con la formazione di «classi distinte, separate da un fossato sempre più largo», in
contrasto con i principi egualitari della democrazia.
Le Bon concludeva che nella società moderna il governo popolare «non è affatto governo
del popolo, bensì governo dei suoi capi», perché «solo apparentemente governano le
moltitudini. Lungi dall’essere veramente popolari, i governi attuali rappresentano
semplicemente una oligarchia di capi».
Oligarchia e carisma
Nello stesso anno in cui Le Bon pubblicava le sue considerazioni sul carattere oligarchico
della democrazia nella società moderna, il sociologo tedesco (poi naturalizzato italiano)
Roberto Michels (1876-1936) terminava di scrivere a Torino, dove insegnava, l’introduzione
a un libro sulla sociologia del partito politico in cui osservava che «la democrazia,
sia come movimento, sia come teoria, si trovi oggi nel bel mezzo di una crisi, che
le sarà difficile superare illesa. La democrazia ha incontrato, non tanto innanzi a sé, quanto in sé stessa, inciampi ed impedimenti che non le sarà dato rimuovere se non in tenuissima misura».
Il fattore principale della crisi della democrazia era l’organizzazione oligarchica
dei partiti di massa: «Chi dice organizzazione dice oligarchia. Qualsiasi organizzazione
di partito rappresenta una potente oligarchia poggiante su basi democratiche. Ovunque
si trovano elettori ed eletti. Ma ovunque riscontrasi anche un quasi illimitato potere
dei capi eletti sulle masse elettrici. La struttura oligarchica dell’edificio ne soffoca
il principio fondamentalmente democratico». Alla formazione dell’oligarchia di partito
contribuivano le masse stesse perché «immenso è nelle masse, anche nelle masse organizzate
nei partiti del lavoro, il bisogno di direzione e di guida», che «si accompagna per
lo più ad un vero culto dei duci, tenuti quasi in conto di eroi», perché le masse
«sentono un bisogno profondo di inchinarsi non solamente alle grandi idealità, ma
anche agli individui che ai loro occhi le rappresentano». Michels citava il «bonapartismo»,
cioè i regimi di Napoleone I e Napoleone III, quale esempio di un potere personale
fondato sul consenso delle masse: «Il bonapartismo riconosce la volontà popolare in
modo così illimitato da concederle persino il diritto al suicidio: la sovranità popolare
può andare tanto oltre da abolire la sovranità stessa».
È probabile che nella sua interpretazione del bonapartismo e del culto dei duci da
parte delle masse Michels sia stato influenzato dal sociologo tedesco, suo amico,
Max Weber (1864-1920), che aveva ritenuto il «cesarismo francese», ossia il bonapartismo,
una manifestazione del potere carismatico, cioè del potere di un capo con forte personalità,
che si considera investito di una missione e come tale conquista la fiducia delle
masse, che gli attribuiscono qualità straordinarie. La democrazia, affermava Weber,
promuovendo la partecipazione politica delle masse, favorisce il successo di un capo
che «conquista la fiducia e la fede delle masse in sé, e quindi il suo potere, con
mezzi demagogici di massa. Nella sua essenza, questo significa una svolta cesaristica nella selezione dei capi, e, in effetti, ogni democrazia ha questa inclinazione».
Mentre Michels aveva teorizzato «la legge ferrea dell’oligarchia» vigente in ogni
partito, come fattore di crisi interna di uno Stato democratico, Weber teorizzò il
«carattere cesaristico della democrazia di massa», aggiungendo che «per la politica
statale il pericolo della democrazia di massa sta in primo luogo nella possibilità
di una forte prevalenza di elementi emotivi nella politica», perché la massa «in quanto tale (prescindendo da quali strati sociali
la compongono nel singolo caso) “pensa soltanto fino a domani”. Essa infatti, come
insegna ogni esperienza, è sempre esposta agli influssi puramente emozionali e irrazionali
del momento». La demagogia del capo carismatico, dotato soprattutto del suo talento
oratorio, mira a esercitare sulle masse un effetto emotivo, come quello ingenerato
dai cortei e dalle feste di partito: «produrre nelle masse la visione della potenza
e della certezza di vittoria del partito, e soprattutto della qualificazione carismatica
del duce».
Con le masse, contro la democrazia
Nel periodo fra il 1910 e il 1920, quando Michels e Weber elaboravano le loro riflessioni
sull’oligarchia, sul bonapartismo, sul cesarismo, sul capo carismatico, la democrazia
parlamentare era il governo prevalente nel mondo occidentale.
La Grande Guerra, primo conflitto mondiale di massa, ampliò la partecipazione politica
dei governati. Gli imperi autoritari furono sostituiti, in gran parte, da repubbliche
con parlamenti eletti a suffragio universale, quanto meno maschile. In Russia, invece,
dove nel febbraio 1917 una rivoluzione popolare aveva abbattuto l’autocrazia zarista,
la nascente democrazia fu soppressa in ottobre, con un colpo di Stato, dal partito
bolscevico di Lenin, che in nome del proletariato instaurò nel 1918 un regime a partito
unico, incitando i lavoratori d’ogni paese a conquistare il potere per realizzare
il comunismo.
Dopo il 1922 non ci fu alcuna rivoluzione comunista in Europa né nel resto del mondo.
In Europa, la democrazia rappresentativa sembrava trionfante: ma nel decennio successivo,
in molti Stati, il governo parlamentare fu soppresso. Tra la fine del 1922, con l’avvento
al potere in Italia del Partito fascista, che instaurò un regime a partito unico definito
“totalitario”, e l’inizio del 1933, quando un regime totalitario si insediò in Germania
ad opera del Partito nazista, buona parte degli Stati europei fu governata da regimi
nazionalisti, che avevano abbattuto la democrazia rappresentativa con la violenza
armata o con la guerra civile. Fra il 1933 e il 1939 altre democrazie caddero vittime
di colpi di Stato e guerre civili, in Spagna e in Europa orientale. Nel caso della
Germania, la violenza del Partito nazista era stata accompagnata dal consenso elettorale,
che nel 1932 l’aveva fatto diventare il primo partito nel parlamento tedesco. Questo
rapido successo elettorale fu dovuto alla crisi economica mondiale, provocata nel
1929 dal crollo della Borsa di New York, che scrollò fino alle fondamenta il capitalismo
occidentale, producendo in Germania, come in tutti gli Stati occidentali, milioni
di disoccupati.
I partiti che instaurarono i regimi totalitari e autoritari si proclamavano pubblicamente
nemici della democrazia, negavano la sovranità popolare, celebravano il culto idolatrico
del capo, ma nello stesso tempo organizzavano e mobilitavano le masse. Fascismo e
bolscevismo, affermava nel 1930 il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset, erano fenomeni
politici generati dalla «ribellione delle masse», che portavano al potere capi espressi
dalla massa: «sono movimenti tipici dell’uomo-massa, estemporanei e senza lunga memoria
storica», formati da moltitudini amorfe di persone prive di personalità, che ripetono
«in se stesse un tipo generico», «l’uomo-massa», senza individualità «in quanto non
si differenzia dagli altri uomini»: «La massa – affermava Ortega – travolge tutto
ciò che è differente, singolare, individuale, qualificato e selezionato. Chi non sia
come “tutto il mondo”, chi non pensi come “tutto il mondo”, corre il rischio di essere
eliminato».
L’era delle masse era diventata «l’era delle tirannie», affermò nel 1936 lo storico
francese Élie Halévy, osservando che fenomeni antitetici come il fascismo e il comunismo
erano identici nella forma del regime politico: «Si tratta del governo di uno Stato
da parte di un gruppo armato che s’impone in nome del presunto interesse generale
e che ha la forza di imporsi perché si sente animato da una fede comune».
La dittatura dei regimi totalitari, scriveva nel 1939 il sociologo austriaco Emil
Lederer, era «un sistema politico moderno basato sulle masse amorfe», organizzate
in un partito che le irreggimenta emotivamente con la tecnica della propaganda moderna,
sottoponendole al comando e alla guida di un capo carismatico: «Lo Stato totalitario
è lo Stato delle masse», che non aveva precedenti nella storia perché «non c’è mai
stata un’epoca che abbia offerto le odierne opportunità tecniche di trasformare l’intera
popolazione in massa e di tenerla in questo stato».
Democrazia moribonda
Le masse di milioni di disoccupati prodotte dalla crisi economica del 1929 e l’avanzata
trionfante dei regimi totalitari e autoritari in Europa scossero profondamente la
fiducia nella democrazia anche negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia. In
questi paesi, furono in molti a pensare che “il governo del popolo, dal popolo, per
il popolo”, mostrandosi incapace di garantire lavoro e sicurezza, non avrebbe retto
alla sfida dei regimi totalitari, che riscuotevano il consenso di masse entusiaste,
promettendo lavoro, sicurezza, potenza e grandezza, in cambio della libertà.
Nell’antagonismo mondiale tra fascismo e comunismo, fra “Roma e Mosca”, come allora
si diceva, che proclamavano di essere i regimi del futuro, la democrazia liberale
appariva destinata alla decadenza e forse alla scomparsa anche nei paesi dove era
nata. In Francia, in Gran Bretagna e negli altri Stati democratici dell’Europa occidentale
sorsero movimenti di massa fascisti o affini al fascismo, guidati da capi carismatici
che seguivano le orme di Mussolini e di Hitler per conquistare il potere e instaurare
un regime totalitario.
Nel 1930, di fronte al proliferare delle dittature, Winston Churchill (1874-1965),
uomo politico e storico inglese, rievocò gli anni prima della Grande Guerra, quando
«la dittatura era un mostruoso anacronismo», mentre il governo parlamentare fondato
«sul consenso popolare e sulla riconciliazione dei diritti della libertà e della proprietà»
appariva destinato a sfidare il tempo con la sua capacità di sviluppo e di adattamento:
«La fine di ogni forma di governo dispotico o arbitrario e l’affermazione al loro
posto di un parlamento sempre più importante e sempre più forte, scelto da un numero
sempre più ampio di elettori, erano considerate parte dell’immutabile destino umano».
Negli Stati Uniti, epicentro del terremoto economico verificatosi nel 1929 dopo un
decennio di prosperità senza precedenti, molte ricchezze, accumulate rapidamente con
una sfrenata speculazione finanziaria, si erano dissolte in poche ore; i disoccupati
erano oltre 13 milioni nel 1932 e vivevano in estrema povertà, afflitti dalla fame.
Nel 1931 arrivò a New York dal Camerun una colletta di 3 dollari e 7 centesimi per
gli “affamati”, mentre oltre 100.000 americani fecero domanda per andare a lavorare
in Unione Sovietica.
Quello del “governo del popolo, dal popolo, per il popolo” appariva ormai lo slogan
di una democrazia recitativa, che mascherava il potere di oligarchie economiche e
finanziarie; oppure risultava un ideale irrealizzabile perché continuamente smentito
dalla realtà. Nel 1934 il filosofo e storico americano Will Durant si domandava angosciato
perché «la democrazia è caduta così rapidamente dall’alta posizione di prestigio di
cui godeva ai tempi dell’Armistizio» e perché «nella stessa America, proprio nel tempio
e nella cittadella della democrazia, l’autogoverno è stato esposto ad ogni forma di
ridicolo, e molti osservatori già la considerano morta». L’anno successivo, l’inglese
Harold Laski, politico laburista e teorico della democrazia sociale, analizzò il fallimento
delle democrazie parlamentari in Europa, incapaci di far fronte all’impoverimento,
al disorientamento e all’insicurezza della masse, e constatò che anche in America
vi era ormai «un diffuso atteggiamento di disillusione rispetto alla democrazia, il
più profondo scetticismo rispetto alle istituzioni popolari di quanto vi sia mai stato
nella sua storia».
Liberali e democratici americani pensavano che la democrazia fosse un regime agonizzante,
e paragonavano la possibilità di salvarla alla vana difesa del paganesimo dopo l’avvento
del cristianesimo come religione dell’impero romano o alla difesa del diritto divino
dei re dopo la Rivoluzione francese. E con rassegnata disperazione dichiaravano «il
fallimento morale ed intellettuale del liberalismo», considerando la democrazia «ormai
fallita in tutto il mondo». Ritornò allora attuale la diffidenza dei Padri fondatori
per la democrazia e per le masse, facile preda dei demagoghi che eccitavano la loro
irrazionalità, come avveniva nei regimi totalitari. Anche in America, negli anni trenta,
riscossero molta popolarità alcuni demagoghi che attraverso la radio e i discorsi
alle folle invocavano un “Mussolini americano”.
Con le masse, per la democrazia
Nelle elezioni del 1932, la maggioranza degli elettori americani mostrò di non essere
affatto sedotta dalla propaganda dei demagoghi antidemocratici, scegliendo come presidente
della repubblica il democratico Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), con 22.821.277
di voti contro 15.750.000 andati al repubblicano Herbert Hoover, presidente uscente.
Roosevelt fu eletto di nuovo presidente nel 1936, con 27.752.648 voti contro 16.681.862
al candidato repubblicano; nel 1940 fu eletto per la terza volta, evento eccezionale
nella storia degli Stati Uniti, con 27.313.945 voti contro 22.347.744; e fu rieletto
nel 1944 con 25.612.916 contro 22.117.929.
In un dodicennio che comprende anche cinque anni di guerra mondiale, durante i quali
la democrazia rappresentativa dovette fronteggiare una sfida mortale da parte degli
Stati totalitari fascisti, la guida della prima democrazia moderna fu affidata a un
uomo che, nella sua lunga esperienza di governo, dimostrò come fosse possibile, con
il consenso delle masse, usare poteri quasi dittatoriali, con una spregiudicatezza
e un pragmatismo spesso prossimi all’opportunismo e al cinismo, per difendere e alla
fine salvare la democrazia negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale.
Per la sua origine, Roosevelt avrebbe potuto avere nei confronti della democrazia
e delle masse l’aristocratica diffidenza dei Padri fondatori. Rampollo di una ricchissima
famiglia di origini olandesi, Roosevelt aveva avuto una giovinezza agiata, aveva frequentato
le migliori scuole, aveva iniziato con successo la carriera politica come senatore
democratico nel 1910, era stato sottosegretario alla Marina con il presidente Wilson,
durante la Grande Guerra e fino al 1920, quando i democratici furono sconfitti dai
repubblicani.
Nel 1921 si ammalò gravemente di poliomielite e perse l’uso delle gambe. La malattia,
invece di deprimerlo, rafforzò la sua personalità, lo rese più sensibile ai problemi
della gente comune e delle classi povere, e lo spinse a riprendere con maggior ambizione
ed entusiasmo la lotta politica. Nel 1928 fu eletto governatore dello Stato di New
York e quando esplose la crisi del 1929 si impegnò per proteggere i lavoratori e aiutare
i disoccupati. Con lo stesso impegno assunse nel 1933 la carica di presidente degli
Stati Uniti, con l’ambizione di essere un capo forte e risoluto, incitando il popolo
americano a non perdere la fiducia nella democrazia e ad unirsi per difenderla e consolidarla,
affrontando con coraggio la grave depressione economica.
Roosevelt si insediò alla Casa Bianca il 4 marzo 1933: per curiosa coincidenza cronologica,
in Germania, in quello stesso giorno, precedente le elezioni politiche per il Reichstag,
il cancelliere Hitler pronunciò un discorso diffuso dalla radio per esortare il popolo
tedesco a confermare con un voto plebiscitario l’ascesa al potere del Partito nazionalsocialista.
Il plebiscito non ci fu perché il 5 marzo i nazisti non ottennero la maggioranza assoluta
ma il 44 per cento dei voti, ma ciò bastò ai fini dei nazisti: il 23 marzo Hitler
ottenne dal parlamento i pieni poteri e il 14 luglio fu proclamato il regime a partito
unico.
A Washington, il 4 marzo, nel discorso inaugurale pronunciato davanti a una immensa
folla e ascoltato da milioni di persone alla radio, Roosevelt volle subito risvegliare
nel popolo americano la fiducia nella democrazia facendo un appello alla sua razionalità,
dichiarando «che l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa; terrore
senza nome, irragionevole, ingiustificato, che paralizza tutti i nostri sforzi per
tramutare la ritirata in avanzata». E subito aggiunse di aspettarsi «la comprensione
e il sostegno tanto essenziali alla vittoria», che in «ogni ora oscura della nostra
vita nazionale» il popolo americano aveva dato a «coloro che guidarono il paese con
franchezza e vigore». Poi il presidente lanciò strali polemici contro la condotta
di banchieri, industriali e commercianti, «che troppo spesso ha dato a un sacro impegno
di fiducia le sembianze di una malvagità incallita ed egoista», e ha prodotto la miseria
nel popolo, mentre «l’abbondanza si trova alle soglie delle nostre case».
Nell’incitare gli americani a scrollarsi di dosso paura e apatia, Roosevelt ricorse
a una retorica che suonava affine a quella dei duci totalitari, affermando che la
nazione «esige che si agisca e che si agisca subito», con prontezza e decisione, e
«avanzare come un esercito fedele e temprato, disposto a sacrificarsi per il bene
di una comune disciplina, perché senza tale disciplina non vi è progresso». Inoltre,
Roosevelt alluse alla possibilità – se «l’esigenza, mai finora verificatasi, di azione
immediata, ci richieda di allontanarci temporaneamente dal normale equilibrio della
procedura della vita pubblica» – di chiedere al Congresso «l’unico strumento disponibile
per affrontare la crisi: un largo potere dell’Esecutivo per lottare contro la grave
situazione, potere tanto grande quanto sarebbe quello concessomi se il nostro paese
fosse in realtà invaso dal nemico».
Queste parole furono approvate dalla folla con l’applauso più lungo e clamoroso dell’intero
discorso. Il presidente concluse con l’esaltazione della democrazia e con l’affermazione
del suo ruolo di capo eletto dal popolo per guidarlo:
Noi non manchiamo di fiducia nel futuro della democrazia nei suoi elementi essenziali.
Il popolo degli Stati Uniti non ha fallito. Nel momento del bisogno ha dimostrato
pubblicamente di esigere che si agisca direttamente e vigorosamente. Ha chiesto disciplina,
ha chiesto di essere guidato. Il popolo americano ha fatto di me lo strumento attuale
dei suoi desideri. Comprendo lo spirito del dono e lo accetto.
Chiuse quindi con la rituale invocazione dei presidenti alla benedizione di Dio sulla
nazione americana. Enorme fu la risonanza del discorso nell’opinione pubblica americana.
Nei giorni successivi giunsero alla Casa Bianca circa mezzo milione di lettere che
manifestavano un consenso entusiasta, con espressioni annuncianti già la nascita di
un mito attorno alla persona del nuovo presidente: «la gente guarda a voi quasi come
guarda a Dio». Il cardinale di Boston definì Roosevelt «un uomo mandato da Dio»; Walter
Lippmann, un autorevole giornalista che aveva espresso dubbi sulla politica di Roosevelt
prima della sua elezione, dopo una settimana dal suo insediamento alla Casa Bianca
osservò: «Al principio di marzo, il Paese era in tale stato di confusa disperazione
che avrebbe seguito qualsiasi capo in qualsiasi direzione questi avesse deciso di
procedere. In una settimana la nazione, che aveva perso fiducia in tutto ed in ognuno,
ha riconquistato la fiducia nel Governo e in se stessa».
Il presidente Roosevelt si avvalse delle sue straordinarie doti di oratore chiaro,
semplice, persuasivo, capace di parlare il linguaggio della gente comune, per stabilire
un rapporto diretto e costante con il popolo americano. Fece frequenti viaggi in tutti
gli Stati per parlare alle folle e soprattutto usò la radio per rivolgersi a milioni
di americani. Una settimana dopo il discorso inaugurale, la sera del 12 marzo tenne
alla radio il primo dei suoi fireside chats, le “chiacchiere vicino al camino”, che divennero una consuetudine, soprattutto nei
momenti più difficili dei primi anni di presidenza e durante la seconda guerra mondiale,
quando sembrava che la Germania nazista e il Giappone imperiale fossero vicini alla
vittoria. In questo modo, il presidente democratico entrò direttamente nelle case
degli americani rivolgendosi a loro come un amico di famiglia: esordiva con “amici
miei”, e proseguiva con lo stesso tono familiare a commentare un tema di attualità,
per infondere fiducia nella sua politica, nelle istituzioni americane e nella democrazia.
Come il capo carismatico descritto da Weber, Roosevelt era convinto di avere una missione:
salvare la democrazia negli Stati Uniti e nel mondo, fondando il suo potere quasi
dittatoriale sul consenso delle masse. A un giornalista che gli chiese quali fossero
le motivazioni della sua politica, Roosevelt rispose: «Il mio desiderio è di evitare
le rivoluzione. Io lavoro in senso contrario a Roma e a Mosca». Durante la campagna
elettorale del 1936 confidò a un suo collaboratore: «Io stesso rappresento la sola
posta in giuoco in questa campagna elettorale, e il popolo deve pronunciarsi per me
o contro di me». Identificando se stesso con il popolo americano e con la causa della
democrazia, nel discorso alla convenzione democratica per la seconda candidatura presidenziale
disse: «Nel 1932 bisognava salvare la democrazia americana; ed il popolo americano
era pronto a vincere. Esso vinse, infatti. Nel 1936 bisogna conservare la sua vittoria».
Di fronte alla aggressiva bellicosità del fascismo in Europa e del Giappone in Asia,
Roosevelt riteneva che fosse ormai in corso una guerra finale fra la democrazia e
i suoi nemici, mentre in molti paesi anche chi aveva combattuto per la libertà sembrava
rassegnato a vendere «il suo patrimonio di libertà per l’illusione di una vita sicura».
Accettando la nuova nomina a candidato democratico, Roosevelt si sentì ancora più
convinto di avere come missione la salvezza della democrazia nel mondo, ridando speranza
ai democratici che l’avevano persa:
Essi cominciano a rendersi conto che qui in America stiamo combattendo una grande
guerra e che la stiamo vincendo. Non si tratta solo di una guerra contro il bisogno,
la povertà e la demoralizzazione economica. È assai più: è una guerra per la sopravvivenza
della democrazia. Stiamo combattendo per salvare per noi e per il mondo una grande
e preziosa forma di governo. Accetto il compito che mi avete affidato e mi unisco
a voi. Mi arruolo per tutta la durata di questa guerra.
Roosevelt, come si è visto, vinse la seconda elezione presidenziale facendo conquistare
al Partito democratico altri 5 milioni di voti rispetto al 1932.
«Questa è la democrazia»
La seconda trionfale vittoria di Roosevelt fu accolta con entusiasmo dai democratici
europei, che ne trassero motivo per sperare nella possibilità di salvare la democrazia,
nel momento in cui, dopo l’aggressione fascista all’Etiopia, i due Stati totalitari
fascisti si alleavano per lanciarle una sfida mortale.
L’esperienza di Roosevelt dimostrava che le masse non erano inevitabilmente attratte
dalla demagogia dei duci totalitari, e che la democrazia poteva resistere se guidata
da un capo forte, energico e risoluto nella sua azione, capace di suscitare fiducia
e entusiasmo nelle masse senza eccitarne le passioni.
In Francia, dove forti erano i movimenti e i partiti di estrema destra che si ispiravano
al fascismo e al nazismo, il giornale «Paris-Soir» così commentò la seconda vittoria
di Roosevelt: «Da ora in poi la democrazia ha il suo capo! Dopo il suo brillante trionfo,
il Presidente Roosevelt è divenuto l’uomo di Stato al quale bisogna affidare ogni
speranza qualora la grande civiltà liberale e democratica del mondo occidentale venisse
un giorno minacciata o dal bolscevismo o dall’autocrazia».
Fu soprattutto in Inghilterra che la vittoria di Roosevelt del 1936 fu salutata come
un buon auspicio per il futuro della democrazia. Già dopo la prima elezione, l’economista
John Maynard Keynes aveva scritto a Roosevelt:
Siete divenuto, e per opera vostra, il fiduciario di tutti coloro che in ogni paese
cercano di porre rimedio alla nostra condizione con esperimenti ragionati nell’ambito
dell’esistente ordine sociale. Se fallirete, in tutto il mondo ne soffrirà gravemente
la scelta razionale, lasciando l’ortodossia e la rivoluzione a combattere fra di loro.
Ma se avrete successo, ovunque verranno sperimentati nuovi e più audaci metodi, e
dal vostro avvento alla Presidenza potremo datare il primo capitolo di una nuova era
economica.
La rielezione di Roosevelt fu definita dal «Times» un evento di «importanza suprema»
nel momento in cui «le nazioni di lingua inglese stanno divenendo sempre più sole
nel combattere per la democrazia in un mondo “sconvolto dal poderoso soffio dei venti
di numerose diverse dottrine”». La vittoria di Roosevelt, aggiungeva il giornale londinese,
smentiva le profezie dei dittatori totalitari sulla fine inevitabile della democrazia:
«Nessun dittatore, sia esso fascista o comunista, può sfidare la solida base alla
quale egli si appoggia».
Forse chi ebbe più conforto dalla rielezione di Roosevelt fu Winston Churchill. Con
un evidente sentimento di identificazione, così descrisse il presidente americano:
«L’impulso che lo spinge ad agire è la fede in una vita più piena per il popolo di
ogni paese, e che se splenderà più alta offuscherà tanto le orribili fiamme della
nordica autoasserzione dei tedeschi, quanto le malefiche luci innaturali che balenano
nella Russia sovietica».
Churchill era un democratico alquanto eccentrico. Nato in una famiglia di illustre
nobiltà, aveva vissuto la giovinezza nella carriera militare, partecipando con entusiasmo
come soldato e come giornalista a guerre coloniali, mentre nello stesso tempo aveva
coltivato una profonda passione per la storia e sviluppato uno straordinario talento
di scrittore e di oratore. Lasciata la carriera militare nel 1899, aveva intrapreso
quella politica e fu eletto deputato per la prima volta come conservatore nel 1900,
ma nel 1903 si schierò con i liberali, per tornare nelle file dei conservatori nel
1924. Si guadagnò così l’attributo di opportunista senza convinzioni.
Dopo il 1908 Churchill fu più volte ministro; allo scoppio della Grande Guerra era
da tre anni ministro della Marina, e fu sua nel 1915 la decisione della disastrosa
operazione di attacco alla Turchia nella penisola di Gallipoli, che lo costrinse a
dimettersi. Dopo aver combattuto sul fronte occidentale, fra il 1917 e il 1929 fu
di nuovo titolare di vari ministeri, talvolta con successo, talvolta attirandosi pesanti
critiche. Dal 1930 non fece più parte di alcun governo, e pur continuando a essere
eletto e a partecipare ai dibattiti parlamentari, Churchill visse in una condizione
di isolamento politico, dedicandosi a scrivere imponenti opere di storia e articoli
di giornale, e a fare conferenze.
Politicamente si definiva un liberale; come ministro aveva promosso riforme favorevoli
alla classe lavoratrice e all’ampliamento delle libertà civili. Ma per molti aspetti
era un conservatore con idee che lo rendevano affine ai nemici della democrazia. Churchill
era convinto della diseguaglianza delle razze e della superiorità della razza anglosassone;
esaltava la vita militare, il valore etico della guerra e la sua necessità nella lotta
per l’esistenza; glorificava l’impero britannico ed era deciso a conservarlo integro
con qualsiasi mezzo, contro ogni aspirazione all’indipendenza dei popoli coloniali.
Era un anticomunista intransigente e ammirava pubblicamente Mussolini e il fascismo
perché avevano salvato l’Italia e l’Europa dal bolscevismo.
Churchill affermò di essere «a favore di un governo del popolo, per il popolo, ma
non guidato dal popolo». A parte i discorsi elettorali, non cercò mai di rivolgersi
alle masse. E la masse lo ignorarono per tutto il decennio in cui fu lontano dal governo.
In quel periodo, Churchill divenne in Inghilterra il più strenuo avversario del nazismo,
che considerava una minaccia mortale per la civiltà occidentale, mentre la maggioranza
dei politici inglesi sottovalutava il pericolo nazista e adottò una diplomazia conciliante
con la Germania. Con discorsi e articoli, Churchill sostenne invece la necessità di
procedere al riarmo per fronteggiare una guerra contro la Germania, che egli prevedeva
come inevitabile per le ambizioni hitleriane al dominio europeo. Ma le sue previsioni
furono considerate dall’opinione pubblica, oltre che dalla classe politica e dai governanti,
le profezie di un guerrafondaio che aveva perso il senso della realtà. Persino Hitler
lo citò in alcuni suoi discorsi, tacciandolo di essere un nemico della Germania smanioso
di farle guerra.
Nonostante la sconfinata fiducia che aveva in se stesso, Churchill finì col sentirsi
una Cassandra, destinato a non essere ascoltato mentre denunciava con realistica preveggenza
i pericoli che incombevano sulla pace e sulla democrazia europea: «Non mi sembra che
la gente si renda conto di quanto siano vicini e gravi i pericoli di una conflagrazione
mondiale», scriveva il 12 novembre 1935 sul «Daily Mail».
Il 5 ottobre 1938, alla Camera dei Comuni, Churchill condannò gli accordi di Monaco
sottoscritti con Hitler dal primo ministro inglese Arthur Neville Chamberlain, che
si vantò per questo di aver salvato la pace in Europa:
non ci può essere amicizia tra la democrazia britannica e il potere nazista, il potere
che disprezza l’etica cristiana, che accompagna al suo cammino un paganesimo barbaro,
che esalta lo spirito di aggressione e di conquista, che trae forza e un piacere perverso
dalla persecuzione e sfrutta come abbiamo visto con brutalità spietata la minaccia
della forza omicida. Mai siffatto potere potrà essere l’amico fidato della democrazia
inglese. Trovo intollerabile l’idea che il nostro paese cada sotto il potere e l’influenza
e nell’orbita della Germania nazista, che la nostra esistenza dipenda dalla sua benevolenza
e dalla sua volontà.
Nel 1939, dopo l’occupazione nazista della Cecoslovacchia avvenuta il 15 marzo, nell’opinione
pubblica inglese si cominciò a invocare il ritorno di Churchill al governo. Ma solo
dopo l’invasione tedesca della Polonia del primo settembre, seguita il 3 dalla dichiarazione
di guerra di Francia e Inghilterra alla Germania, Chamberlain accettò di richiamare
Churchill al governo come ministro della Marina in un gabinetto di guerra. Il primo
ottobre, in un discorso alla radio, primo dei molti che avrebbe pronunciato nei cinque
anni di guerra, Churchill ammonì il popolo inglese che la guerra sarebbe stata lunga,
ma la Gran Bretagna si sarebbe battuta fino in fondo, «perché siamo convinti di essere
i difensori della civiltà e della libertà».
Churchill ebbe così la sua rivincita su quanti lo avevano ignorato o ridicolizzato
quando denunciava il pericolo mortale del nazismo per la pace e per la democrazia.
Dopo cinque settimane di guerra, scrisse il «New York Times» il 9 ottobre 1939, Churchill
era emerso «come la figura più carismatica della Gran Bretagna e in ultima analisi
come il successore di Neville Chamberlain che ha 71 anni. È stato bollato come Russofobo
e Germanofobo, come un genio irresponsabile, ma anche i suoi vecchi critici adesso
sembrano convenire che egli sarebbe un ottimo leader in tempo di guerra».
L’8 maggio 1940, dopo l’invasione tedesca della Norvegia, Chamberlain rassegnò le
dimissioni e il re conferì a Churchill l’incarico di formare il nuovo governo. Dopo
ventiquattro ore, il nuovo primo ministro annunciò la formazione di un gabinetto di
coalizione e assunse per sé il ministero della Difesa. Ricordando nelle sue memorie
quel momento, Churchill scrisse: «Mi sentivo come se stessi seguendo il mio destino
e come se tutta la mia vita passata fosse stata una preparazione per questo momento
e per questa prova».
Nei successivi cinque anni di guerra Churchill guidò il popolo inglese incitandolo
alla resistenza con la sua parola alla radio e con la sua presenza fisica nei luoghi
dove la popolazione era maggiormente colpita dai bombardamenti tedeschi. L’individualista
che amava la solitudine e rifuggiva dal corteggiare la folla rivelò straordinarie
attitudini all’invenzione di frasi e gesti simbolici di grande efficacia per dare
alle masse la volontà di resistere, specialmente quando, dal giugno 1940 al dicembre
1941, in una Europa sottomessa allo spietato impero hitleriano che si estendeva dalla
Francia alla Russia, dalla Norvegia alla Grecia, la Gran Bretagna guidata da Churchill
fu l’unico baluardo della democrazia contro il trionfo di Hitler.
In un discorso alla Camera l’8 dicembre 1944, Churchill espresse forse per la prima
volta la sua concezione della democrazia e la sua fede in essa:
Come si deve interpretare la parola “democrazia”. La mia idea è che il semplice, umile
uomo comune, proprio l’uomo ordinario con una moglie e una famiglia, che va a combattere
per il suo paese quando questo è nei guai, che va alle urne quando è il momento e
traccia il segno sulla scheda per indicare il candidato che egli desidera sia eletto
al Parlamento – ecco, quest’uomo è il fondamento della democrazia. Ed è essenziale
a questo fondamento che questo uomo o donna possa farlo senza paura, senza nessuna
forma di intimidazione o di persecuzione. Essi segnano la loro scheda nella massima
segretezza, eleggono i rappresentanti e insieme decidono quale governo, e in tempi
di tensione, decidono persino quale forma di governo, desiderano avere nel loro paese.
Se questa è la democrazia, io la onoro. Io l’abbraccio. E lotterò per lei.
Democratico eccentrico, durante la guerra Churchill divenne il capo di una democrazia,
che egli incitò a resistere e a combattere fino in fondo, convincendo le masse inglesi
della vittoria finale, infondendo in loro la fede che egli aveva in se stesso e nel
suo destino. E le masse inglesi, finita vittoriosamente la guerra, onorarono in Churchill
il salvatore dell’Inghilterra e della democrazia. E democraticamente, il 25 luglio
1945, si recarono a votare per il nuovo governo.
Il giorno dopo, mentre stava facendo il bagno, Churchill apprese che la maggioranza
degli elettori aveva votato per un governo laburista. Ne fu sulle prime sorpreso,
se non sconvolto, come ha raccontato chi gli comunicò il verdetto degli elettori che
lo congedavano dopo cinque anni di eroica guida. Ma poi Churchill disse: «Hanno tutto
il diritto di votare per chi gli pare. Questa è la democrazia. È per questo che abbiamo
combattuto».