L’invenzione del bene e del male

Come abbiamo imparato a distinguere il bene dal male? Siamo sempre stati capaci di farlo? E lo saremo ancora, nel mondo a venire?
Una grande storia universale della morale nell’epoca della sua crisi più buia. Un appassionante tour de force che abbraccia cinque milioni di anni di evoluzione umana.

Hanno Sauer racconta L’invenzione del bene e del male.

 

La Resistenza vista da dentro

Giovanni De Luna | La Stampa | 18 ottobre

Un libro come questo è una novità assoluta. Con Storia passionale della guerra partigiana (Laterza) Chiara Colombini ha colmato una lacuna offrendoci una straordinaria storia “dal basso” della Resistenza, un suo racconto corale. I protagonisti non sono i partiti politici, le bande partigiane, gli operai, i contadini, gli intellettuali, i grandi soggetti collettivi che hanno scritto la storia del ‘900, ma gli uomini e le donne che quella storia l’hanno fatta in prima persona nei venti mesi della drammatica guerra civile che sconvolse l’Italia dal 1943 al 1945.

L’obbiettivo dichiarato è quello di indagare su «cosa accade nell’animo e nel comportamento egli essere umani quando vivono circostanze eccezionali» e, quindi, di riflettere sui «sentimenti» di quelli che scelsero di armarsi contro i fascisti e i nazisti, sulla loro capacità di amare e di odiare, sulle loro speranze di futuro e sulla cupa realtà che li avvolgeva nel presente, sui lutti e i dolori che accompagnarono la loro lotta ma anche sulla felicità e le tempeste emotive dalle quali furono attraversate le loro vite, sospese tra l’eccezionalità di quei tempi e una grande voglia di quiete e di normalità. E poi il pensiero della morte, la paura di non essere all’altezza, di poter tradire i compagni sotto tortura, in una dimensione in cui l’eroismo, già noto, di figure come Fanciullacci o Capriolo si intreccia con i dubbi e le incertezze che, oltre che al movimento partigiano, appartenevano alla gente comune.

Per scriverlo Colombini si è affidata alle testimonianze di chi impugnò le armi, scritte nel corso stesso della lotta, rifiutando le razionalizzazioni offerte dal “senno di poi”: lettere, diari, carteggi confluiscono in un materiale gonfio di passioni, inquieto, turbolento, che l’autrice padroneggia grazie alla solidità delle sue categorie interpretative.

La Resistenza, per lei, scaturì da una scelta individuale di riappropriazione della propria sovranità, dopo vent’anni in cui si poteva soltanto ubbidire, tutti ossequiosi dell’ordine costituito e delle gerarchie. Fu quindi una scelta politica ma fu soprattutto una rifondazione esistenziale: alle certezze del regime si contrapposero i dubbi dei partigiani («Che cosa sei disposto a fare? Fino a dove sei disposto a spingerti? Quale è il limite che sei disposto a superare?») che per la prima volta sperimentarono l’ebbrezza e le difficoltà di essere padroni delle proprie azioni. Proprio per questo fu sempre difficile imporre una disciplina alle bande, evitare quell’alto tasso di conflittualità che caratterizzò i loro rapporti. La Resistenza non fu una “rinascita” o un “risorgimento”, ma una nuova nascita; non una ricostruzione ma la costruzione di una nuova Italia, immaginata come una Patria inclusiva e democratica. L’impegno contro l’attendismo (al quale sono dedicate pagine molto significative) era il risvolto identitario della lotta, il tentativo di combattere tutti i luoghi comuni familistici che si addensavano sugli stereotipi dell’“italianità”. Il “miracolo” della Resistenza si realizzò grazie all’intreccio, ben riuscito, tra la spontaneità, dal basso, e l’organizzazione, dall’alto. Quali fossero gli obbiettivi politici, dei vari partiti, quali fossero le perplessità che serpeggiavano nelle file dei partigiani, il risultato fu l’approdo a una democrazia piena, sorretta dalla comune convinzione (tipicamente novecentesca) «che la politica fosse uno strumento capace di trasformare e di plasmare la realtà».

C’era uno scoglio impervio da affrontare nel percorso di ricerca che ha portato a questo libro. Quando si parla di “sentimenti” si fa riferimento a uno “spirito del tempo” segnato da un’educazione fascista che aveva coinvolto i giovani e i giovanissimi che divennero partigiani, ma anche i loro coetanei che scelsero la Repubblica di Mussolini. Tutti ne avevano introiettato alcuni valori, avevano respirato l’aria mefitica dell’Impero e delle leggi razziali, del maschilismo e della retorica sull’onore. Era uno spirito del tempo in cui era veramente difficile che, come nei versi di Calvino, “tutto il bene” fosse da una parte, “tutto il male” dall’altra.

Partigiani e fascisti avevano fatto insieme un passo irreversibile, impugnando le armi e inoltrandosi in un territorio in cui si entrava solo per uccidere o farsi uccidere.

Un’esperienza estrema, parossistica, inconcepibile in tempi di pace. Ma qui subentravano le prime, radicali differenze: per gli uomini e le donne della resistenza uccidere non era scontato. Certo che c’era l’odio per il nemico, la voglia di vendicare i propri compagni caduti; per il resto, però, non c’era traccia del corteggiamento della “bella morte”, dell’ossessione funebre che affiorava dai teschi grotteschi, dai simboli plumbei che trionfavano sulle divise nere e nelle canzoni “disperate” cantate dai fascisti. A differenza di questi ultimi, per i partigiani uccidere era una necessità, a volte era il solo modo per sopravvivere e quel gesto estremo non era mai scontato: «Se uccidere non mi ripugna sto snaturando le ragioni per cui combatto? Quale differenza resta tra me e gli altri, quelli che voglio sconfiggere», erano gli interrogativi che si affollavano nelle loro teste e che oggi Colombini ripropone. Ed è lei stessa, in conclusione, a indicarci la differenza fondamentale tra gli uni e gli altri, ritrovandosi, i fascisti «in un mondo che stava crollando e gli altri in un mondo che stava nascendo: gli uni guardavano al futuro gli altri si rifiutavano di farlo e guardavano al passato». A un passato che, speriamo, non ritorni mai.

I campi incolti in cui fiorisce la solidarietà

Adriano Favole | la Lettura | 19 novembre 2023

Kili significa «l’ago», il grande ago di legno che serve per cucire con possenti liane i fasci di paglia sui tetti delle grandi capanne kanak, regione Hoot-ma-Waap, estremo Nord della Nuova Caledonia. Alla fine degli anni Novanta, un artista caledone, Norman Song, intitolò Kili la sua slanciata scultura che riproduce il grande ago ed è oggi esposta al Centro culturale Jean-Marie Tjibaou, voluto dai kanak per celebrare l’arte, la creatività e le connessioni tra i popoli che abitano il Pacifico e progettato, per la parte architettonica, da Renzo Piano. Kili, si legge nella locandina, «e il simbolo di tutti i legami che uniscono la gente e i clan attorno alla Grande Capanna che essi costruiscono per il loro capo, il primogenito». Come diceva Jean-Marie Tjibaou a cui il Centro è intitolato, leader kanak ucciso nel 1989, «le nostre feste sono il movimento dell’ago che serve a legare la paglia sulla sommità della nostra casa, affinché tutti i fili non formano che un solo tetto, così come tutte le nostre parole non formano che un solo discorso».

L’ago che cuce e tiene insieme, così come l’intreccio di vimini che crea le ceste o quello delle foglie di pandano con cui si realizzano stuoie sono potenti metafore della socialità umana in molte isole dell’Oceania: si ritrovano spesso nelle mitologie e nella retorica politica contemporanea. Il grande antropologo francese Claude Lévi-Strauss usò la metafora dell’ago che cuce per introdurre la sua teoria più importante, quella dell’alleanza: attraverso i matrimoni e lo «scambio» di donne (e di uomini, diremmo oggi), le società tessono i fili delle alleanze che danno spessore di stoffa al «tessuto» sociale. L’alleanza attraverso il matrimonio ovvero l’obbligo di sposarsi fuori dal proprio gruppo di appartenenza (l’esogamia) è per Lévi-Strauss il fondamento della reciprocità dei sistemi di scambio, che sono alla base della coesione e del legame sociale. Lévi-Strauss e il suo maestro Marcel Mauss avevano tratto la metafora dell’ago dal pastore Maurice Leenhardt che, a sua volta, l’aveva ascoltata nelle parole dei kanak della Nuova Caledonia, durante il suo lungo soggiorno a inizio Novecento. La metafora dell’ago ha viaggiato dai miti nativi ai testi degli antropologi, con curiosi ritorni: Tjibaou, il leader indipendentista kanak che abbiamo citato in precedenza, studiò etnologia a Parigi negli anni Sessanta e ritrovò la metafora dell’ago nei libri degli antropologi, riportandola poi nei contesti nativi!

Il nuovo libro di Stefano Allovio edito da Laterza, Ricreare mondi. Mobilità e mutuo aiuto tra Kinshasa e Cape Town («Città del Capo»), prende avvio dall’ago che cuce e da un curioso aneddoto che riguarda Lévi-Strauss e il suo maestro Marcel Mauss. Pare che quest’ultimo si fosse un po’ risentito quando Lévi-Strauss gli espose per la prima volta un abbozzo della sua teoria dell’alleanza e che gli avesse risposto: «Ne sono io il teorico!». Si sa che nelle accademie a volte i maestri non sono pronti a riconoscere l’originalità degli allievi e tuttavia non è questo il punto che interessa sollevare ad Allovio. Piuttosto l’aneddoto introduce una considerazione che percorre tutto il libro e che possiamo riassumere così. Perché gli esseri umani sono solidali tra loro? Perché si legano in stretti rapporti sociali attraverso la parentela, l’amicizia, lo scambio? Qual è il contributo dell’antropologia culturale, con i suoi «giri lunghi» tra le culture, alla comprensione della socialità umana?

Allovio torna alle premesse della disciplina. Capire la solidarietà umana era la questione chiave che animava Emile Durkheim, uno dei fondatori delle scienze sociali. Suo nipote Mauss portò avanti questo lavoro e ne fece anche occasione di un forte impegno politico, dato che militava attivamente nel Partito socialista, nei primi decenni del Novecento. Mauss non era un ricercatore di casi, esempi, narrazioni di differenti forme di socialità umana, come quelle che si manifestano nel «dono», a cui dedicò il celebre Saggio (Einaudi, 2002). Mauss però si ferma alla teoria, alla proposta di una cornice d’insieme della reciprocità umana. Lévi-Strauss invece, con il suo strutturalismo, va alla ricerca dei fondamenti, della base, dello strato roccioso su cui si ancora lo scambio e lo identifica nella proibizione dell’incesto e nell’obbligo di sposarsi fuori dal gruppo. Il libro di Allovio ci mette in guardia contro queste «fughe» verso la ricerca del Sacro Graal della natura umana. Molta scienza contemporanea si basa sull’idea che i comportamenti umani siano radicati in «basi» o «fondamenti» che stanno «al di là» delle loro manifestazioni concrete e che questo sia il «vero» oggetto delle scienze sociali.

AI contrario, nel suo saggio, Allovio preferisce indugiare sui «repertori» della socialità. Le sue ricerche etnografiche si svolgono tra Kinshasa, la capitale della Repubblica democratica del Congo, e Città del Capo, in Sudafrica. In entrambi i luoghi, tra i migranti congolesi, l’antropologo ritrova una grande efflorescenza di associazioni di mutuo aiuto. Dai gruppi che assicurano un funerale decoroso e a volte il rimpatrio della salma; alle tontine (il microcredito che fornisce a turno agli aderenti una piccola somma per gli investimenti); alle associazioni che prendono in carico l’organizzazione di cerimonie per il ciclo di vita, le nascite, i matrimoni e appunto la morte; dalla curiosa associazione Sape, un acronimo che sta per Società delle persone creatrici di Atmosfera (ambianceurs) e di Persone Eleganti, che promuove il «ben vestire»; alle muziki, associazioni di empowerment femminile, queste forme di mutualismo appaiono diffusissime nei contesti migratori che attraggono i congolesi dai villaggi alla città (Kinshasa) o dal loro martoriato Paese ad altri Stati africani (Città del Capo, Sudafrica). Ù

Allovio si era già occupato di questi temi, in contesti più tradizionali, in un libro precedente, La foresta di alleanze (Laterza, 1999). Aveva studiato i riti di iniziazione maschile mangbetu come forme di tessitura di alleanze. Ricreare mondi indaga i processi di cucitura sociale in luoghi di migrazione caratterizzati da anomia, difficoltà di integrazione, spazi ristretti. Sarebbe facile quanto superficiale interpretare il mutualismo congolese come espressione di una socialità in qualche modo «innata», riportandola a una comune natura umana. A queste spiegazioni universalistiche, in realtà, sfuggono i dettagli che fanno la ricchezza dell’umanità. I congolesi in diaspora si mettono insieme certo anche per ragioni «utilitaristiche»: capitalizzare come si può le poche risorse monetarie, culturali, di spazio che si hanno a disposizione. La ragione economica universale, tuttavia, spiega solo in parte e soprattutto non vede la ricchezza dell’agire sociale. Il modo in cui si creano e ricreano i mondi associativi a cui i congolesi danno vita sono imprevedibili, come fiori in un campo incolto. Significa che siamo in balia dei fenomeni, prigionieri di foreste culturali che non possiamo che descrivere? No, Allovio ci invita piuttosto a costruire teorie senza cercare fondamenti, a indugiare nelle etnografie delle società umane (tutte le società umane), «percorrendo in lungo e in largo questi repertori (i propri e quelli altrui) fin quando il terreno inizia a essere segnato da piste e sentieri più o meno intricati».

La proposta di Allovio riecheggia quella che Marshall Sahlins formulò qualche anno fa in un fortunato libro appena pubblicato in traduzione italiana, Nonostante Tucidide. La storia come cultura (Elèuthera). Attraverso una raffinata e complessa comparazione tra la guerra del Peloponneso narrata da Tucidide e le guerre tra i regni figiani di Bau e Rewa (1843-1855), Sahlins difende la rilevanza della cultura per la comprensione della storia. Per capire la solidarietà è bene aggirarsi nelle pratiche del mutuo aiuto di migranti congolesi e allo stesso modo per capire la violenza è inevitabile addentrarsi nelle sue forme concrete, tra la Grecia antica e l’Oceania moderna. Tucidide ha dato forma e legittimato un’idea di natura umana concepita «come la concepiamo noi: facendo riferimento alla razionalità pratica universale degli esseri umani, scaturita dal loro innato egoismo». Si tratta tuttavia solo di uno dei tanti modi culturali di vedere l’essere umano, non di un fondamento universale, come dimostra la storia divergente e, come diceva Gregory Bateson, «schismogenetica», di Atene e Sparta, di Bau e Rewa.

Forme di socialità e di creatività continuamente risorgenti percorrono ovunque il nostro mondo: aggirarsi curiosi in queste foreste, provare a creare sentieri teorici che rendano un po’ più agevole il cammino sembrerebbe insomma un buon modo per capire qualcosa dell’umanità. Tagliare la foresta per scoprire il fondamento su cui poggia, viceversa, è un’operazione alquanto azzardata.

Israele-Palestina: discutere la guerra

[Nell’intenzione di offrire un contributo alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti, abbiamo rivolto alcune domande ad autori della casa editrice e studiosi competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.
La situazione cambia di giorno in giorno e nuovi elementi potranno integrare l’analisi.

Dopo l’intervento di Anna Foa, pubblichiamo il contributo di Marcello Flores e Giovanni Gozzini, che con la casa editrice hanno pubblicato, tra l’altro, Il vento della rivoluzione e Perché il fascismo è nato in Italia.]

 

Nella introduzione del suo libro su Guerre giuste e ingiuste (Laterza, 2009), Michael Walzer affronta il tema della guerra asimmetrica e delle responsabilità tanto degli «insurgents» che dell’esercito regolare che risponde, mostrando quanto sia complicato, dal punto di vista del giudizio morale, prendere in considerazione tutti gli elementi che compongono l’azione di entrambi i contendenti.

È proprio la complessità delle azioni da giudicare, e la difficoltà di averne una conoscenza piena e affidabile, che manca in genere nel dibattito pubblico, dove domina la scelta dello schieramento insufflata da talk show ormai del tutto incapaci di svolgere un ruolo di informazione e di formazione.

Pensiamo che non dovrebbe esserci problema nel definire il crimine commesso da Hamas e nemmeno la risposta sproporzionata del governo Netanyahu e dell’esercito israeliano (crimini contro l’umanità e crimini di guerra): anche se sarebbe utile poter conoscere meglio le forme di sequestro dei civili attuate da Hamas e i tentativi compiuti dall’esercito israeliano per contenere l’uccisione di civili mentre combatte i militanti di Hamas.

E sarebbe opportuno adoperare con cautela – e precisione tanto giuridica che storica – parole che hanno significati ben precisi, invece di postulare analogie sensazionalistiche ma infondate. Genocidio, ma anche apartheid, hanno poco a che fare con quanto sta accadendo a Gaza perché il primo indica la volontà deliberata e non provocata di eliminare un intero gruppo umano e il secondo significa un regime sistematico di controllo e dominio.

Com’è noto, dal 2005 Israele si è ritirato dalla striscia. Se Hamas ha utilizzato il potere che ne è derivato per espellere con la violenza i rappresentanti dell’Autorità Palestinese e preparare una guerra anziché il benessere dei propri cittadini, questa è sua piena responsabilità. L’attacco del 7 ottobre è un crimine contro la pace e un crimine contro l’umanità perché tortura, uccide e rapisce civili inermi per il solo fatto di appartenere a uno dei gruppi di cui si compone la diversità e la ricchezza del genere umano. La risposta armata di Israele è un crimine di guerra perché coinvolge deliberatamente civili nel conflitto.

Il paradosso è che l’opinione pubblica si divide con una scelta di campo che prescinde dalle rappresentanze politiche reali: o con i palestinesi rimuovendo Hamas o con Israele rimuovendo le scelte di Netanyahu. Si genera così l’illusione che l’uscita dalla guerra e la ricerca di pace siano legate alla sola decisione militare israeliana (sospendere l’attacco o portarlo fino in fondo).

Se è individuabile – tranne ai fanatici dello schieramento per una o l’altra parte – la condanna della condotta di guerra e in primis di chi l’ha iniziata, le cose sono più complicate in relazione ai motivi, alle ragioni e alle possibili soluzioni del conflitto.

Si può dire che fin dal 1948, nonostante le diverse svolte successive, la guerra si ripete perché non vince la soluzione politica dei due stati proposta dalle Nazioni Unite con la risoluzione 181 del novembre 1947. Quella soluzione è stata prima rifiutata per decenni dagli stati arabi che puntavano prioritariamente alla distruzione dello stato d’Israele. Oggi per diversi motivi nessun stato arabo della regione – tranne l’Iran, non arabo e non danneggiato territorialmente dalla fondazione di Israele – pensa a una guerra contro l’“entità sionista”. Chi ci pensa sono forze non statali come Hamas e Hezbollah che non hanno responsabilità di governo e pensano innanzitutto alla propria sopravvivenza sopra (e contro) i popoli che pretendono di rappresentare, anziché a una improbabile vittoria. Ma la soluzione dei due stati è stata anche accantonata dai governi israeliani non laburisti e post-Rabin che hanno incentivato l’ampliamento di colonie impedendo di fatto sul terreno la possibilità stessa di uno stato palestinese.

Nel mondo sono oggi molti i conflitti armati a bassa intensità condotti da insorgenti non statali (quello dei Balcani negli anni novanta ne è stato laboratorio) cui è molto difficile porre fine perché le bande paramilitari sono le prime ad essere interessate alla prosecuzione endemica di guerre che gli consentono di estrarre risorse dalle popolazioni civili che sottomettono col terrore. Il salto di qualità segnato dall’attacco del 7 ottobre trasforma il conflitto a bassa intensità in guerra dichiarata e può quindi avvicinare una risposta politica, che però non può venire da chi la rifiuta (Hamas e Netanyahu) perché solo con la guerra sopravvive. Sono diversi i casi storici (Liberia, Sierra Leone) in cui l’interposizione dei caschi blu dell’ONU ha prodotto vere paci. E anche nei Balcani evita tuttora lo spargimento di sangue. Questa è la strada anche in Medio Oriente. Ma è una strada che necessita la sconfitta – storica, non contingente – degli estremismi palestinese ed israeliano.

 

 

Israele-Palestina: discutere la guerra

Sono passati quasi quattro mesi dal massacro di civili israeliani da parte di Hamas e dall’inizio dell’operazione militare lanciata da Israele a Gaza.

Della guerra, che ha provocato decine di migliaia di morti, non si intravede la conclusione.

Rigettando tutti gli appelli per il cessate il fuoco, a partire da quelli delle Nazioni Unite, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu ha dichiarato più volte che il conflitto durerà a lungo, tutto il tempo necessario ad eliminare completamente Hamas.

Ha inoltre escluso che quando la guerra sarà finita si possa comunque creare uno Stato palestinese, perché “la sicurezza di Israele richiede il controllo militare di tutto il territorio dal Giordano al mare”. Per parte sua Hamas, pur essendo in corso una trattativa per un temporaneo cessate il fuoco per favorire il rilascio degli ostaggi israeliani, non recede dal suo obiettivo di cancellare lo stato di Israele.

L’amministrazione Biden dal canto suo continua a oscillare tra il rifiuto della richiesta di cessate il fuoco (con la motivazione che ciò favorirebbe Hamas) e l’invito a Israele a tener maggiormente conto delle regole internazionali sul rispetto dei diritti umani.

Regole evocate anche dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja che (su iniziativa del Sudafrica) verificherà l’esistenza di un genocidio dei palestinesi a Gaza.

L’aspetto di tragica incomponibilità del conflitto nella striscia di Gaza sembra anche questo: che gli attuali protagonisti dello scontro non hanno interesse alla sua cessazione. Hamas – non l’intera comunità palestinese di Gaza – ha scientemente provocato la reazione israeliana con il selvaggio attacco del 7 ottobre. Il governo Netanyahu – non l’intera comunità israeliana – ha scientemente scatenato una risposta militare a tutto campo che tratta i morti civili come ‘danni collaterali’.

Ma non tutti gli israeliani la pensano così: nelle ultime settimane le voci critiche, anche in Israele si sono moltiplicate.

Su Haaretz l’ex primo ministro Olmert ha scritto che tutta l’efficienza dell’esercito israeliano non basterà a sconfiggere Hamas.

E comunque, la guerra in corso ha alimentato l’odio verso Israele, anche nelle nuove generazioni di palestinesi (i sondaggi dicono che il consenso verso Hamas è aumentato anche nella West Bank). Possiamo aspettare – come sostenuto dal leader del partito della Nuova Destra Naftali Bennett in una intervista alla BBC – che i bambini palestinesi siano educati su nuovi libri di testo e, potremmo aggiungere, che si dimentichino dei loro genitori, dei fratelli, delle sorelle, e degli amici uccisi dai soldati israeliani? Ma il tempo lungo della guerra non sembra essere un problema per Netanyahu, forse anche perché la sua carriera politica sembra ormai appesa al conflitto militare.

E certo alcuni esponenti del suo governo contano proprio su una guerra lunga per ridurre drasticamente la popolazione palestinese residente in Palestina, fino al punto da farla diventare una minoranza trascurabile. ‘Dobbiamo incoraggiare l’emigrazione dalla striscia di Gaza’ ha dichiarato alla radio militare israeliana il ministro delle finanze Bezalel Smotrich in una intervista ripresa dal New York Times. ‘Se a Gaza ci fossero 100 o 200.000 arabi anziché 2.000.000 la questione si porrebbe in modo molto diverso’. Dello stesso tenore le dichiarazioni del ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir.

Idee che certamente condividono molti tra i coloni che, ogni giorno, sostengono in armi il progetto di conquista di ogni parte della Palestina. E con loro gli israeliani che hanno votato per i partiti di destra oggi al governo, impauriti ed esasperati dalla sequenza di atti terroristici compiuti negli anni da Hamas e da altre organizzazioni militari e terroristiche palestinesi, convinti che la stragrande maggioranza dei palestinesi non accetterà mai l’esistenza dello Stato d’Israele.

Ma altri israeliani non la pensano così: non quelli che leggono Haaretz, su cui Amira Hass ha scritto che occorre dire basta alla guerra e Gideon Levy ha denunciato la disumanizzazione dei palestinesi da parte dei media del suo paese. Nelle settimane scorse l’opinione di questi israeliani ha cominciato ad esprimersi di nuovo attraverso manifestazioni di piazza – come era avvenuto prima del 7 ottobre – che chiedono a gran voce tanto la liberazione degli ostaggi quanto le dimissioni di Netanyahu.

Ma i sondaggi continuano a indicare che la maggioranza degli israeliani è a favore della continuazione della guerra. E quale sarà l’atteggiamento degli ebrei della diaspora, la cui opinione influisce in maniera significativa sui governi dei paesi occidentali? Come ha dichiarato uno dei maggiori studiosi palestinesi del conflitto, Rashid Khalidi, le guerre si concludono non solo in base ai risultati militari ma anche alle reazioni dell’opinione pubblica.

Se è vero che questa non è una guerra locale, perché potrebbe allargarsi e coinvolgere molti altri paesi, come reagirà l’opinione pubblica occidentale? Saremo in grado di discutere in maniera lucida e fondata un tema così complesso e divisivo?

 

Abbiamo rivolto queste domande ad alcuni autori della casa editrice e studiosi competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.

Nell’intenzione di offrire un contributo di analisi alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti.

Il primo intervento è di Anna Foa, la maggiore studiosa italiana della storia degli ebrei. Seguono i contributi di: Marcello Flores, esperto di storia dei genocidi, e Giovanni Gozzini, esperto di storia della globalizzazione, che con la casa editrice hanno pubblicato, tra l’altro, Il vento della rivoluzione e Perché il fascismo è nato in Italia; Claudio Vercelli, storico contemporaneista e docente di Studi ebraici, che con la casa editrice ha pubblicato, tra l’altro, Storia del conflitto israelo-palestinese e Israele. Una storia in 10 quadri.; Arturo Marzano, professore associato presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa. Si occupa in particolare di storia del sionismo, dello Stato di Israele, del conflitto israelo-palestinese e dei rapporti fra Europa e Medio Oriente; Sarah Parenzo, traduttrice, ricercatrice e pubblicista, vive da vent’anni in Israele. Corrispondente, tra gli altri, de Il manifesto, collabora stabilmente con il servizio pubblico israeliano di riabilitazione psichiatrica; Fabrizio Mandreoli, che insegna teologia comparata e fondamentale a Bologna e Firenze e collabora con l’Istituto per la storia delle religioni dell’ISSR della Toscana. Insegna anche presso il carcere di Bologna ed è responsabile del centro ricerche Insight; Chantal Meloni, professoressa associata di diritto penale internazionale presso l’Università degli Studi di Milano e senior legal advisor presso lo European Center for Constitutional and Human Rights di Berlino (ECCHR), rappresentate legale delle vittime di Gaza nel procedimento dinnanzi alla Corte Penale Internazionale; Lavinia Parsi, dottoranda di ricerca in diritto penale internazionale presso l’Università degli Studi di Milano e la Humboldt Universität zu Berlin, ha vissuto e svolto ricerca in Israele/Palestina, dove ha collaborato con diversi studi legali dediti alla tutela dei diritti umani.

 

L’intervento di Anna Foa

L’intervento di Marcello Flores e Giovanni Gozzini

L’intervento di Claudio Vercelli

L’intervento di Arturo Marzano

L’intervento di Ignazio De Francesco

L’intervento di Sarah Parenzo

L’intervento di Fabrizio Mandreoli

L’intervento di Chantal Meloni e Lavinia Parsi

Israele-Palestina: discutere la guerra

[Nell’intenzione di offrire un contributo alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti, abbiamo rivolto alcune domande ad autori della casa editrice, studiosi e competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.
La situazione cambia di giorno in giorno e nuovi elementi potranno integrare l’analisi.

Il primo intervento è di Anna Foa, la maggiore studiosa italiana della storia degli ebrei, di cui la casa editrice ha pubblicato, tra l’altro: Gli ebrei in Italia; Ebrei in Europa. Dalla Peste Nera all’emancipazione XIV-XIX secolo; Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento; Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43; La famiglia F.]

 

Molti sono gli interrogativi suscitati da questo testo, in un momento in cui, a quasi quattro mesi di distanza dall’inizio della guerra, quel sabato nero del 7 ottobre, essa non sembra voler cessare, il numero dei morti palestinesi a Gaza aumenta ogni giorno di più, e il governo di Netanyahu prospetta soluzioni sempre più estreme, come quella, per fortuna irrealistica, di gettare un’atomica su Gaza o quella di trasferire i palestinesi di Gaza su un’isola artificiale o di deportarne oltre un milione.

Chi crede di agire in nome di Dio non pone limiti alle sue azioni. E i ministri estremisti dell’ultimo governo di Netanyahu, i Ben Gvir e gli Smotrich, eredi di formazioni come il Kach, che fino all’avvento di questa destra erano addirittura impedite di far politica in Israele, sono esattamente questo: agitano un messianismo estremo, che li ha fatti paragonare in Israele a quegli zeloti del I secolo che sono stati causa della guerra con i romani e la distruzione del Tempio, dando inizio alla grande diaspora; e vogliono sbarazzarsi dei palestinesi e in realtà di tutti i non ebrei, ma forse anche di quegli ebrei che non condividono la loro strategia politico-religiosa, sono dichiaratamente razzisti e fautori della pulizia etnica, lavorano per creare una grande Israele guidata dalla Torah, come l’Iran con il Corano. A renderli pericolosi, e non un semplice fenomeno folkloristico, sia pur con le mani sporche di sangue, sta il fatto che sono ministri di un governo in carica, hanno quindi il potere di mettere in pratica quanto dicono. Molte delle loro affermazioni sono confluite nella richiesta del Sudafrica di mettere sotto accusa Israele come prove dell’intenzione di Israele di commettere genocidio. E a loro si riferisce la decisione della Corte dell’Aja, nella sua dichiarazione del 26 gennaio, di “prevenire e punire il diretto e pubblico incitamento a commettere genocidio”, comma votato anche dal giudice israeliano Aharon Barak.

E veniamo alla grande novità di questi giorni, la sentenza, provvisoria perché non decide se Israele stia effettivamente commettendo genocidio, e urgente, perché volta a fermare prima possibile l’intervento di Israele a Gaza, pur senza chiedere un vero e proprio cessate il fuoco. Ma la richiesta di obbedire nella conduzione della guerra alle norme del diritto internazionale implica di per sé un arresto, se non formale sostanziale, della guerra o almeno un suo deciso ridimensionamento. Inoltre, Israele ha un mese di tempo per dimostrare di avere obbedito alle raccomandazioni della Corte. Siamo nell’ambito di precise disposizioni volte a prevenire la possibilità di un genocidio, non a condannarlo dopo la sua realizzazione.

La decisione della Corte dell’Aja si rivela così una sorta di compromesso, ma più dal punto di vista formale che sostanziale. Se verrà rispettata, le possibilità di uscire da questa terribile guerra cresceranno di molto. Inoltre, la sentenza chiede il rilascio immediato dei prigionieri di Hamas. Se il processo andrà avanti, come sembra, ad essere posti sotto accusa saranno, oltre ad Israele, Hamas.

Queste le prospettive che la sentenza dell’Aja apre. Essa rende più facile a Biden votare a favore della mozione dell’ONU per il cessate il fuoco, già bloccata dal veto degli USA nel dicembre. Rende più facile alla società israeliana chiedere, come una sua parte sta facendo nonostante la guerra, le dimissioni del governo Netanyahu perché ne accusa direttamente i ministri di voler realizzare un genocidio, divenendo così responsabili dell’accusa del Sudafrica. Inoltre gli israeliani hanno dalla sentenza un forte appoggio nella richiesta di rilascio incondizionato degli ostaggi.

Più facile non vuol dire realizzabile. Chi pensa che dal momento che nient’altro riusciva a fermare Netanyahu ben venga la Corte dell’Aja, è ben consapevole dei rischi di questa operazione. Non tanto in sé, perché la sentenza dell’Aja si è dimostrata di un raro equilibrio e ha mostrato di aver ben presenti tutti i termini della questione e le sue conseguenze. E nemmeno per gli abitanti di Gaza, a cui difficilmente potrebbe succedere qualcosa di peggio di quello che sta già succedendo. Ma certo per gli ebrei del mondo, che vedono crescere intorno a loro l’antisemitismo. Già ora molta parte dell’opinione pubblica recepisce semplicemente che la sentenza abbia avallato l’accusa di genocidio.

Penso che possiamo e dobbiamo affrontare questo clima, queste accuse. Spiegare, parlare, discutere. Sarebbe molto peggio affrontarlo se i Ben Gvir vincessero ed attuassero il loro folle progetto. Allora davvero, se non avremo fatto nulla per contrastarli, saremo assai meno credibili nel combattere l’antisemitismo.

27 gennaio | Leggere, capire, approfondire

In occasione del Giorno della Memoria, i nostri consigli di lettura e approfondimento:

 

Carlo Greppi
Un uomo di poche parole
Storia di Lorenzo, che salvò Primo

 

 

 

Andrea Riccardi
La guerra del silenzio
Pio XII, il nazismo, gli ebrei

 

 

 

Anna Veronica Pobbe
Un manager del Terzo Reich
Il caso Hans Biebow

 

 

 

Roberto Calvo
L’ordinamento criminale della deportazione

 

 

 

 

Anna Foa
Gli ebrei in Italia
I primi 2000 anni

 

 

 

 

Pierre Savy (a cura di)
Storia mondiale degli Ebrei

 

 

 

 

Wolfgang Sofsky
L’ordine del terrore
Il campo di concentramento

 

 

 

La rivoluzione culturale nazista
Johann Chapoutot

 

 

 

 

Titti Marrone
Meglio non sapere

 

 

 

 

Anna Foa
Portico d’Ottavia 13
Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43

 

 

 

Enzo Collotti
Il fascismo e gli ebrei
Le leggi razziali in Italia

 

 

 

Filippo Focardi
Il cattivo tedesco e il bravo italiano
La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale

 

 

 

Andrea Riccardi
L’inverno più lungo
1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma

 

 

 

Marco Patricelli
Il volontario

 

 

 

 

Pier Paolo Portinaro
L’imperativo di uccidere
Genocidio e democidio nella storia

 

 

 

Saul Friedländer
Aggressore e vittima
Per una storia integrata dell’Olocausto

 

 

 

Anna Foa
Portico d’Ottavia
ill. di M. Berton

 

 

 

Claudio Vercelli
Storia del conflitto israelo-palestinese

La deriva dell’Occidente

Di che cosa parliamo quando parliamo di Occidente? Oggi, con la guerra in Ucraina, sembra ritornare in auge un concetto di Occidente tutto geopolitico, dove Europa occidentale e Stati Uniti, difensori di democrazia e libertà, si contrappongono alla ‘barbarie’ orientale, russa e cinese. Ma non è sempre stato così, anzi, e siamo sicuri che questa idea di Occidente, questa alleanza fatta di valori, di economia e di tecnologia militare, duri per sempre?

Franco Cardini introduce La deriva dell’Occidente.

 

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Editori Laterza (@editorilaterza)

 

All’arme! All’arme! I priori fanno carne!

«All’arme! All’arme! I priori fanno carne!» grida un artigiano per incitare alla rivolta. È il 20 luglio del 1378, siamo a Firenze in piena rivolta dei Ciompi, una delle tante che infiammano l’Europa nel corso del Trecento.

Utilizzando le cronache del tempo, Alessandro Barbero ci fa rivivere la concitazione, l’entusiasmo, la violenza di quelle giornate in cui una massa di persone decise che il futuro così come lo vedeva non gli piaceva e provò a cambiarlo.

 

 

Natale Laterza 2023

Alessandro Barbero
All’arme! All’arme! I priori fanno carne!

«All’arme! All’arme! I priori fanno carne!» grida un artigiano per incitare alla rivolta. È il 20 luglio del 1378, siamo a Firenze in piena rivolta dei Ciompi, una delle tante che infiammano l’Europa nel corso del Trecento.

Riviviamo con Alessandro Barbero la concitazione, l’entusiasmo, la violenza di quelle giornate in cui una massa di persone decise che il futuro così come lo vedeva non gli piaceva e provò a cambiarlo.

 

 

Stefano Mancuso
Fitopolis, la città vivente

Da troppo tempo ci siamo posti al di fuori della natura, dimenticandoci che rispondiamo agli stessi fondamentali fattori che controllano l’espansione delle altre specie. Abbiamo concepito il luogo dove viviamo come qualcosa di separato dal resto della natura, contro la natura.

Ecco perché da come immagineremo le nostre città nei prossimi anni dipenderà una parte consistente delle nostre possibilità di sopravvivenza.

 

 

Patrick Boucheron
Le date che fanno la storia

753 a.C.? Certo, la fondazione di Roma. 33 d.C.? Beh, questa è più facile: la crocifissione di Gesù! Ma cosa è successo nel 751 d.C.? O nel 1610? O nel 1911? La storia è certamente fatta di date, di eventi che segnano il tempo come pietre miliari e lo scandiscono. E ogni data, sia essa famosa o inaspettata, diventa la porta d’accesso a una storia che accoglie immaginazione, ricordi, emozioni.

 

 

Chiara Colombini
Storia passionale della guerra partigiana

A partire dall’8 settembre del 1943, e fino al 25 aprile del 1945, migliaia di giovani e meno giovani abbandonarono la loro vita abituale, presero le armi e si gettarono in un’avventura che stravolse la loro esistenza. Quali furono i sentimenti e le passioni che li spinsero a un passo del genere e li sostennero in quei venti mesi? Amore e odio, speranza e vendetta, dolore e felicità: osservare le passioni della Resistenza ‘in diretta’ significa avvicinarsi a quella esperienza in modo quasi viscerale ed eliminare le distorsioni prodotte dal passare del tempo.

 

 

Emanuela Evangelista
Amazzonia. Una vita nel cuore della foresta

«Il tempo della mia vita cambiò, il ritmo cambiò. Fu come passare dall’altro lato di un orologio. Vivere qui comportava impiegare il tempo di questo luogo, che scorre sotto lancette diverse, lente e collose, fatte di piogge, di stagioni, di epoche di raccolta, di periodi di deposizione delle uova, di limiti imposti da forze superiori, con le quali l’uomo non compete; semplicemente si arrende, le asseconda, le rispetta.»

 

 

Andrea Carandini
Io, Nerone

Chi era Nerone? Andrea Carandini, uno dei più grandi studiosi di Roma antica, ne racconta vita e gesta in prima persona, ricostruendo la figura di uno dei più originali e controversi principi di Roma.

 

 

 

Imma Eramo
Il mondo antico in 20 stratagemmi

Il cavallo di Troia, le terre di Didone, il ratto delle Sabine, il tappeto di Cleopatra…
La storia antica è costellata di fatti e vicende in cui la soluzione di problemi e la vittoria sui concorrenti si ottengono grazie a un guizzo di intelligenza. Imbrogli, trucchi e raggiri che ci raccontano le sorprendenti sfaccettature del carattere e del mondo dei nostri antenati.

 

 

Giusto Traina
La prima guerra mondiale della storia

I 14 anni che segnarono la fine della Repubblica romana furono caratterizzati da una lotta epica e senza quartiere tra uomini che volevano imporre la propria egemonia: Cesare contro Pompeo, Ottaviano contro Antonio. Ma le cose sono andate davvero così o si è trattato piuttosto di un conflitto su scala mondiale, capace di coinvolgere e travolgere tutti i popoli allora conosciuti: traci e parti, galli e ispanici, armeni ed egizi?

 

 

Hanno Sauer
L’invenzione del bene e del male

Come abbiamo imparato a distinguere il bene dal male? Siamo sempre stati capaci di farlo? E lo saremo ancora, nel mondo a venire?
Una grande storia universale della morale nell’epoca della sua crisi più buia. Un appassionante tour de force che abbraccia cinque milioni di anni di evoluzione umana.