La resistenza lunga

Gli antifascisti hanno costruito le fondamenta della nuova Italia repubblicana e democratica. Un patrimonio ricco di pensiero, di saperi, di progetti per il futuro…

A distanza di quasi ottant’anni dalla fondazione della Repubblica italiana, democratica e antifascista, il significato del termine antifascismo sembra aver perduto la sua dimensione storica in un uso corrente, troppo spesso improprio, quasi sempre contrapposto a quello di fascismo, anch’esso privato dei suoi specifici contenuti, ma diventato un “marchio” politico di cui fregiarsi a seconda delle circostanze.

Un oblio già evidente, a metà degli anni Settanta, in una minoranza di giovani, quando antifascismo e fascismo finivano per ridursi a mere etichette in quella lotta per bande, a volte sanguinosa, che ha marcato una delle stagioni più difficili della democrazia italiana.

Nel periodo ‘92-‘96, in seguito alla traumatica fine di tutti i partiti storici fondatori nel 1945 dell’Italia repubblicana, un intenso dibattito scientifico sulle origini aveva riproposto il discorso sull’antifascismo nel suo significato storico di lievito valoriale alla Carta Costituzionale, rimasta pilastro della continuità istituzionale nella cosiddetta seconda Repubblica. Ancora oggi, lo scontro politico si continua ad alimentare impropriamente di una vicenda storica lontana ormai più di un secolo, col risultato di ignorare il contesto politico, culturale, sociale e internazionale dell’epoca e di cancellare la stessa identità degli antifascisti, diversi gli uni dagli altri nei valori ideologici, morali e politici, ma alla fine uniti per fondare il nuovo Stato democratico. Quando si lamenta l’assenza di impegno civile nelle generazioni più giovani, forse vale la pena riflettere su quanto questa costante rimozione e distorsione della storia abbia contribuito a indebolire i valori repubblicani che i padri antifascisti avevano affermato nel corso della lunga lotta contro il fascismo.

La storia dell’antifascismo va dunque letta come storia dei tanti soggetti antifascisti che hanno combattuto il regime fascista: i partiti antifascisti le cui radici risalivano all’Italia liberale, le nuove formazioni politiche antifasciste, i giovani antifascisti cresciuti nel ventennio che non si riconoscevano nei vecchi partiti, la generazione dei più anziani protagonisti della prima guerra civile del ‘19-‘22, ritornati sulla scena nella seconda guerra civile del ‘43-‘45. Accanto ai militanti c’è poi il mondo della cultura antifascista legata ai valori dell’Italia liberale, e infine la moltitudine di anonimi antifascisti silenti dalle più diverse provenienze politiche e sociali il cui antifascismo si esprime in un gesto, in un insulto, in una scritta sui muri, in un atto sporadico di disobbedienza.

La maggior parte degli studiosi ha dunque fissato nell’8 settembre 1943 l’inizio di un’altra storia, questa sì decisiva per le sorti dell’Italia, trasformata in una democrazia grazie al coraggio e al sacrificio di un intero popolo che finalmente si era ribellato armi in pugno contro i fascisti e i loro alleati tedeschi. Ovviamente aver privilegiato questo campo di ricerca sta anche nel carattere epico della vicenda resistenziale che coinvolge l’intero paese al contrario di quella degli antifascisti, condannati all’esilio, alle carceri, alla clandestinità e resi invisibili agli occhi degli italiani. Eppure la loro scelta antifascista era costata privazioni, sofferenze, ferite profonde, senza contare quante vittime il fascismo aveva lasciato sul terreno nel percorso verso il potere, culminato con la marcia su Roma nel 1922 e proseguito all’insegna della violenza e del terrore fino al consolidamento della dittatura nel 1926. I caduti negli scontri con gli squadristi e i tanti bastonati a morte o assassinati a sangue freddo si contano a migliaia, un numero di sicuro inferiore ai caduti nella resistenza — tra partigiani e civili quasi 50 mila — ma certo non trascurabile.

Nelle ricostruzioni storiche ha pesato questa visione eroica dei partigiani, scesi sul campo di battaglia armi alla mano per combattere finalmente i fascisti alleati dei nazisti e riscattare così agli occhi del mondo l’intero popolo italiano dalla colpa della guerra fascista. Si tratta di una lettura semplificata, risuonata nelle celebrazioni ufficiali e riproposta nei manuali scolastici che poggia SII una storiografia fortemente condizionata dalla dinamica politica del primo cinquantennio repubblicano.

A ridare un equilibrio interpretativo all’intera storia dell’antifascismo, non riassumibile nella fase finale del ‘43-‘45, mi pare si debba ritornare alla definizione di Max Salvadori che in un libro del 1974 ha parlato di “resistenza lunga”, iniziata con le spedizioni punitive degli squadristi nel 1920 e continuata fino al 1945: in questa cornice 1’8 settembre ‘43 «fu solo una tappa, non un punto di partenza».

L’interpretazione di “resistenza lunga” comporta anche una revisione della vulgata corrente, che propone la guerra partigiana come il solo terreno sul quale si va legittimando la futura classe dirigente antifascista della Repubblica democratica. Una legittimazione che si sono guadagnati tutti gli antifascisti nelle diverse fasi e nelle diverse modalità della loro lotta contro il fascismo; a maggior ragione se si considera il ruolo che ricoprono nella nuova Italia tutti i leader dei partiti antifascisti ante marcia — De Gasperi, Nenni, Togliatti, ma anche La Malfa e Saragat e gli esponenti ai vertici del Partito d’Azione (Pda), aderenti alle altre formazioni politiche dopo lo scioglimento del loro partito nel 1947.

La loro legittimazione come futura classe dirigente dell’Italia postfascista nasce da un dibattito sui futuri assetti democratici dello Stato che non può essere circoscritto al confronto aperto nel Cln, dove si consolida l’unità politica degli antifascisti. Il dialogo tra tutti i partiti ciellenisti in questi venti mesi di guerra poggia infatti sul ricco patrimonio di pensiero e di riflessioni maturato dalle forze politiche e dalle singole personalità dell’antifascismo che per anni si sono misurate su quale Stato far nascere dopo il fascismo. Esiliati in terre straniere, socialisti, repubblicani, democratici e liberali avevano fatto i conti con le loro responsabilità, i loro ritardi, la loro cecità su quanto era avvenuto in Italia nel ‘19-‘22, attraverso un’autocritica anche dura, necessaria però a riconsiderare i limiti non solo della loro azione, ma dei rispettivi patrimoni valoriali. Con questa sorta di censura nei confronti di Amendola — un esponente di primo piano del Pci, ma anche un intellettuale che in numerose pubblicazioni ha ricostruito la storia di questo periodo — non si vuole certo ridimensionare i sacrifici della lotta contro il fascismo in esilio e in Italia dei militanti comunisti. Per Mussolini erano i suoi peggiori nemici, contro i quali la repressione in Italia era stata durissima, come testimonia il numero degli aderenti al Pci rinchiusi nelle carceri; un numero superiore a quello degli altri antifascisti. Si intende però sottolineare la peculiarità del loro antifascismo, finalizzato ad abbattere la dittatura fascista per instaurare la dittatura del proletariato. Anche i comunisti lottavano nelle carceri e in esilio per la libertà, ma era lotta per abbattere il regime capitalista identificato con il regime fascista.

La storia dell’antifascismo va dunque letta nella cornice del più sanguinoso periodo storico attraversato dall’Europa, iniziato con la grande guerra del 1914 e terminato con un’altra catastrofe durata sei terribili anni, dal 1939 al 1945; un trentennio di totalitarismi e di conflitti nei quali si era consumata fino quasi a scomparire la stessa civiltà millenaria dell’intero continente. Ritrovare il significato storico dell’antifascismo e ridare identità agli antifascisti significa anche misurarsi con quasi cent’anni di storiografia, se si considerano le tante ricostruzioni sull’avvento al potere di Mussolini scritte negli anni precedenti alla caduta del fascismo. Un percorso di approfondimento sulle diverse fasi di una storia complessa per la quantità e la diversità di soggetti, di luoghi, di valori espressi dagli antifascisti in esilio, nelle carceri, nella lotta clandestina, ma anche nella loro sfera privata, nei luoghi di lavoro, nelle parrocchie e persino nelle organizzazioni fasciste.

[Proposte di lettura]
Questione di genere

Laura Schettini

L’ideologia gender è pericolosa

L’‘ideologia gender’ minaccia la nostra società! Confonde l’identità e le menti dei nostri figli, mette a repentaglio l’ordine naturale delle cose, quello che distingue in maschi e femmine! Ma davvero esiste un progetto globale per renderci tutti ‘fluidi’? Dove nasce l’ossessione per le questioni di genere e gli orientamenti sessuali non conformi? E quali sono le fratture politiche che si nascondono dietro a questi temi?

 

 

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Laura Tripaldi

Gender tech
Come la tecnologia controlla il corpo delle donne

Quali sono i lati nascosti delle ‘tecnologie di genere’ come pillola contraccettiva, test di gravidanza o ecografia? Hanno certamente promosso emancipazione e liberazione dai vincoli della ‘natura’, ma hanno anche aperto le porte a più subdole forme di violenza e discriminazione. Laura Tripaldi ne racconta gli aspetti più controversi e invita a riflettere sul loro significato culturale e politico.

 

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Chiara Volpato

Psicosociologia del maschilismo
nuova edizione

Il maschilismo è ancora tra noi. Irritante e potente, continua a condizionare la nostra vita collettiva. Quali sono i processi psicologici e sociali che sorreggono il fenomeno, frenano il cambiamento e limitano diritti, libertà e creatività delle donne ma anche degli uomini, costretti troppo spesso in ruoli stereotipati?

 

 

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Chiara Bottici

Nessuna sottomissione
Il femminismo come critica dell’ordine sociale

Il femminismo non è un movimento che ha a che fare solo ed esclusivamente con ‘questioni di donne’. Costituisce, piuttosto, una forma di critica dell’ordine sociale nella sua globalità. Consente di affinare la concezione dell’oppressione attraverso un’analisi dei modi di dominio interiorizzati e di decostruirli.

 

 

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Chiara Bottici

Manifesto anarca-femminista

«O tutte, o nessuno di noi sarà libero». Questo il motto dell’anarca-femminismo. Questa nuova e rivoluzionaria visione vuol dire la liberazione di ogni creatura vivente dallo sfruttamento capitalista e dalla politica androcentrica di dominazione.

 

 

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Florence Rochefort

Femminismi
Uno sguardo globale

Dall’Europa all’America Latina, dall’Asia all’Africa, una mappa della storia dei movimenti femministi che negli ultimi duecento anni hanno lottato per la libertà delle donne.

 

 

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Judith Butler

Questione di genere
Il femminismo e la sovversione dell’identità

Il libro che ha segnato un punto di svolta del femminismo internazionale e che è divenuto un classico del pensiero di genere. Judith Butler argomenta perché il corpo sessuato non è un dato biologico ma una costruzione culturale.

 

 

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Judith Butler

Soggetti di desiderio

«Il desiderio è stato considerato filosoficamente pericoloso a causa della sua propensione ad oscurare una visione chiara e a promuovere la miopia filosofica, incoraggiandoci a vedere solo ciò che noi vogliamo e non ciò che è. Il desiderio, in quanto immediato, arbitrario, immotivato e animale, è ciò che dev’essere superato: esso minaccia di indebolire l’attitudine al distacco e all’oggettività che ha condizionato, in modalità alquanto variegate, il pensiero filosofico.»

 

 

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Cinzia Arruzza – Tithi Bhattacharya – Nancy Fraser

Femminismo per il 99%
Un manifesto

Abbiamo bisogno di un femminismo che dia la priorità alle vite delle persone. Oggi che il sistema di valori liberisti è in crisi e stiamo vivendo una nuova ondata femminista internazionale, abbiamo lo spazio per creare un altro femminismo: anticapitalista, antirazzista ed ecosocialista.

 

 

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Paola Columba

Il femminismo è superato
Falso!

Dalle battaglie delle femministe ‘storiche’ alle ragazze della youtube generation il punto resta la difesa dei diritti delle donne. Perché vanno difesi ogni giorno e di nuovo conquistati. Non possono mai essere dati per scontati. Le donne lo sanno. Lo sapevano le ragazze di ieri, devono saperlo le ragazze di oggi.

 

 

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Valeria Palumbo

Non per me sola
Storia delle italiane attraverso i romanzi

Le opere delle nostre scrittrici – da Ada Negri a Elsa Morante, da Grazia Deledda a Luce d’Eramo, da Matilde Serao a Sibilla Aleramo e Anna Maria Ortese – offrono il racconto di un’epopea sotterranea: quella della battaglia durata più di un secolo per garantire alle donne italiane piena cittadinanza.

 

 

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Emma

Bastava chiedere! 10 storie di femminismo quotidiano

Conosci la scena: sei tornata dal lavoro, hai fatto la spesa, stai preparando la cena e nel frattempo pensi a quando pagare l’affitto / chiamare l’idraulico / prendere la pillola / finire quella mail di lavoro / controllare che i tuoi figli abbiano fatto i compiti / caricare la lavatrice. Tutto questo mentre il tuo compagno ti chiede se per caso sai dove sono finite le sue scarpe. Storie esilaranti e tremendamente serie. Un fumetto femminista che ogni donna (e ogni uomo) dovrebbe leggere.

 

 

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Sandra Petrignani

Lessico femminile

Sandra Petrignani, attraverso alcune delle opere da lei più amate, riesce a costruire un lessico femminile che restituisce le sfumature che il pensiero delle donne è stato capace di assumere quando, traducendosi in parole, ha raccontato il mondo. Michela Marzano, “Robinson – la Repubblica”

 

 

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Sandra Petrignani

Leggere gli uomini

Fra esercizi di ammirazione e scatti di rabbia, Sandra Petrignani ci porta dentro tante pagine indimenticabili, da Dumas a Roth, da Pavese a Proust, da Calvino a Tolstoj, da Gary a Dostoevskij e a mille altri. Cercando davvero di capirli i maschi, nella scrittura e nella vita, nel coraggio e nella fragilità, nelle ossessioni di cui sono preda. Una scorribanda molto personale e appassionata che ci fa scoprire, come insegna Virginia Woolf, quanto «nella vita come nell’arte i valori delle donne non sono i valori degli uomini» e che esiste, probabilmente, un modo femminile di essere lettore.

 

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Daniela Danna

Fare un figlio per altri è giusto
Falso!

Spesso la ‘gestazione per altri’ o ‘maternità surrogata’ è presentata come un dono, un atto di liberalità e solidarietà da parte di donne generose che aiutano coppie infertili ad avere figli. Ma le cose stanno davvero così? Siamo consapevoli del fatto che non è una ‘tecnica di riproduzione assistita’, bensì una gravidanza come le altre? È giusto considerare delle donne ‘portatrici’ di figli altrui? È giusto che dei neonati siano dati a ‘genitori committenti’ in cambio di denaro?

 

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Catharine A. MacKinnon

Le donne sono umane?

Nel 1948 la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo ha sancito a cosa un essere umano ha diritto. Sono passati oltre cinquanta anni e sorge un dubbio: anche le donne sono umane? Catharine A. MacKinnon risponde senza esitazioni. Quel che accade alle donne ha poco a che fare con i diritti umani perché, nonostante i buoni propositi, la società, il diritto e la politica restano maschili e a molte, troppe, donne è negato il dominio di sé.

 

 

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Gisela Bock

Le donne nella storia europea

Nel quadro di una storia culturale delle relazioni fra i sessi, Gisela Bock descrive la situazione di vita, di lavoro e giuridica delle donne europee dal Medioevo a oggi, i loro ideali e le loro realtà, la loro faticosa lotta per i diritti civili, politici e sociali. E getta uno sguardo colto e appassionato su uno dei più importanti temi della storia europea.

 

 

 

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Françoise Héritier

Maschile e femminile

Un classico dell’antropologia contemporanea, uno studio di riferimento per chiunque voglia affrontare oggi il tema della ‘differenza’.

 

 

 

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Maria Giuseppina Muzzarelli

Madri, madri mancate, quasi madri
Sei storie medievali

Sei storie esemplari di donne del Medioevo e del loro rapporto con la maternità, in un affresco della multiforme condizione femminile che testimonia la capacità di tante donne di reinventare il loro destino.

 

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Maria Giuseppina Muzzarelli

Nelle mani delle donne
Nutrire, guarire, avvelenare dal Medioevo a oggi

Madri, seduttrici, mogli, sante, streghe, guaritrici, assassine: donne che si fanno latte per il figlio, che seducono, curano, nutrono, uccidono con il cibo, sono educate alla sua moderazione, se ne privano. Una relazione, quella fra le donne e il cibo, che a tutti pare di conoscere e che invece è stata ed è molto più sfaccettata, mossa e contraddittoria di quanto comunemente si creda.

 

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Ferruccio Bertini – Franco Cardini – Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri – Claudio Leonardi

Medioevo al femminile

Egeria la pellegrina, Baudonivia la biografa, Dhuoda la madre, Rosvita la poetessa, Trotula il medico, Eloisa l’intellettuale, Ildegarda la profetessa, Caterina la mistica: otto ritratti biografici e letterari tanto più avvincenti in quanto rappresentativi ciascuno di un diverso itinerario umano e sociale. Mai come in questo volume è stato messo in luce così chiara il molteplice, enigmatico, affascinante volto della donna medievale.

 

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a cura di Ottavia Niccoli

Rinascimento al femminile

Attraverso significative figure di donne di estrazione e culture diverse – una grande signora, una strega, la compagna di due banditi, una monaca riverita e una «esorcizzata», una prostituta, una mistica – si delinea una prospettiva inconsueta dell’Italia dell’Umanesimo e della Controriforma.

Israele-Palestina: discutere la guerra

[Nell’intenzione di offrire un contributo alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti, abbiamo rivolto alcune domande ad autori della casa editrice e studiosi competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.

La situazione cambia di giorno in giorno e nuovi elementi potranno integrare l’analisi.

Dopo gli interventi di Anna FoaMarcello FloresGiovanni GozziniClaudio VercelliArturo Marzano e Ignazio De Francesco, pubblichiamo il contributo di Sarah Parenzo. Traduttrice, ricercatrice e pubblicista, vive da vent’anni in Israele dove ha conseguito un Ph.D sui risvolti etici e psicoanalitici della ricezione dello scrittore Abraham B. Yehoshua in traduzione italiana.

Corrispondente de Il manifesto e dei ticinesi Azione e Naufraghi per le pagine di cultura e politica estera, da un decennio collabora stabilmente con il servizio pubblico israeliano di riabilitazione psichiatrica.]

 

Israele- Palestina: un conflitto catalizzatore di alterità.

Trascorsi quasi cinque mesi dal sette ottobre è evidente che solo un approccio multidisciplinare può consentire allo spettatore impotente della tragedia che si consuma in Israele-Palestina di reggerne la complessità, rifuggendo dicotomie e semplificazioni.
Il presente contributo propone di adottare, come punto di osservazione sul conflitto, il complesso prisma della salute mentale.

Negli anni sono stati pubblicati numerosi studi di psichiatria e psicoanalisi sui drammatici effetti dell’occupazione, molti dei quali riportano dati allarmanti sul degrado della salute mentale dei palestinesi, a cominciare dai minori, sottoposti ad uno stress costante in condizioni di miseria, paura, impotenza e frustrazione.
Tuttavia, come ha sottolineato anche il gruppo Psychoactive (Mental Health Professionals for Human Rights) che fornisce supporto psicologico agli attivisti, anche la società israeliana, seppure con le debite asimmetrie, paga un prezzo alto a causa delle proprie politiche. Non a caso negli ultimi mesi, mentre i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania sono impegnati nella lotta per la sopravvivenza, nello stato ebraico è in corso una vera e propria “emergenza salute mentale” e i servizi pubblici sono al limite del collasso.
A poche ore di distanza dai massacri del sette ottobre, psichiatri e psicoterapeuti si sono mobilitati in massa su base volontaria per fornire supporto ai superstiti, recandosi con generosità nelle strutture alberghiere destinate ad ospitare gli sfollati. Il tentativo, effettuato nelle settimane successive, di passare la palla alle istituzioni non ha fatto che sottolineare l’inadeguatezza del sistema, già sul banco degli imputati per infinite ragioni, anche in questo settore.

Alcuni anni fa era entrata in vigore una riforma che mirava ad alleggerire gli ospedali psichiatrici intasati, rafforzando la gamma di servizi di salute mentale fruibili attraverso le aziende sanitarie semi-privatizzate. Ma l’esperimento non è andato a buon fine, nelle strutture manca infatti personale e quello che c’è è oberato e sottopagato, mentre, come in un girone dantesco, le file dei pazienti si ingrossano ogni giorno che passa. La corsia preferenziale va naturalmente ai superstiti dei massacri, agli sfollati e ai parenti delle vittime e degli ostaggi, ai quali si aggiungono via via gli ostaggi liberati e i soldati che tornano da Gaza feriti nel corpo e nell’anima. Poi ci sono le vittime del cosiddetto “trauma secondario”, come i fruitori dei video shock diffusi in rete da Hamas, ma anche i telespettatori dei canali televisivi israeliani che 24 su 7 trasmettono quasi solo notizie sulla guerra riproponendo all’infinito le storie di morti e ostaggi. Esausti sono anche gli attivisti ebrei perennemente minacciati e censurati per le espressioni di dissenso politico, alcuni dei quali fungono da guardiani dei palestinesi quotidianamente assaliti dai coloni nel West Bank, piuttosto che i palestinesi di cittadinanza israeliana allontanati dai posti di lavoro e dalle università, perseguitati e arrestati per minime manifestazioni di empatia nei confronti dei civili inermi di Gaza. Un posto va anche alle migliaia di manifestanti divorati dalla rabbia per le mancate dimissioni di Netanyahu, il cui governo ha trascinato il paese in un baratro senza precedenti, ma la lista potrebbe continuare passando per i cittadini che lavoravano nel turismo o in uno degli altri settori stroncati dalla guerra, o per quelli che avevano investito i loro risparmi nelle località di confine a nord o a sud, inagibili a causa del pericolo. Poi ci sono quelli che si dibattono nella scelta di abbandonare la madrepatria in cerca di lidi migliori dove, tuttavia, troveranno ad accoglierli i fantasmi della Shoah, il vecchio antisemitismo e le nuove accuse di genocidio. Infine tutti temono di venire centrati dal prossimo missile o di trovarsi coinvolti in uno degli attentati che si fanno sempre più frequenti, e sempre tutti saltano in aria al minimo rumore e hanno i nervi a pezzi e gli occhi stanchi di chi legge continuamente le notizie sui dispositivi elettronici, in cerca di presagi di un futuro ancora troppo incerto.

Incapace di far fronte alla richiesta, il Ministero si barcamena tra linee telefoniche di pronto soccorso emotivo, terapie farmacologiche e interventi psicoterapeutici di breve durata, mentre elargisce generosamente corsi di formazione per la prevenzione della sindrome post-traumatica da stress di cui il sistema stesso è in buona parte l’artefice: cerotti per una vera e propria emorragia.
Ma il disagio psichico della società israeliana è anche lo specchio di meccanismi di difesa molto più profondi fino ad ora sepolti in un vaso di Pandora che i miliziani di Hamas, con i loro atti al limite dell’umano, hanno scoperchiato. Il malessere è il prezzo di una vita non autentica, vissuta in una bolla di denial alimentata dalle narrative della hasbarà, “l’advocacy israeliana”, e dalla censura dei media che non trasmettono nulla di quanto accade dall’altra parte del muro. L’israeliano medio, compresi i membri della cosiddetta sinistra liberale, assidui manifestanti alle proteste del 2023, ha scelto più o meno consapevolmente, di ignorare le insidie dell’occupazione, pensando ingenuamente che l’uso della forza potesse risolvere tutto, sostituendosi ad una soluzione politica definitiva. Questo è il prezzo di culture che accettano processi di esclusione come giusti e inevitabili, e che mettono in atto forme di dominio e tecniche pervasive di espropriazione e controllo. Forte dei miti che la sostengono, difficilmente una società ambigua o assuefatta alla malafede, sarà toccata dal dubbio, preferendo relegare e oggettivare gli elementi di disturbo. Ma il sette ottobre gli israeliani non hanno toccato con mano solo la fragilità del loro paese, bensì hanno incontrato l’Altro, quel vicino che hanno volutamente reso invisibile, nella sua esplosione di furia. E benché l’ego faccia del proprio meglio per riprendere il controllo reimmergendosi nella quotidianità, non bastano lo slogan della propaganda che recita “insieme vinceremo”, nè le arringhe di Netanyahu che promette di annientare Hamas, per rassicurare l’inconscio che ormai percepisce chiaramente la minaccia di disgregazione, fonte di angoscia profonda.

Ma gli altri restano celati, oscuri e indecifrabili nella misura in cui risiede in noi un alter ego incomprensibile, e ciò vale anche per gli spettatori terzi di questo scontro, la cui aggressività si traduce ora in antisemitismo,  ora in islamofobia, due volti malsani di un’Europa che non ha mai saputo fare i conti con l’alterità che la abita.
Quello tra Israele e Palestina, è dunque uno scontro che sconfina il territorio, catalizzando l’Alterità presente in ognuno di noi. Ma come direbbe lo psichiatra Franco Basaglia, studioso di Fanon e grande esperto di alterità e colonialismi, la sfida va giocata sul terreno della pratica, mantenendo aperte le contraddizioni e accettando di affrontare la crisi identitaria che un cambio di logica del potere, in nome del principio di libertà, non può che comportare.

Non si tratta infine di giustificare, bensì di meglio comprendere i meccanismi di difesa e la fragilità dell’altro, riconoscendone i traumi e ascoltandone la storia nella sua versione dei fatti. Questo è ciò che possiamo fare mentre i grandi firmano trattati per il rifornimento di armamenti: sospendere il giudizio, anche quando il sistema nervoso è pronto a saltare, e tendere l’orecchio e il cuore verso l’altro, armandoci di un ascolto paziente e rispettoso, come quello suggerito nei sui scritti dalla psicoanalista Luciana Nissim Momigliano, ebrea e partigiana deportata ad Auschwitz con Primo Levi e, come lui, sopravvissuta.

Le parole della storia, con Luciano Canfora

Le parole della storia è un ciclo di tre incontri – curati e condotti dal professor Luciano Canfora – dedicati all’approfondimento di tre termini fondamentali per conoscere e comprendere la storia recente del nostro Paese: Risorgimento, Fascismo e Libertà.

Episodio 1: Risorgimento

 

Episodio 2: Fascismo

 

Episodio 3: Libertà

 

Episodio 4: Terrorismo

 

Episodio 5: Partito

 

Episodio 6: Europa

Gadda, Montale e il fascismo

Alfonso Venturini | Archivio Storico Italiano | dicembre 2023

Pier Giorgio Zunino | Gadda, Montale e il fascismo

Il volume ripercorre le vicende biografiche di due fra i maggiori scrittori e poeti del Novecento italiano, i quasi coetanei Carlo Emilio Gadda, nato nel 1893, ed Eugenio Montale di tre anni più giovane, focalizzandosi sul loro rapporto con il fascismo.

Perché Gadda e Montale? I due scrittori praticamente non si sono mai incrociati e rari sono i punti di contatto: la collaborazione con la rivista a «Solaria», la frequentazione e conoscenza da parte di Montale del cugino di Gadda, Piero Gadda Conti, e infine il Gabinetto Vieusseux: entrambi gli scrittori sono stati in predicato di assumere la direzione della prestigiosa istituzione fiorentina. Nel 1929 il dimissionario Bonaventura Tecchi sceglie come suo successore Gadda che, però, rinuncia. Come direttore allora viene scelto Montale, che ricopre l’incarico fino al 1938.

Se, quindi, la scelta di raccontare in parallelo, con una specie di montaggio alternato per utilizzare il linguaggio filmico, Gadda, «il sommo scrittore» per Zunino (p. 187), e Montale è forse dettata all’autore semplicemente da una predilezione letteraria, la diversità caratteriale e le differenti posizioni politiche dei due grandi scrittori fanno sì che le due figure siano quasi complementari e, proprio per ciò, finiscono per essere rappresentative di gran parte della società del tempo. Gadda è uno studente brillante che dopo la laurea in ingegneria coltiva anche, mentre sta già lavorando, l’idea di laurearsi in filosofia e, a tal fine, diviene allievo di Piero Martinetti. Montale, invece, è uno studente svogliato e indolente che a malapena consegue un diploma in materie economiche e che ha il suo primo lavoro a trentatré anni quando diviene direttore del Vieusseux.

Agli opposti caratteri corrispondono anche diverse opinioni politiche. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, Gadda è un fiero nazionalista e, quindi, un convinto combattente, mentre Montale va in guerra a malincuore ma, nonostante ciò, fa a pieno il suo dovere di soldato. Gadda aderisce subito al fascismo iscrivendosi nel 1921, Montale, inizialmente tiepido, ne prende le distanze già nel 1923. Nel 1925 il poeta sottoscrive il manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce ma continua sostanzialmente a non interessarsi e a non impegnarsi in politica: lui stesso si definisce «bigio», intendendo con ciò di essere ben distante da qualsiasi parte politica. Montale non si è mai iscritto al PNF ma, come molti italiani, in occasione della guerra d’Etiopia si allinea e approva la politica coloniale del regime apprezzando convintamente la retorica del «posto al sole». Inoltre, nel 1938, nel tentativo di salvaguardare il suo posto di direttore al Gabinetto Vieusseux, chiede la tessera del partito che gli viene rifiutata. Pure Gadda ritorna in piena consonanza con il regime per la politica estera condividendo appieno il sentimento anti-inglese e di rivalsa nel Mediterraneo dopo che, alla fine degli anni Venti, ha vissuto un periodo di disillusione nei confronti del fascismo. Dalla fine degli anni Trenta, la loro visione politica converge: entrambi percepiscono come il regime mussoliniano stia andando verso un sostanziale fallimento ed esprimono, sia pure privatamente, il loro dissenso (p. 374).

Da questo sintetico excursus si evince come le loro posizioni siano rappresentative di quelle assunte nel corso del ventennio da una grande parte della popolazione, offrendo uno spaccato esemplare e composito della società italiana. L’autore ricostruisce le due vite illustri grazie a ricerche d’archivio, uno studio di una imponente bibliografia e di epistolari che ci permettono, ed è un ulteriore merito del volume, di conoscere anche alcune persone a loro vicine, fra le quali spicca per intelligenza, personalità e cultura Marianna, una delle sorelle maggiori di Montale. Proprio per il poeta ligure, molte informazioni sono desunte dalla ricca corrispondenza intercorsa fra lui e la giovane studiosa americana Irma Brandeis, di cui è stato innamorato.

In chiusura, una curiosità suscitata dai passaggi di queste lettere citati nell’opera: dato che Montale scrive in inglese in maniera velata, quasi in codice, per ingannare l’occhiuto controllo poliziesco (un esempio di questo strano linguaggio a p. 329), non si può non chiedersi quanto la giovane studiosa americana riuscisse a comprendere effettivamente di quello che le scriveva il poeta riguardo la situazione italiana.

Israele-Palestina: discutere la guerra

[Nell’intenzione di offrire un contributo alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti, abbiamo rivolto alcune domande ad autori della casa editrice e studiosi competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.

La situazione cambia di giorno in giorno e nuovi elementi potranno integrare l’analisi.

Dopo gli interventi di Anna Foa, Marcello Flores, Giovanni Gozzini, Claudio Vercelli e Arturo Marzano, pubblichiamo il contributo di Ignazio De Francesco. Monaco e islamologo, membro della Piccola Famiglia dell’Annunziata, fondata da Giuseppe Dossetti, ha vissuto lungamente in Medio Oriente, tra Israele, Palestina, Siria, Libano, Giordania ed Egitto. Di Maher Charif ha curato l’edizione italiana di Storia del pensiero politico palestinese (2018) e I nodi irrisolti del pensiero arabo: Palestina, riformismo, Jihad (2022).]

 

Giustizia per la pace, e da qui il perdono

Seduto di fronte a Maher Charif (uno dei migliori storici palestinesi) nel suo studiolo al secondo piano dell’Institut français du Proche-Orient di Damasco, lo sfido a riassumere in una sola frase cento anni di storia del suo popolo. Risponde senza esitare: «Al-intiqāl min kāritha ilā ukhrā», letteralmente “il passaggio da un disastro all’altro”. Poi aggiunge: «Malgrado ciò il nostro popolo non se n’è andato. Anzi, cresce più degli israeliani, forse l’unica cosa concreta che dice che la nostra storia là non è finita». Da quel dialogo sono passati quasi venti anni, un tempo di tragica conferma delle sue parole: disastro dopo disastro, fino allo tsunami di violenza abbattutosi sulla Striscia di Gaza dopo il crimine orribile del 7 ottobre.

Allo stesso tempo, il ventennio trascorso conferma l’osservazione finale: per Cisgiordania e Gaza le statistiche più aggiornate forniscono una cifra di poco inferiore ai 5 milioni e mezzo di persone (erano 1,98 nel 1990), con un tasso di crescita annuale intorno al 2,5%. Vanno aggiunti i palestinesi cittadini di Israele, valutati in circa 2 milioni. Per quanto riguarda gli ebrei israeliani, gli ultimi rilevamenti forniscono il numero di 7,2 milioni, con un tasso di crescita leggermente al disotto del 2%. Ciò significa che una regione poco più grande della Sicilia ospita oggi una quindicina di milioni di abitanti, quasi equamente distribuiti tra ebrei e palestinesi. È dunque la demografia ad affermare, nel modo più semplice e diretto, che questa terra è Casa di due popoli. Come realizzarne la convivenza pacifica, per il bene di entrambi e del mondo intero?

La risposta è al tempo stesso semplice e ardua: non c’è pace senza giustizia. Il diritto di Israele all’esistenza e allo sviluppo è la metà esatta di questa giustizia, ha fondamento giuridico nella Risoluzione ONU 181 del 29 novembre 1947, mentre il fondamento morale è la sofferenza bimillenaria del popolo ebraico, sino al culmine della Shoah, crimine maturato e perpetrato – è bene ricordarlo – in Occidente. Proprio l’ingiustizia lungamente patita investe gli ebrei anche di un’alta missione globale: farsi autorevoli portavoce del diritto dei popoli all’autodeterminazione, pietra di fondazione della comunità internazionale dopo la Seconda guerra mondiale. Che cosa ostacola l’esercizio di questo altissimo mandato etico nei confronti dei coinquilini palestinesi?

Segnalo due possibili cause: la prima è la tentazione di prendersi tutto, privilegiando il diritto della forza alla forza del diritto. L’occupazione militare di Cisgiordania e Gaza, a partire dal 1967, è emblematica: sempre più i palestinesi vivono come sospesi nel vuoto, per l’azione congiunta di esercito e coloni in territori che giuridicamente non appartengono a Israele. Un altro fattore è il senso di pericolo che serpeggia nella coscienza collettiva israeliana, tuttora segnata da “antiche ferite” nel rapporto con l’Altro. I palestinesi, che nessuna responsabilità hanno delle secolari persecuzioni di marca europea, riacutizzano il timore di una minaccia incombente. Eventi come la strage del 7 ottobre provocano la riemersione potente di questa corrente profonda.

L’approccio a un nodo tanto delicato non può così eludere anche l’analisi critica della travagliata evoluzione del pensiero politico palestinese: dal rifiuto iniziale a qualsiasi progetto di partizione (con la sola eccezione della componente comunista), sigillato con il fatale “no” alla Risoluzione ONU 181/1947, a “lā hudūd wa-lā yahūd” (nessun confine e nessun ebreo), grido di battaglia dei decenni successivi, dominati dall’idea che il fucile fosse l’unico strumento di interazione con l’Altro, per distruggerne la kiyān (“entità”) estranea e coloniale. Non si può omettere di notare, con il senno di poi, come questa opzione militare abbia fatto perdere vent’anni preziosi, dal ’48 al ‘67, durante i quali l’edificazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza sarebbe stata possibile, vicini arabi permettendo. Si giunge infine a “Terra contro Pace”, idea di compromesso che ha rappresentato una reale apertura e un significativo cambio di rotta ideologico. Gli accordi di Oslo del 1993 ne sono stati il frutto tangibile. Ma l’equilibrio di forze era ormai troppo dispari e l’avanzata inarrestabile dell’occupazione ha dato nuovo vigore al “fronte del rifiuto”, incarnato da Hamas, nella cui ideologia si trova che l’intera Palestina è un Waqf, proprietà sacra da custodire intatta sino al giorno del giudizio. Questa corrente di pensiero, speculare a quella del sionismo religioso, può nutrirsi di detti apocalittici attribuiti al Profeta dell’islam, come il seguente hadith, particolarmente impressionante: «Non giungerà l’Ora sino a quando non combatterete con gli ebrei, e persino la pietra dietro la quale l’ebreo si nasconde dirà: Oh musulmano, c’è un ebreo dietro di me, uccidilo!».

Come uscire da questo circolo di inimicizia sino alla distruzione reciproca? La risposta giusta è ancora nelle undici parole scolpite dalla comunità internazionale nella Risoluzione n. 181: «Indipendent Arab and Jewish States … shall come into existence in Palestine». Israele ha avuto ciò che le spetta, i palestinesi non ancora. Qui sta la chiave della pace, che aprirà la porta a un traguardo più alto di quello rappresentato dalla sola giustizia: il perdono. Come infatti ci ha insegnato Desmond Tutu, non c’è futuro senza perdono reciproco.

 

La resistenza lunga

Dopo la resa dell’Italia, l’8 settembre 1943, la lotta armata degli antifascisti è l’ultimo capitolo di una lunga resistenza al fascismo durata più di venticinque anni. L’eroica battaglia dei partigiani in questo ultimo tragico epilogo del conflitto mondiale, diventato anche guerra civile, ha in parte oscurato la ricostruzione dell’intera storia dell’antifascismo, eroica quanto i diciotto mesi resistenziali.

Lunga è stata la resistenza, iniziata nel 1919, costata feriti e caduti sotto i colpi degli squadristi, continuata dopo il 1922 nella clandestinità, nell’esilio, nelle carceri e al confino. Una condanna a vita per gli antifascisti che hanno sacrificato tutto, affetti, amori, lavoro, ma non si sono arresi. Resi invisibili agli occhi degli italiani, a loro volta imprigionati entro le mura di una dittatura totalitaria, gli antifascisti non sono rimasti passivi testimoni delle libertà e dei diritti perduti. Si sono rinnovati nei valori e nei programmi politici; hanno aperto un confronto con i cattolici, i liberali e i democratici, restati da privati cittadini nel paese fascistizzato senza però rinunciare a trasmettere i loro ideali antifascisti alle giovani generazioni che il dittatore educava al culto dello Stato fascista. Su questo ricco patrimonio di pensiero, di saperi, di progetti per il futuro, gli antifascisti hanno costruito le fondamenta della nuova Italia repubblicana e democratica.

Simona Colarizi racconta La resistenza lunga

 

 

Il saggio di Butler fra etica e politica

Domenico Ribatti | la Repubblica Bari | 2 novembre 2023

Judith Butler è nata nel 1956 a Cleveland, nell’Ohio da una famiglia ebraica russo-ungherese vittima dell’olocausto per parte materna, dopo il dottorato a Yale, perfeziona i propri studi di teoria critica. I suoi interessi spaziano dalla teoria politica di Hannah Arendt a quella di Michel Foucault, dal positivismo giuridico di John Austin all’ermeneutica tedesca. Attualmente insegna presso il Dipartimento di retorica e letterature comparate all’Università di Berkeley. L’Università il 16 ottobre scorso le ha conferito il Dottorato Honoris Causa in “Gender Studies”. Questo Dottorato di interesse nazionale, coordinato dalla professoressa Francesca Romana Recchia Luciani, è al suo primo ciclo ed è stato promosso dall’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, in convenzione con altre 15 università e con docenti italiane e straniere.

Butler nel corso dei suoi studi si è molto interessata a quelle persone il cui genere o la cui sessualità sono al centro di conflitti di vario tipo, cercando di contribuire a rendere il mondo un luogo in cui si possa vivere più facilmente. In questo contesto si inscrive l’ultimo suo saggio pubblicato recentemente dalla casa editrice Laterza e intitolato Che mondo è mai questo?.

Per portare l’analisi del contenuto del libro su temi a me più vicini, il secondo capitolo si intitola “I poteri della pandemia. Riflessioni sulla vita in lockdown”, ed è dedicato alla esperienza della post-pandemia. La pandemia ha lasciato segni indelebili sulla nostra società. Ricerche sulla salute mentale hanno evidenziato un aumento dei sintomi di depressione, ansia e disagio psicologico. Molti giovani hanno rivisto i propri progetti di vita, alcuni hanno smesso di studiare o hanno perso il lavoro. La pandemia, con l’arresto forzato delle attività in presenza, è stata un’occasione per riflettere sul valore delle istituzioni educative non solo come luoghi di formazione del sapere, ma anche come luoghi di incontro in cui sviluppare relazionalità.

Prima la pandemia, poi la guerra si sono abbattute su di una società che faticosamente stava ricominciando a guardare in avanti dopo la crisi del 2008. Malattia e salute vanno sempre considerati come il risultato di un processo con tre protagonisti: gli individui, l’ambiente naturale (con le cause di malattia in esso presenti) e l’ambiente sociale, che produce altre cause di malattia ma al tempo stesso occasioni per la cura.

Queste considerazioni ci rimandano al terzo capitolo del saggio della Butler, che ha come titolo “L’intreccio come etica e come politica”. Come non ricordare la celebre conferenza di Max Weber del 1919, nella quale definisce l’etica della responsabilità come quella forma di etica che caratterizza la funzione specifica di chi ha un compito politico e deve avere la capacità di decidere tenendo conto delle conseguenze, non necessariamente immediate, che comportano le proprie scelte. L’etica della responsabilità, secondo Weber, si addice specificamente a chi esercita l’attività politica come professione. La politica sembra la grande assente nello scenario della crisi. Una democrazia liberale matura si nutre dell’intreccio tra libertà e responsabilità, tra diritti e doveri, i primi sempre più spesso rivendicati, i secondi troppo trascurati. In una parola, buon governo come capacità di progettare e di fare. Evitando le scorciatoie assistenziali e corporative.

Chiesa e sesto comandamento. Storia di un equivoco cercato

Marco Ventura | Corriere della Sera | 11 gennaio 2024

Nella prima intervista mai rilasciata da un Papa, sul «Corriere della Sera» del 3 ottobre 1965, Paolo VI ammette la difficoltà della Chiesa davanti al ricorso in massa dei cattolici agli anticoncezionali. «La Chiesa non ha mai dovuto affrontare, per secoli, cose simili», spiega il Pontefice ad Alberto Cavallari, «si tratta di materia diciamo strana per uomini di Chiesa, anche umanamente imbarazzante». Prosegue Paolo VI: «Le commissioni si riuniscono, crescono le montagne delle relazioni, degli studi. Oh, si studia tanto, sa. Ma poi tocca a me decidere. E nel decidere siamo soli». A distanza di più di mezzo secolo, la solitudine degli uomini di Chiesa sembra cresciuta: alla sfida della libertà sessuale si è infatti aggiunta quella delle violenze, in particolare su donne e minori, commesse talvolta anche da preti e religiosi.

Nel suo libro Atti impuri, la storica Lucetta Scaraffia risponde all’aggravarsi della crisi con una denuncia e con una analisi. La denuncia riguarda l’incapacità della Chiesa di elaborare un pensiero e una azione in favore delle vittime di abusi, in sintonia con il principio per cui è legittimo solo il sesso consenziente e tesi, scrive Scaraffia, ad «emancipare la sessualità dalle forme di dominio e di oppressione».

L’analisi individua la causa di tale incapacità nell’interpretazione del sesto comandamento quale divieto di commettere «atti impuri», secondo una «concezione di sessualità tipica di un gruppo umano che si difende stabilendo le regole di purezza», spiega l’autrice, col risultato di rinchiudere «ogni peccatore dentro sé stesso, nel tentativo di cancellare l’impurità». Si è finito così per colpevolizzare la vittima, in fondo sempre complice, senza lasciar «spazio per il partner sessuale come persona».

Convinta che solo la comprensione della storia possa produrre un vero cambiamento, Lucetta Scaraffia propone a lettrici e lettori un percorso nei secoli lungo le traiettorie seguite dal comandamento sugli atti impuri, «l’unico la cui formulazione è stata cambiata radicalmente nel corso dei secoli». Nel tempo, si argomenta nel volume, il sesto comandamento è stato oggetto di un duplice tradimento interpretativo. Si è da un lato tradita la dimensione comunitaria, sociale, della versione ebraica del divieto, formulato in principio come «non commettere adulterio», in favore di una individualizzazione del peccato di «fornicazione», perfezionatosi con il Concilio di Trento e ancora presente nel catechismo di Pio X del 1908. E stato poi tradito, dall’altro lato, il «nuovo spirito» con cui Gesù vivifica i comandamenti, «fortemente caratterizzato dallo slancio dell’amore verso Dio e verso il prossimo», e teso a cancellare, ancora con Scaraffia, «ogni concetto di impurità legato a circostanze concrete, a esperienze fisiche», così da «rimandarlo alla sfera delle intenzioni».

Non soddisfatta dalle recenti riforme nella teologia e nel diritto della Chiesa, giudicate ancora timide e confuse, l’autrice invita a gestire in modo nuovo il conflitto di potere in corso nella Chiesa sulla sessualità. «Nel decidere siamo soli», diceva Paolo VI al «Corriere» sessanta anni fa, con un plurale maiestatis che univa alla sua personale solitudine quella degli uomini di Chiesa. A quegli uomini soli Lucetta Scaraffia ricorda ora come l’equivoco sugli atti impuri riveli «una concezione della sessualità prettamente maschile» e suggerisce di partire proprio da lì: dal fatto che «nella Chiesa le donne non sono ascoltate».

Israele-Palestina: discutere la guerra

[Nell’intenzione di offrire un contributo alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti, abbiamo rivolto alcune domande ad autori della casa editrice e studiosi competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.

La situazione cambia di giorno in giorno e nuovi elementi potranno integrare l’analisi.

Dopo gli interventi di Anna Foa, Marcello Flores, Giovanni Gozzini e Claudio Vercelli, pubblichiamo il contributo di Arturo Marzano, professore associato presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa. Si occupa in particolare di storia del sionismo, dello Stato di Israele, del conflitto israelo-palestinese e dei rapporti fra Europa e Medio Oriente.]

 

Gli eventi drammatici che si sono succeduti in Israele/Palestina a partire dal 7 ottobre costituiscono uno spartiacque all’interno del conflitto israelo-palestinese ed è piuttosto chiaro che la storia ricorderà quanto sta accadendo in questi mesi come un momento di svolta. La portata di questi avvenimenti non si può ancora valutare fino in fondo, ma alcune riflessioni sulle implicazioni politiche credo si possano già fare.

Nello specifico, ritengo che quattro siano gli aspetti principali che tali avvenimenti stanno mettendo in luce. In primo luogo, la riacquisizione della centralità politica della Palestina a livello globale. Non è chiaro – e forse non lo sarà mai – quale fosse l’obiettivo dell’attacco di Hamas, ovviamente configurabile come atti terroristici e crimini di guerra. È possibile che lo scopo principale fosse essenzialmente la cattura di ostaggi, militari e civili, in modo tale da effettuare uno scambio per liberare le migliaia di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. In ogni caso, il risultato del 7 ottobre e della guerra in atto a Gaza è stato riportare la Palestina al centro del dibattito politico mondiale, in un periodo in cui le guerre civili in Siria e Yemen, da un lato, e gli accordi di Abramo, dall’altro, avevano relegato in un angolo il conflitto israelo-palestinese, come se in Medio Oriente si potesse andare avanti facendo finta di niente. Il fatto che il presidente americano Joe Biden oggi parli apertamente di una soluzione politica al conflitto secondo la logica “due popoli, due Stati”, indipendentemente dal fatto che questa sia praticabile o meno, è un risultato politico importante, che Hamas certamente si intesta e si intesterà.

E questo mi porta a parlare del secondo aspetto. Anche in questo caso, è molto difficile esprimere un giudizio a caldo. Tuttavia, è plausibile che Hamas, lungi dall’obiettivo israeliano di “cancellarla”, si stia in realtà rafforzando nei consensi all’interno del mondo palestinese; e questo conferma come Hamas abbia tutta l’intenzione – e, a mio avviso, la capacità – di giocare un ruolo di primo piano all’interno della politica palestinese dei prossimi anni. Come sarà possibile fare finta che Hamas non sia un attore politico da cui non si può prescindere? Quale sarà l’atteggiamento dell’Unione Europea e degli Stati Uniti verso la forza islamista? Proseguirà la chiusura, come accadde nel biennio 2007-2008, oppure si assisterà ad un cambiamento di politica, con l’apertura di un dialogo? L’Unione Europea, attualmente schiacciata sulle posizioni statunitensi, recupererà una propria autonomia, come era successo in passato? Chi ha un minimo di memoria storica non può non ricordare come Bruxelles nel 1980 avesse deciso di riconoscere l’OLP come un interlocutore politico, nonostante Stati Uniti e Israele la ritenessero un’organizzazione terroristica. Così facendo, l’allora Comunità economica europea dialogò con l’OLP, incidendo su quel percorso di moderazione che portò quest’ultimo al riconoscimento di Israele. Se nel breve periodo non sembra che l’Europa sia disposta a mutare il proprio atteggiamento verso Hamas, nel medio periodo è possibile che le cose cambino, soprattutto se, rileggendo la storia degli ultimi quindici anni, ci si renderà conto del fatto che l’ostracismo di Bruxelles e Washington nel biennio 2006-2007 abbia finito per radicalizzare Hamas, ponendo fine ad una fase pragmatica iniziata nel 2005. Peserà certamente sul comportamento dell’Unione Europea l’atteggiamento del governo israeliano, impegnato a impedire un cambio di politica europea verso Hamas. Ma la questione di fondo non potrà essere elusa: come è possibile agire in Palestina senza il coinvolgimento di Hamas, un attore politico così rilevante, se non il più rilevante?

Il terzo aspetto concerne la strategia che sta portando avanti il governo israeliano. Per quanto concerne gli obiettivi di Israele, la “cancellazione” di Hamas è stata ripetuta costantemente negli scorsi mesi da numerosi esponenti della politica israeliana come il risultato cui mirano le operazioni militari a Gaza, che non possono non essere definite crimini di guerra vista la assoluta sproporzionalità sotto gli occhi di tutti. Non è tuttavia chiaro che cosa significhi “cancellazione” e come il governo israeliano pensi di poterla concretamente realizzare. Come è noto, Hamas ha una leadership plurale, sparsa in vari paesi del Medio Oriente e decapitarla è dunque del tutto irrealistico. È possibile che Israele si accontenti di uccidere Yahya Sinwar e Mohammed Deif, rispettivamente leader politico di Hamas a Gaza e capo dell’ala militare. Fermo restando che Israele ci riesca, cosa non facile, rimane un punto fondamentale: come la storia ha già dimostrato – si pensi all’uccisone dei due ex-numeri uno di Hamas, Sheikh Ahmed Yassin e Abdel Aziz al-Rantisi – una volta eliminati loro, ci sono decine di persone pronte a sostituirli e nulla lascia pensare che queste siano più disposte a compromessi. Al contempo, Hamas è un attore complesso e, oltre alla sua ala militare, vi è quella politica e quella sociale, il che spiega perché l’organizzazione islamista goda ancora di molti consensi in Palestina. “Cancellare” Hamas significa annientare la sua leadership o eliminare le migliaia di persone che la sostengono per le sue attività sociali e il suo impegno politico? Le conseguenze della guerra sulla popolazione della Striscia di Gaza sono evidenti a tutti coloro che abbiano voglia di documentarsi: quasi 29.000 morti, di cui più di 12.000 bambini; la distruzione di circa il 50% delle abitazioni private, come pure di centinaia di strutture pubbliche, dagli ospedali alle scuole, alle università, ai luoghi di culto, agli uffici governativi; circa l’85% della popolazione di Gaza sfollata all’interno della Striscia. Che cosa vuole ottenere il governo israeliano? Numerosi esponenti israeliani, sia civili sia militari, hanno evocato la pulizia etnica della Striscia, in linea con una tradizione di lungo corso, presente tanto nel movimento sionista quanto nella leadership israeliana: il sogno di stabilire una maggioranza ebraica in Eretz Israel (contro cui ad esempio scriveva l’ebreo romano Enzo Sereni già a metà degli anni Trenta), acquisendo terra senza la popolazione palestinese che vi risiedeva e incoraggiandone l’emigrazione volontaria, in particolare dalla Striscia di Gaza, come evidente subito dopo la conquista del 1967. Anche se per comprendere quanto sta accadendo ci vorrà ancora tempo, ci sono molti elementi che fanno pensare che pulire etnicamente la Striscia, facendo allontanare il più alto numero di palestinesi, sia il vero obiettivo di Israele. Dove, d’altronde, potrebbe vivere la popolazione della Striscia se questa è un cumulo di macerie e i bombardamenti israeliani non accennano a diminuire? Al contempo, c’è un’altra pulizia etnica che sta andando avanti silenziosamente, o meglio nel silenzio dell’opinione pubblica europea e americana, quella della Cisgiordania, dove gruppi di coloni di estrema destra, sostenuti in questo dai partiti di governo che rappresentano i loro interessi, stanno cacciando contadini e allevatori palestinesi dai villaggi dove risiedevano da generazioni. La guerra a Gaza sta permettendo al governo di fare tutto questo, mentre la società israeliana, comprensibilmente scossa da quanto accaduto il 7 ottobre e dall’irrisolta vicenda degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, si disinteressa di quanto accade a pochi chilometri di distanza, con l’eccezione delle solite ammirevoli associazioni della società civile israeliana, impegnate a impedire fisicamente gli attacchi dei coloni contro villaggi palestinesi, come testimoniato dall’altrettanto ammirevole giornalismo indipendente israeliano, si pensi al quotidiano Haaretz.

Il quarto aspetto che merita di essere portato all’attenzione è, infine, l’aumento di islamofobia e di antisemitismo nei contesti europeo e americano. Si tratta di fenomeni preoccupanti, che non possono passare inosservati e devono essere totalmente condannati. La questione è come combatterli, ed è qui che la politica ha un ruolo fondamentale. Mi concentro in particolare sull’antisemitismo, poiché episodi chiaramente antisemiti sono stati negli ultimi mesi numerosi in Italia. Questi eventi si intrecciano con un dibattito piuttosto acceso relativo alla definizione di antisemitismo e, nello specifico, al rapporto tra antisemitismo e antisionismo. Sebbene esistano delle possibilità di sovrapposizione tra i due – troppo spesso critiche alla politica israeliana pescano da un «archivio antiebraico» molto corposo, utilizzando retoriche esplicitamente o implicitamente antisemite – il rischio di un eccessivo schiacciamento del secondo sul primo è che qualsiasi critica a Israele sia potenzialmente interpretabile come antisemita. In questo modo, da un lato, si mette il bavaglio a singoli o a gruppi che denunciano la politica israeliana con evidenti conseguenze negative sulla libertà di espressione; dall’altro, si perde di vista quell’antisemitismo – purtroppo ancora molto presente in Europa, inclusa l’Italia – che non ha a che fare con la politica israeliana, ma si basa su pregiudizi e ostilità contro gli ebrei di lunghissimo periodo. Il fatto che attacchi a singoli ebrei o luoghi riconducibili alle comunità ebraiche aumentino durante guerre che vedono coinvolto Israele è ovviamente intollerabile, ma ciò non deve dare adito ad un silenziamento delle voci che criticano Israele con l’accusa, peraltro spesso del tutto pretestuosa, di antisemitismo.

Soltanto il tempo dirà in che modo gli eventi drammatici di questi mesi, con un cessate il fuoco che ancora non arriva e che invece andrebbe implementato al più presto, incideranno su una possibile soluzione del conflitto israelo-palestinese. Nulla, in questo momento, lascia pensare che israeliani e palestinesi possano intraprendere un processo che porti ad una soluzione politica del conflitto. Esiste tuttavia una luce che, seppure fioca e marginale, illumina la notte. Si tratta dei gruppi congiunti arabo-ebraici, israelo-palestinesi che si incontrano, manifestano, propongono iniziative di pace dal basso. Ne citerò uno solo, ‘omdim be-iachad / naqif ma‘an [stiamo in piedi insieme in ebraico e in arabo], uno dei cui slogan post-7 ottobre è assolutamente commuovente: «supereremo questo insieme». Nonostante la situazione drammatica in cui versa la popolazione di Gaza, e nonostante il dolore e l’angoscia nella società israeliana per quanto accaduto il 7 ottobre e per le sorti degli ostaggi, questi gruppi dimostrano che incontrare l’altro è possibile e necessario, anche – se non soprattutto – in questi momenti.