[Proposte di lettura] 25 aprile

Chiara Colombini

Storia passionale della guerra partigiana

A partire dall’8 settembre del 1943, e fino al 25 aprile del 1945, migliaia di giovani e meno giovani abbandonarono la loro vita abituale, presero le armi e si gettarono in un’avventura che stravolse la loro esistenza. Quali furono i sentimenti e le passioni che li spinsero a un passo del genere e li sostennero in quei venti mesi? Amore e odio, speranza e vendetta, dolore e felicità: osservare le passioni della Resistenza ‘in diretta’ significa avvicinarsi a quella esperienza in modo quasi viscerale ed eliminare le distorsioni prodotte dal passare del tempo.

 

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Simona Colarizi

La resistenza lunga

Dopo la resa dell’Italia, l’8 settembre 1943, la lotta armata degli antifascisti è l’ultimo capitolo di una lunga resistenza al fascismo durata più di venticinque anni. L’eroica battaglia dei partigiani in questo ultimo tragico epilogo del conflitto mondiale, diventato anche guerra civile, ha in parte oscurato la ricostruzione dell’intera storia dell’antifascismo, eroica quanto i diciotto mesi resistenziali. Lunga è stata la resistenza, iniziata nel 1919, costata feriti e caduti sotto i colpi degli squadristi, continuata dopo il 1922 nella clandestinità, nell’esilio, nelle carceri e al confino.

 

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Marcello Flores – Mimmo Franzinelli

Storia della Resistenza

La Resistenza in montagna e quella in pianura. La guerriglia nelle città. Il sostegno della popolazione e il rapporto con la ‘zona grigia’. La collaborazione con gli Alleati e la guerra civile con gli italiani in camicia nera. A 75 anni dalla Liberazione, finalmente una ricostruzione con l’ambizione di proporre uno sguardo complessivo su fatti, momenti e protagonisti che hanno cambiato per sempre il nostro Paese.

 

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Carlo Greppi

25 aprile 1945

Carlo Greppi ricostruisce il giorno della liberazione senza arretrare di un millimetro dal metodo ma utilizzando una struttura nella quale la verità storica risulta quasi maieuticamente estratta dalla narrazione dei luoghi, dei fatti, delle connessioni.
Marco Bracconi, “Robinson – la Repubblica”

 

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Mimmo Franzinelli

Il fascismo è finito il 25 aprile 1945

Il fascismo è finito con la morte di Mussolini. I fascisti non esistono più o sono irrilevanti. L’Italia ha rotto per sempre con quel passato. Siamo sicuri che sia così? E allora come spieghiamo le molte continuità tra il regime e la Repubblica? Le bombe, i pellegrinaggi a Predappio e le continue violenze? È giunto il momento di smontare uno dei luoghi comuni più duraturo della storia repubblicana, ovvero quello secondo il quale il fascismo è morto e sepolto da fine aprile 1945.

 

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Chiara Colombini

Anche i partigiani però…

Avventurieri e ladri di polli. Protagonisti di una guerra inutile. Vigliacchi che colpiscono i nemici a tradimento. Terroristi. L’elenco dei luoghi comuni e delle falsificazioni sulla Resistenza è lunghissimo e continua a rafforzarsi a dispetto di ogni prova contraria. Perché?

 

 

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Piero Calamandrei

Uomini e città della Resistenza

Uomini e città della Resistenza, pubblicato una prima volta nel 1955, ha il merito di individuare una fra le dimensioni fondamentali della Resistenza: la sua natura tellurica, il legame dei partigiani con una specifica terra, con un preciso paesaggio.

 

 

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Marcello Flores – Giovanni Gozzini

Perché il fascismo è nato in Italia

Il fascismo è da sempre al centro dell’attenzione degli storici, che ne hanno studiato tutte le caratteristiche e le articolazioni. A un secolo dalla marcia su Roma, però, una domanda continua ad appassionare e dividere gli studiosi: perché il fascismo è nato proprio in Italia?

 

 

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Mussolini racconta Mussolini

a cura di Mimmo Franzinelli

Esistono molte biografie di Benito Mussolini ma mai nessuno aveva pensato di lasciare la parola al duce stesso, al racconto che della sua vita troviamo in pagine autobiografiche, tra cui molte inedite o dimenticate. Scopriamo così cosa pensava Mussolini della propria vita, come la raccontava agli altri, e come modificò questa autorappresentazione nel corso della sua esistenza.

 

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Emilio Gentile

Storia del fascismo

Un movimento antipartito che divenne partito milizia, che divenne regime totalitario in una monarchia, che divenne Stato imperiale e razzista, che divenne alleato di guerra e sconfitto in guerra, che risorse come repubblica subalterna e alla fine fu distrutto, diventando storia del passato: questo, e molto altro, fu il fascismo, la cui storia viene raccontata in questo libro dal più originale dei suoi storici.

 

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Nicola Labanca

Prigionieri, internati, resistenti
Memorie dell’“altra Resistenza”

Gli Internati militari italiani (Imi) hanno sempre fatto fatica a trovare un riconoscimento nella memoria della guerra e della Resistenza e in questi ultimi anni sono diventati un oggetto di contesa politica. Il loro ‘No’ al fascismo di Salò è stato depotenziato di ogni valore morale e politico. Sono tornati a essere dei prigionieri e non dei ‘resistenti senz’armi’. Un esempio di ‘battaglia sulla memoria’ nella quale la Resistenza rischia di essere di nuovo accantonata.

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Carlo Greppi

Il buon tedesco

Il capitano Jacobs è un buon soldato, rispettoso delle gerarchie, onesto. Improvvisamente nel 1944, assieme al suo attendente, decide di passare, armi in pugno, dalla parte dei partigiani. Sceglie di combattere contro i propri camerati. Perché lo fa? Inseguendo la parabola di quest’uomo viene alla luce una grande storia dimenticata: furono centinaia i tedeschi e gli austriaci a percorrere lo stesso cammino. Un piccolo esercito senza patria e bandiera, una pagina unica nella storia d’Italia.

 

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Mimmo Franzinelli

Storia della Repubblica Sociale Italiana 1943-1945

Tra il 1943 e il 1945 l’Italia conosce la sua ora più buia: il Paese diviso in due; la guerra tra le truppe alleate e gli occupanti nazisti; lo scontro tra la Resistenza e i tedeschi supportati dai fascisti. È l’estrema stagione politica di Benito Mussolini, la pagina più sanguinosa e dolorosa del Novecento italiano.

 

 

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Emilio Gentile

25 luglio 1943

Emilio Gentile, uno dei più autorevoli allievi di Renzo De Felice, mette in dubbio – sulla base di un’accurata esegesi delle testimonianze di tutti gli altri partecipanti alla seduta del Gran Consiglio e di documenti inediti provenienti dalle carte di Federzoni – le ricostruzioni di Grandi e dello stesso Mussolini su cosa avvenne il 25 luglio 1943.
Paolo Mieli, “Corriere della Sera”

 

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Carlo Greppi
L’antifascismo non serve più a niente
Immaginate un paese in cui si ripete costantemente «che c’entriamo noi col fascismo?» e «ma poi, anche se fosse, tanto non era una dittatura, anzi ha fatto pure qualche cosa di buono». Immaginate un paese dove il crollo del fascismo viene chiamato anche ‘morte della patria’, dove la Resistenza diventa un’eredità scomoda da nascondere quanto prima nella soffitta della memoria. Ecco, ora immaginate di mettere alla prova dei fatti queste parole che sono diventate quasi senso comune.

 

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Filippo Focardi
Il cattivo tedesco e il bravo italiano
La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale

‘Il cattivo tedesco e il bravo italiano’ è uno stereotipo da rivedere che ha consentito di evitare molti conti con la nostra cattiva coscienza. Corrado Augias, “la Repubblica”

Festival internazionale dell’Economia 2024: il programma

 

 

FESTIVAL INTERNAZIONALE DELL’ECONOMIA

Torino, 30 maggio – 2 giugno 2024

A discutere del tema Chi possiede la conoscenza, premi Nobel, relatori italiani e internazionali provenienti dai più prestigiosi centri di ricerca mondiali. E poi giornalisti, storici, analisti e rappresentanti autorevoli delle istituzioni italiane ed europee.

Scarica il programma qui

Riparte a Torino giovedì 30 maggio per chiudersi domenica 2 giugno il Festival Internazionale dell’Economia. Tema di quest’anno: Chi possiede la conoscenza. “Oggi – riflette Tito Boeri, direttore scientifico del festival – il progresso tecnologico è in gran parte legato alla conoscenza, all’uso delle informazioni per creare valore.” Ragionare su questo processo, le sue dinamiche e le sue conseguenze è essenziale per comprendere il mondo in cui viviamo.

“Le nuove frontiere del progresso tecnologico – prosegue Boeri – stanno ridefinendo il nostro modo di lavorare molto più che in passato. Le macchine non sono più soltanto in condizione di sostituire l’uomo in attività ripetitive, di routine, ma anche in mansioni e professioni intellettuali. Compiti che un tempo erano appannaggio esclusivo dell’uomo, come scrivere, tradurre, disegnare, possono essere svolti da macchine anziché da persone. E si teme che anziché essere noi a guidare questi sviluppi e a utilizzarli per elevare la qualità del nostro lavoro, siano gli algoritmi a prendere il sopravvento, a decidere loro per noi in direzione per noi svantaggiose. Il problema di fondo è governare, anziché subire, il progresso tecnologico.

Ma come farlo?” Nei quattro giorni di incontri cercheranno di rispondere a questa domanda i più autorevoli esperti sul tema tra economisti, informatici, tecnologi, storici, sociologi, giuristi, studiosi dei media e imprenditori.

Per aiutare il pubblico ad orientarsi nel ricco programma del festival tutti gli appuntamenti sono suddivisi nei tradizionali formati: parole chiave, vere e proprie lezioni su concetti fondamentali, appunto, come “IA e mercati”, “piattaforme digitali”, “social media”; alla frontiera dove saranno raccontate le ricerche più innovative legate al tema del festival; visioni per guardare alla probabile evoluzione futura di molti fenomeni; intersezioni per promuovere la fertilizzazione reciproca fra economia e altre discipline; nella storia e storia delle idee dove il passato aiuta a meglio comprendere le ragioni del presente; testimoni del tempo, racconto in prima persona di testimoni autorevoli del mondo dell’economia, della scienza e della politica. A quest’ultimo formato si affiancano i dialoghi e i forum che saranno occasioni di scambio di opinioni e competenze diverse; i confronti che mettono in connessione le esperienze provenienti dal mondo dell’università, delle istituzioni e del territorio e dove quest’anno, tra le altre, figurano iniziative in collaborazione con Biennale Democrazia e Biennale Tecnologia; incontri con l’autore in cui si presentano le novità editoriali più interessanti nel dibattito economico e politico, compresi libri freschi di stampa, ancora non tradotti in italiano; cineconomia, l’economia spiegata attraverso il grande cinema. Infine non mancheranno la Alan Krueger Lecture, la Luca d’Agliano Lecture, l’Inet dialogue cui si sono aggiunte la Marco Fanno Lecture, la Mario Pagliero e Alessandro Sembenelli Lecture e la Carlo Alberto Medal Lecture.

 

A seguire una selezione degli eventi in programma al festival. Il programma è scaricabile qui.

Partiamo da giovedì 30 maggio. Dopo la tradizionale inaugurazione al Teatro Carignano, alle 15.00, sempre in teatro alle 16.00, Andrea Malaguti, direttore de “La Stampa”, dialoga con Paolo Gentiloni, Commissario europeo per gli affari economici e monetari. Le norme di genere, reali e percepite, sono un ostacolo importante e possono contribuire a sostenere politiche per l’uguaglianza delle opportunità, ma come sono percepite nel mondo?  Su questo tema riflette Alessandra Voena alle 17.00 al Collegio Carlo Alberto, Common Room.

Alle 17.30 (Circolo dei lettori) Ilvo Diamanti e Nando Pagnoncelli, coordinati da Innocenzo Cipolletta, discutono su opinione pubblica, informazione digitale e IA. Prima di Darwin la facevano facile: siamo umani da sempre, da quando ci hanno creati. Collocando l’uomo in mezzo all’evoluzione, Darwin solleva il problema e il genetista Guido Barbujani lo tematizza attraverso alcuni passaggi chiave del nostro cammino evolutivo (Accademia delle Scienze di Torino, Sala Mappamondi alle 18.30). Alle 19.00 al Teatro Carignano Tito Boeri è con Tomaso Poggio, tra i padri dell’intelligenza artificiale e delle neuroscienze. Quali sono le potenzialità e le sfide associate all’utilizzo dell’intelligenza artificiale e delle nuove tecnologie per l’incontro tra datori di lavoro e lavoratori? Ce lo spiega Michele Belot alle 19.00 (Collegio Carlo Alberto, Common Room). Alle 19.30 Francesco Giavazzi e Jeromin Zettelmeyer analizzeranno i punti di maggiore vulnerabilità dell’economia europea di fronte agli shock geopolitici indicando quali strategie adottare per ridurne i rischi (Collegio Carlo Alberto, Auditorium).

Tra gli appuntamenti di venerdì 31 maggio si segnala: alle 10.00, Collegio Carlo Alberto Common Room, la lecture di Emilio Calvano sulla parola chiave, IA e mercati. Alle 10.30 (Collegio Carlo Alberto, Classroom 3) il workshop L’antidoto è il dato: informazione a prova di fake news a cura di Youtrend nell’ambito dell’iniziativa Economia futura – il Festival Internazionale dell’Economia per i giovani e riservato al pubblico under 30 (per prenotarsi tutte le info sul sito del festival). Una crescita sostenibile dal punto di vista ambientale e socialmente equa è possibile? John Van Reenen ci spiega come alle 11.00 al Collegio Carlo Alberto, Auditorium.

Alla stessa ora ma al Museo Nazionale del Risorgimento, Aula della Camera Italiana, Chiara Goretti e Daniel Gros esaminano il nuovo Patto di Stabilità. Sempre alle 11.00 ma al Teatro Carignano Andrea Gavosto e Fabiola Gianotti dialogano su quanto inaspettatamente vicini siano il Bosone di Higgs e la nostra vita quotidiana. La relazione tra apprendimento collaborativo e intelligenza artificiale è il tema della lecture di Michael Jordan (Biblioteca Nazionale Universitaria, Auditorium Vivaldi alle 11.30).

Uno dei nodi cruciali del dibattito economico mondiale è la regolamentazione del potere di mercato delle grandi big tech: lo affronta guardando alle due sponde dell’Atlantico Thomas Philippon alle 12.00 al Collegio Carlo Alberto (Common Room).

A che punto siamo nella regolamentazione dell’intelligenza artificiale e dell’utilizzo dei dati, a livello nazionale ed europeo? Quando l’uso dei dati si trasforma in abuso? Ne discutono Elisabetta Iossa e Roberto Viola (Auditorium San Filippo Neri, ore 12.30). La tecnologia sta ridefinendo il nostro modo di lavorare. Che effetto avrà sulla crescita e sull’occupazione? A questo interrogativo rispondono Pietro Garibaldi e Antonio Spilimbergo al Collegio Carlo Alberto (Common Room) alle 14.00. Come l’intelligenza artificiale sta cambiando e cambierà il mondo dell’università? Quale sarà l’impatto sul modo di fare ricerca? Si confrontano sulla questione Stefano Corgnati, Francesca Cornelli, Antonio Merlo e Stefano Geuna, alle 14.00 al Museo Nazionale del Risorgimento, Sala Codici.

Quali sono i potenziali scenari che emergono dal continuo sviluppo delle tecnologie di intelligenza artificiale? Quali sono i fondamenti dell’IA generativa, i limiti tecnici e concettuali dell’attuale stato dell’arte e le principali sfide che rimangono? Riccardo Zecchina fa il punto su questi interrogativi alle 14.30 all’Auditorium Vivaldi della Biblioteca Nazionale Universitaria. La rapida evoluzione delle nuove tecnologie sta ridisegnando il panorama delle competenze e delle occupazioni. L’OCSE prevede che 1,1 miliardi di posti di lavoro subiranno trasformazioni significative nel prossimo decennio a causa delle nuove tecnologie. La riqualificazione è un imperativo, ma come realizzarla in tempi ragionevoli? Questo il tema dell’intervento di Raffaella Sadun alle 15.00 (Museo Nazionale del Risorgimento, Aula della Camera Italiana).

Si discute molto della regolamentazione dell’intelligenza artificiale. Ma quando è utile farlo? Joshua Gans ne parla alle 15.30 (Collegio Carlo Alberto, Auditorium). In che modo l’intelligenza artificiale sta cambiando editoria e giornalismo? Ne discutono con Andrea Malaguti, Giuliano Amato e Innocenzo Cipolletta alle 16.00 (Museo Nazionale del Risorgimento, Sala Codici).

 

Sempre alle 16.00 (Auditorium grattacielo Intesa Sanpaolo) David Card, Premio Nobel per l’Economia 2021, si sofferma sulle conseguenze su studenti e lavoratori della sempre maggiore richiesta di competenze tecnologiche – con lui saranno Tito Boeri a introdurre e Gregorio De Felice per un saluto di benvenuto. Petra Moser (Biblioteca Nazionale Universitaria, Auditorium Vivaldi, alle 16.30) indaga sulla diseguaglianza di genere nella ricerca scientifica. Quali possono essere i rischi di trasferire i processi decisionali nei mercati ad algoritmi sofisticati ed efficienti? Se lo chiedono Giacomo Calzolari e Vincenzo Denicolò alle 17.00 presso il Collegio Carlo Alberto, Common Room. Cos’era la conoscenza per San Francesco e quanto conosciamo realmente la sua persona? Alessandro Barbero, introdotto da Giuseppe Laterza, ce lo svela alle 17.00 al Teatro Carignano.

Tra i forum coordinati da Paola Pica a cura de lavoce.info segnaliamo Finanziare l’innovazione: il ruolo del private capital con gli interventi di Andrea Bonomi, Anna Gervasoni, Samuele Murtinu, Carlo Pesenti, Ermenegildo “Gildo” Zegna (Museo Nazionale del Risorgimento, Aula della Camera Italiana, ore 17.15). Quali vantaggi può arrecare l’intelligenza artificiale nella lotta alla povertà e per lo sviluppo dei mercati emergenti? Un tema cruciale sul quale interviene Indermit Gill alle 17.30 (Collegio Carlo Alberto, Auditorium).

Francesco Decarolis e Ahmit Gandhi discutono sulla regolamentazione della raccolta di dati da parte delle big tech tra Europa ed America (18.30, Biblioteca Nazionale Universitaria, Auditorium Vivaldi). Nello sviluppo di interfacce sempre più evolute tra mente e algoritmo, da un lato ci sarà un approfondimento sull’alleanza tra uomo e informatica dall’altro scopriremo come già oggi la creatività umana possa essere “espansa” verso nuove dimensioni di intrattenimento musicale e visuale. Sulla relazione tra creatività e scienza riflettono Alex Braga e Guido Saracco alle 18.30 all’Auditorium dell’Oratorio San Filippo Neri. Come si sta evolvendo il panorama della conoscenza e della competizione commerciale internazionale nell’era digitale? Dovremmo spostare la nostra attenzione dalla conoscenza ai dati? Richard Baldwin suggerisce una nuova prospettiva su come percepire le competenze e l’innovazione nel nostro mondo interconnesso (Collegio Carlo Alberto, Auditorium ore 19.30).

 

A concludere la giornata, alle 21.00 al Teatro Carignano, Tracce di Marco Baliani, uno spettacolo dove stupore e incantamento, due sostanze profonde della conoscenza autentica ma anche dell’atto teatrale, si presentano attraverso costellazioni narrative molteplici.

Sabato 1 giugno primo appuntamento alle 10.00 con la parola chiave di Chiara Farronato, Piattaforme Digitali (Collegio Carlo Alberto, Common Room) mentre alle 10.30 c’è il workshop dedicato agli under 30 L’antidoto e il dato: informazione a prova di fake news (Collegio Carlo Alberto, Classroom 3) – per prenotarsi tutte le info sul sito del festival. Alle 11.00 (Collegio Carlo Alberto, Auditorium) Philippe Aghion illustra quali politiche possano rendere l’intelligenza artificiale un volano per la crescita e l’occupazione. Sempre alle 11.00 ma all’Accademia delle Scienze di Torino, Sala dei Mappamondi, Francesca Lagioia affronta il delicato tema della tutela dei diritti nell’età dell’IA.

Nell’ambito di Economia Futura, la sezione del festival dedicata alla cultura economico finanziaria dei più giovani alle 11.00 si svolge presso l’Auditorium grattacielo Intesa Sanpaolo la premiazione dei concorsi EconoMia ed EcoQuiz. Per l’occasione interviene Carlo Cottarelli con lo speech L’importanza di conoscere l’economia. A seguire un debate tra gli studenti vincitori del concorso EconoMia. Cosa succede quando l’intelligenza artificiale è uno strumento nelle mani dei regimi autocratici? Ne parla David Yang alle 12.00 al Collegio Carlo Alberto, Common Room.

La salute della nostra specie è legata in modo circolare a quella del pianeta, Ilaria Capua sollecitata dalle domande di Ilaria Sotis interviene alle 12.00 al Teatro Carignano su un argomento di cui abbiamo ancora tutti poca consapevolezza. Sulle sfide del nuovo patto di stabilità si confrontano Giorgio Airaudo, Flavio Padrini e Lucia Piana alle 12.30 al Museo Nazionale del Risorgimento, Sala Codici. Quando la conoscenza non è per tutti, è l’intera società a risentirne gli effetti. Quali strumenti adottare per contrastare la povertà educativa è il tema del dialogo tra Andrea Morniroli, Marco Rossi-Doria e Chiara Saraceno (Museo Nazionale del Risorgimento, Sala Codici, alle 14.00).

 

Sempre alle 14.00 all’Auditorium Vivaldi della Biblioteca Nazionale Universitaria, la lecture di Danielle Li su IA generativa e competenze umane. Numerosi studi empirici permettono di fare luce su come le imprese sono influenzate da governi e società, e come, a loro volta, li influenzano. Di questo reciproco impatto discute Emanuele Colonnelli con Giorgio Barba Navaretti (Collegio Carlo Alberto, Auditorium alle 15.30). Intelligenza Artificiale: motore di crescita per le imprese italiane? Ne parlano Giorgia Abeltino, Marco Gay, Anna Roscio al Museo Nazionale del Risorgimento, Aula della Camera Italiana alle 15.00. Come apprendono le piante e che cosa ci insegnano è il tema dell’intervento di Stefano Mancuso alle 16.00 al Teatro Carignano. Stiamo costruendo una Machina sapiens e con quali conseguenze? Lo spiega Nello Cristianini alle 16.30 all’Auditorium Oratorio San Filippo Neri.

Joel Mokyr, analizzando dinamiche storiche di lunghissimo periodo, spiega per quale motivo Europa e Cina hanno intrapreso percorsi di sviluppo così differenti (Biblioteca Nazionale Universitaria, Auditorium Vivaldi alle 16.30). Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale rappresenta una rivoluzione culturale ed antropologica che impone un’etica della responsabilità che paradossalmente rimette al centro l’attenzione sulla persona. Questo è il focus del dialogo fra Paolo Benanti e Mario Rasetti al Museo Nazionale del Risorgimento, Aula della Camera Italiana alle 17.00. Gli attuali cambiamenti normativi nel settore farmaceutico statunitense ne potrebbero ridurre significativamente il mercato. Su come mitigare tali effetti interviene Ariel Pakes alle 17.00 al Collegio Carlo Alberto, Common Room.

Alle 17.30 al Collegio Carlo Alberto, Auditorium il dialogo tra il Premio Nobel per l’Economia 2015, Angus Deaton (in collegamento) e Antonio Spilimbergo su economia, disuguaglianza, sfiducia e populismo. Alla stessa ora ma al Teatro Carignano Marcella Beccaria e Michelangelo Pistoletto ragionano insieme all’economista Stefano Baia Curioni sul rapporto tra arte e intelligenza artificiale. La conoscenza nella Grecia antica è l’accesso alla verità, ma quale verità? Lo scopriremo con Laura Pepe che interviene alle 18.00 all’Auditorium grattacielo Intesa Sanpaolo. L’intelligenza artificiale può davvero invertire il declino della produttività e ridare slancio alla crescita?

 

James Manyika (in collegamento) ne discute con Michael Spence, Premio Nobel per l’Economia nel 2001 e Michael Jordan (Biblioteca Nazionale Universitaria, Auditorium Vivaldi alle 18.30). I libri sono il più antico e funzionale strumento di condivisione della conoscenza, creano comunità anche distanti nel tempo e nello spazio. Ne discutono, al Circolo dei Lettori alle 18.30, Giulio Biino, Enzo Cipolletta, Cecilia Cognigni, Giuseppe Laterza e Rocco Pinto.

All’Auditorium Oratorio San Filippo Neri, sempre alle 18.30, Riccardo Staglianò affronta il tema dei rischi per società e mercato del cosiddetto gigacapitalismo. Annamaria Lusardi, introdotta da Elsa Fornero interviene sui rischi per le famiglie causati dall’inconsapevolezza finanziaria (Collegio Carlo Alberto, Common Room, alle 19.00). Per anni il lavoro di organizzazione delle conoscenze e dei saperi all’interno del nuovo ecosistema digitale si è basato su paradigmi architettonici: il web semantico, le ontologie, Wikipedia… Negli ultimi mesi, però, l’esplosione dei sistemi di intelligenza artificiale generativa ha modificato radicalmente la situazione. Gino Roncaglia illustra i risultati, in parte inattesi, di questa vera e propria rivoluzione (Collegio Carlo Alberto, Auditorium, ore 19.30). A chiudere la giornata lo spettacolo Camillo Olivetti. Alle radici di un sogno di Laura Curino e Gabriele Vacis, con Laura Curino (Teatro Carignano, alle 21.00).

L’ultima giornata del festival, domenica 2 giugno, si apre con Social media, la parola chiave affidata a Rafael Jiménez-Durán (Collegio Carlo Alberto, Common Room, alle 10.00). La finanza globale oggi contribuisce alle diseguaglianze economiche. Ciò dipende dal fatto che non tutti hanno le stesse disponibilità a investire, ma anche dall’alto livello di conoscenze necessario a sfruttare i sistemi legali e contrattuali che regolano la finanza. Francesca Trivellato ci conduce in un viaggio che ci aiuta a riconoscere chi ha accesso a queste conoscenze e a sfatare pericolosi falsi miti (Auditorium Oratorio San Filippo Neri, alle 10.30).

Cosa si ottiene in cambio della condivisione dei nostri dati e comportamenti online? Quale è il punto di equilibrio tra vantaggi della pubblicità mirata e la tutela dei consumatori? Steve Tadelis fa il punto su un argomento che riguarda tutti (Collegio Carlo Alberto, Auditorium alle 11.00).

 

Il rapporto tra democrazia e conoscenza è stato un tema molto caro a Norberto Bobbio, ne discutono Valentina Pazé e Gustavo Zagrebelsky, Accademia delle Scienze di Torino, Sala dei Mappamondi alle 11.00. Che cosa possono fare le nostre società per creare un’informazione digitale equa ed efficace? Andrea Prat utilizzando gli strumenti dell’economia politica dei media – un campo di ricerca principalmente empirico e sperimentale, all’intersezione tra economia e scienze politiche – misura questi fenomeni, sfata alcuni miti e valuta le soluzioni che sono state proposte nel tempo (Biblioteca Nazionale Universitaria, Auditorium Vivaldi, alle 11.30).

Nonostante le politiche proattive che indirizzano risorse per favorire una crescita più rapida, cos’è che non sta funzionando nell’economia? Lo spiega Ufuk Akcigit, Collegio Carlo Alberto, Common Room alle 12.00). Crescita lenta, ritardo nell’innovazione, investimenti insufficienti nella ricerca e nell’istruzione, basse remunerazioni e scarsa domanda di lavoro qualificato: come possiamo rompere il circolo vizioso italiano? Risponde Ignazio Visco intervistato da Giorgio Zanchini, Museo Nazionale del Risorgimento, Aula della Camera Italiana alle 12.00.

Alle 14.00, alla Biblioteca Nazionale Universitaria Auditorium Vivaldi, Luigi Zingales sulla base dell’esperienza storica illustra come dovrebbero essere concepite le regole legali e le norme sociali per produrre e distribuire la conoscenza a beneficio di tutti. Di questioni di genere e accesso alla conoscenza discutono Maria Laura Di Tommaso e Chiara Saraceno alle 14.30 all’Auditorium Oratorio San Filippo Neri.

Per aumentare il nostro potenziale di modernizzazione e ridurre al contempo le disuguaglianze, è urgente coinvolgere tutti nel processo di innovazione soprattutto le donne e le persone di estrazione sociale svantaggiata. Come farlo, lo spiega Xavier Jaravel sempre alle 14.30 al Collegio Carlo Alberto Common Room. Finanziamenti, concorsi, pubblicazioni, carriere, Stefano Corgnati e Marco Ottaviani dialogano sui meccanismi che producono conoscenza (Museo Nazionale del Risorgimento, Aula della Camera Italiana alle 15.00). Come si possono sfruttare gli algoritmi di apprendimento automatico (machine learning) per fare nuove scoperte, in settori che vanno dall’economia e dalla fisica fino alla medicina? Risponde Sendhil Mullainathan, sempre alle 15.00 al Collegio Carlo Alberto, Auditorium.

Le paure suscitate dall’IA sono tante e vanno prese sul serio. Barbara Caputo e Diletta Huyskes partendo dalla consapevolezza che la tecnologia non è mai un destino dialogano su come esercitarne il controllo con responsabilità (Museo Nazionale del Risorgimento, Sala Codici alle 16.00). Secondo il senso comune la mente alla nascita sarebbe una tabula rasa, che via via si riempirebbe di contenuti grazie alle successive esperienze. Non è così. Parte da qui l’intervento di Giorgio Vallortigara alle 16.00 all’Accademia delle Scienze di Torino, Sala dei Mappamondi. Janet Currie interviene su un tema ancora poco battuto: investire nella salute mentale dei più giovani (Collegio Carlo Alberto, Common Room alle 16.30).

La discriminazione è considerata una causa importante delle differenze socioeconomiche tra persone di diverso genere, razza, cultura, ecc. Cosa la determina? Nicola Gennaioli mostra come la psicologia della memoria ci aiuti a capire cause e conseguenze economico-sociali di questo odioso fenomeno (Collegio Carlo Alberto, Auditorium, alle 17.00).

Chiudono il festival il dialogo di Tito Boeri con David Card, Danielle Li e Max Welling, alle 18.00 Binario 3 OGR e il Concerto Armonie italiane dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino diretta dal maestro Valerio Galli in occasione della Festa della Repubblica Teatro Regio, 20.30. L’ingresso è gratuito. A partire da venerdì 26 aprile 2024 sarà possibile scaricare i biglietti online sul sito www.teatroregio.torino.it fino a esaurimento dei posti disponibili e al massimo 4 biglietti per ciascuna operazione.

Tra gli ospiti degli incontri con l’autore coordinati da Eva Giovannini: Veronica De Romanis, Emanuele Felice, Marianna Filandri, Federico Fubini, Paolo Guerrieri, Robert Johnson, Marco Magnani, Armando Massarenti, Alberto Mingardi, Tommaso Monacelli, Pier Carlo Padoan, Roberto Perotti, Irene Soave, Michael Spence, Luigi Zingales.

Il Festival Internazionale dell’Economia è ideato, progettato e organizzato dagli Editori Laterza con la direzione scientifica di Tito Boeri.

 

La manifestazione è promossa dal TOLC (Torino Local Committee), coordinato dalla Fondazione Collegio Carlo Alberto e composto dalla Regione Piemonte, dalla Città di Torino, dalla Fondazione Compagnia di San Paolo, dalla Fondazione CRT, dall’Università di Torino, dal Politecnico di Torino, dalla Camera di commercio di Torino, da Unioncamere Piemonte, da Unione Industriali Torino e da Legacoop. L’iniziativa è inserita nell’ambito di Torino Futura – Generazione di Cultura.

L’Ufficio del Parlamento europeo in Italia, la Rappresentanza in Italia della Commissione europea e Cassa Depositi e Prestiti sono partner istituzionali dell’evento.

Il Festival è realizzato anche grazie al contributo di aziende, enti e istituzioni. Di particolare rilievo la collaborazione con Intesa Sanpaolo, partner della manifestazione.

Main sponsor dell’iniziativa sono ABI – Associazione Bancaria italiana, Lavazza Group e Reale Mutua.

Global Thinking Foundation, Google e PedersoliGattai sono sponsor del Festival.

Supporter tecnico è Turismo Torino e Provincia. Media partner dell’iniziativa sono La Stampa, Rai Radio 1, Rai Radio 3, Rai News.it.  L’Accademia delle Scienze di Torino e INET – Institute for New Economic Thinking sono scientific advisor.

 

 

 

‘You can anaesthetise all plants. This is extremely fascinating’

THE GUARDIAN: Killian Fox on The Plan(t) of the World, by Stefano Mancuso

An advocate of plant intelligence, the Italian author discusses the complex ways in which plants communicate, whether they are conscious, and what his findings mean for vegans

Born in Calabria in 1965, Stefano Mancuso is a pioneer in the plant neurobiology movement, which seeks to understand “how plants perceive their circumstances and respond to environmental input in an integrated fashion”. Michael Pollan in the New Yorker described him as “the poet-philosopher of the movement, determined to win for plants the recognition they deserve”. Mancuso teaches at the University of Florence, his alma mater, where he runs the International Laboratory of Plant Neurobiology. He has written five bestselling books on plants.

What’s at the root of your love of plants?

I began to be interested in plants at university. One of my tasks during my doctorate was to understand how a root growing in the soil was able to move around an obstacle. My idea was to film this movement, but I saw something different: the root was changing direction well before touching the obstacle. It was able to sense the obstacle and to find a more convenient direction. That was my first eureka moment, where I started to imagine that plants were intelligent organisms.

You refer to your field as plant neurobiology. Is this a provocation?

At the beginning, it was not at all. I started to think that almost all the claims I was hearing about the brain were valid also in plants. The neuron is not a miracle cell, it’s a normal cell that is able to produce an electrical signal. In plants, almost every cell is able to do that. The main difference between animals and plants, in my opinion, is that animals concentrate specific functions inside organs. In the case of plants, they diffuse everything through the whole body, including intelligence. So it was not a provocation at the beginning, but there was a big resistance among my colleagues to use this kind of terminology, and so after it became a provocation.

What were you hoping to achieve with your new book, Tree Stories?

What I’d like to popularise is, first, the many abilities of plants that we normally are unable to feel and understand, because they are so different from us. Second, when you tell a story about life on this planet, not talking about plants, which make up 87% of life, is a nonsense.

You argue passionately in favour of filling cities with trees. Why is this so important?

We are producing 75% of our CO₂ in cities, and the best way to remove that CO₂ is by using trees. The closer the tree is to the source of carbon emissions, the better they are at absorbing it. According to our studies, we could put around 200bn trees in our urban areas. To do that, we really need to imagine a new kind of city, completely covered by plants, without any border between nature and city.

You have a fascinating chapter about a tree stump being kept alive for decades by its neighbouring trees. What can humans learn from tree communities?

Plants are so incredibly cooperative with one another because cooperation is the most efficient way to grant the survival of species. Not understanding the strength of the community is one of [humanity’s] main errors. There was a very clever evolutionary biologist at the beginning of the last century, Peter Kropotkin, who said that when there are fewer resources, and the environment is changing, then cooperation is vastly more efficient [than competition]. This is an important teaching for us today, because we are entering a period of reduction of resources and the environment is changing because of global warming.

To what degree can plants communicate with one another? If you have a spectrum with rocks at one end and humans at the other, where do plants sit?

I would say very close to humans. Communication means you are able to emit a message and there is something able to receive it, and in this sense plants are great communicators. If you are unable to move, if you are rooted, it’s of paramount importance for you to communicate a lot. We experienced this during lockdown, when we were stuck at home and there was an incredible increase in traffic on the internet. Plants are obliged to communicate a lot, and they use different systems. The most important is through volatiles, or chemicals that are emitted in the atmosphere and received by other plants. It’s an extremely sophisticated form of communication, a kind of vocabulary. Every single molecule means something, and they mix very different molecules to send a specific message.

The idea that plants are intelligent is controversial enough, but you’ve gone one step further by claiming that plants are to some degree conscious…

It’s incredibly difficult to talk about consciousness, first because we actually don’t know what consciousness is, even in our case. But there is an approach to talking about it as a real biological feature: consciousness is something that we all have, except when we are sleeping very deeply or when we are under anaesthesia. My approach to studying consciousness in plants was similar. I started by seeing if they were sensitive to anaesthetics and found that you can anaesthetise all plants by using the same anaesthetics that work in humans. This is extremely fascinating. We were thinking that consciousness was something related to the brain, but I think that both consciousness and intelligence are more embodied, relating to the entire body.

So you can put a plant to sleep?

We are working to see if it’s possible to say that. It’s an incredibly difficult task, but we think that, before the end of this year, we will be able to demonstrate it.

As we learn more about the sophistication and sensitivity of plants, should we think twice about eating them?

It’s an interesting question. Many vegan people have written to me asking this. First, I think it’s ethical to eat plants because we are animals, and as animals we can only survive by eating other living organisms – this is a law that we cannot break. Second, it’s much more ethical to eat a plant than, for example, beef, because to produce a kilo of beef, you need to kill one tonne of plants, so it’s much better to eat directly a kilo of plants. The third point is that it’s very difficult for us to imagine being a plant, because for us being eaten is an ancestral nightmare, whereas plants evolved to be eaten, it’s part of the cycle. A fruit is an organ that is produced to be eaten by an animal.

So fruit is probably the most ethical thing you can eat, more so than, say, kale?

Maybe fruit is the most ethical, but you need to defecate on the ground afterwards, because otherwise you are breaking the cycle.

Israele-Palestina: discutere la guerra

[Nell’intenzione di offrire un contributo alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti, abbiamo rivolto alcune domande ad autori della casa editrice e studiosi competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.

La situazione cambia di giorno in giorno e nuovi elementi potranno integrare l’analisi.

Dopo gli interventi di Anna FoaMarcello FloresGiovanni GozziniClaudio VercelliArturo MarzanoIgnazio De FrancescoSarah Parenzo e Fabrizio Mandreoli, pubblichiamo il contributo di Chantal Meloni (professoressa associata di diritto penale internazionale presso l’Università degli Studi di Milano e senior legal advisor presso lo European Center for Constitutional and Human Rights di Berlino (ECCHR). Da molti anni come giurista si occupa del contesto israelo-palestinese. È rappresentate legale delle vittime di Gaza nel procedimento dinnanzi alla Corte Penale Internazionale) e di Lavinia Parsi (dottoranda di ricerca in diritto penale internazionale presso l’Università degli Studi di Milano e la Humboldt Universität zu Berlin. Ha vissuto e svolto ricerca in Israele/Palestina, dove ha collaborato con diversi studi legali dediti alla tutela dei diritti umani).]

 

Nel dibattito pubblico di questi mesi, per descrivere la terribile situazione in corso in Israele/Palestina sono stati impiegati concetti e termini forti, che hanno in alcuni casi sollevato reazioni avverse se non di scandalo. Oltre ad inquadrare i fatti nella nozione di crimini di guerra, concetto ovviamente legato all’esistenza di un conflitto armato, si è parlato di crimini contro l’umanità, apartheid e persecuzione, di terrorismo e diritto all’autodeterminazione, di colonialismo, pulizia etnica ed anche di genocidio. Tali parole, tuttavia, hanno un significato giuridico, di cui si può e si deve discutere, e che è legittimo impiegare in questo contesto. Altri autori hanno qui evidenziato la complessità di un giudizio morale sulla inestricabile situazione in Israele/Palestina; oltremodo complicato è immaginare una soluzione politica di un conflitto che pare oggi insolvibile. Per certi versi, minore è invece la complessità di un’analisi giuridica. Se è vero che alcuni termini, usati in modo acritico, possono diventare slogan incapaci di produrre alcun effetto, è dunque utile ricondurre queste parole al loro significato giuridico per consentire una valutazione consapevole dei fatti. A tale scopo, possiamo prendere in considerazione tre diversi piani giuridici sui quali la questione è attualmente affrontata: il piano della responsabilità degli Stati, dinnanzi alla Corte Internazionale di Giustizia; quello della responsabilità penale degli individui accusati di crimini internazionali, oggetto di indagine presso la Corte Penale Internazionale; quello, infine, delle responsabilità degli attori terzi, come gli Stati europei a vario titolo coinvolti nella commissione delle gravissime violazioni cui stiamo assistendo. Tali piani sono tra loro distinti ma hanno intersezioni e punti di contatto.

Da un punto di vista giuridico, gli atti perpetrati da Hamas il 7 ottobre nel Sud di Israele costituiscono prima facie possibili crimini di guerra e potenziali crimini contro l’umanità. Sempre prima facie, l’offensiva militare israeliana in corso a Gaza sta integrando numerose fattispecie di crimini di guerra e potenzialmente altri crimini internazionali; tra questi, ricorre l’accusa di genocidio. Di quest’ultima questione è stata investita, a seguito del ricorso presentato dal Sud Africa il 29 dicembre 2023, la Corte Internazionale di Giustizia. La Corte – per il cui giudizio nel merito occorrerà attendere anni – ha peraltro già riscontrato l’esistenza di un “rischio concreto ed imminente” che atti integranti genocidio siano commessi da Israele contro la popolazione palestinese di Gaza. Ritenendo che il rischio di un “danno irreparabile” nei confronti dei Palestinesi determinasse perciò un’urgenza, la Corte ha ordinato a Israele, già per ben due volte da gennaio ad oggi, di porre in essere una serie di misure cautelari volte ad arginare la catastrofe umanitaria causata dalle modalità della sua operazione militare.

Sebbene il rischio di genocidio di cui si sta occupando la Corte Internazionale di Giustizia sia riferito ai Palestinesi di Gaza, la richiesta del Sud Africa rappresenta un tentativo di allargare lo sguardo, collocando la situazione contingente nel suo ampio contesto. Sarebbe infatti miope considerare l’attuale situazione di Gaza in modo slegato dalla Cisgiordania, dove negli stessi mesi sono stati uccisi ben 438 Palestinesi oltre ai circa 5.000 feriti, di cui più di 700 bambini. Non si tratta semplicemente di un conflitto armato tra due potenze: in seguito all’occupazione nel 1967 da parte di Israele della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e Gaza, la situazione nel territorio palestinese occupato va ricondotta alle norme di diritto internazionale umanitario relative all’occupazione militare. Tale quadro giuridico, tuttavia, a fronte della incalzante annessione territoriale effettuata con la forza tanto da singoli coloni quanto dalle istituzioni israeliane stesse, non è più sufficiente per regolare la situazione da un punto di vista giuridico. Ciò è tanto più vero se si considera, come altri hanno già notato negli interventi precedenti, che la politica di espansione degli insediamenti in Cisgiordania ha raggiunto il picco nell’ultimo anno e si è ulteriormente intensificata proprio dopo il 7 ottobre.

È interessante notare che la questione delle conseguenze giuridiche della prolungata occupazione del territorio palestinese è a sua volta pendente davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, che ne è stata investita a gennaio dello scorso anno dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Pur non esplicitamente, la richiesta di parere consultivo sostanzialmente domanda alla Corte di pronunciarsi sulla qualifica della situazione in termini di apartheid, come è emerso dagli interventi dei molti Stati che hanno presentato i loro argomenti nel corso dell’udienza celebrata lo scorso febbraio. Secondo gli esperti, infatti, il regime applicato nel Territorio palestinese occupato e nello Stato di Israele costituirebbe un regime di apartheid, e cioè un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e dominazione razziale in violazione del diritto internazionale. Solo di recente tale qualificazione giuridica è rientrata nella narrativa mainstream grazie anche ai rapporti di organizzazioni per i diritti umani di peso mondiale, come Amnesty International e Human Rights Watch, ma già negli anni ’90 tale terminologia e analisi era impiegata dalle organizzazioni per i diritti umani locali.

Oltre alla Corte Internazionale di Giustizia, che si occupa di responsabilità statali, la situazione Israele/Palestina è inoltre oggetto di indagine da parte della Corte Penale Internazionale. Tali indagini riguardano le specifiche responsabilità individuali di natura penale per la commissione di crimini internazionali nella situazione in questione. Non vi è dubbio infatti che, anche in strutture collettive come le istituzioni statali, “i crimini internazionali sono commessi da persone, non da entità astratte”. La Corte Penale Internazionali applica il diritto penale internazionale, come è stato concepito da Norimberga, e si pone l’ambizioso obiettivo di stabilire le responsabilità in particolare di coloro che rivestono posizioni apicali o sono qualificabili come i maggiori responsabili dei crimini commessi. Appartengono allo stesso ambito i procedimenti presso la Corte Penale Internazionale relativi ai crimini di guerra perpetrati in Ucraina, i mandati di arresto nei confronti del Presidente Putin e della Ministra Lvova-Belova, nonché l’istituzione di un organismo di indagine in seno all’Unione Europea dedicato al crimine di aggressione. A differenza dell’Ucraina, tuttavia, le indagini relative alla Palestina sono in grave ritardo.

Al di là delle responsabilità delle parti in conflitto, è necessario in questa sede interrogarsi anche e soprattutto sulle possibili responsabilità sul piano giuridico dei nostri governi. In questo senso, il caso portato davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dal Sud Africa, che ha agito invocando gli obblighi erga omnes in materia di genocidio, ha ricordato che gli Stati terzi possono a loro volta essere considerati complici in questo crimine qualora vi contribuiscano, ad esempio fornendo i mezzi che rendono possibile o facilitano la commissione del genocidio, o qualora vengano meno al loro obbligo di intraprendere tutte le misure in loro potere per prevenirlo. In questo solco si inserisce il caso portato dal Nicaragua contro la Germania sempre davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, dove si sostiene che il supporto politico, finanziario e militare fornito ad Israele dalla Germania abbia mancato nel prevenire potenziali atti di genocidio a Gaza e abbia potenzialmente contribuito alla loro commissione.

Alla luce di ciò, è significativo che nelle ultime settimane alcuni Stati abbiano rivisto le proprie posizioni in materia di esportazione di armi. Il governo italiano ha annunciato pubblicamente l’interruzione delle esportazioni delle armi ad Israele – circostanza poi smentita dai dati Istat. Anche il capo della politica estera dell’Unione Europea, Josep Borrell, a febbraio 2024 affermava che “se la comunità internazionale crede che si tratti di un massacro, forse dobbiamo pensare alla fornitura di armi”. Sulla stessa linea, una lettera firmata da oltre 200 parlamentari europei chiede l’impegno ad arrestare l’export di armi divenuto “oltre che una necessità morale, un requisito legale”. Si moltiplicano poi i ricorsi giuridici intentati presso tribunali di Paesi occidentali storicamente vicini a Israele, volti all’interruzione di ogni forma di sostegno alle gravi violazioni del diritto internazionale commesse a Gaza. Denunce relative all’export di armi, in particolare, sono già state presentate in Australia, Canada, Regno Unito, Germania, Danimarca, Olanda e negli Stati Uniti, ove lo stesso Presidente Biden, il Segretario di Stato Blinken e il Segretario alla Difesa Austin sono stati accusati di non aver impedito, se non addirittura di aver sostenuto, atti di genocidio nei confronti dei Palestinesi di Gaza.

Di fronte all’atteggiamento dei Paesi occidentali, il muro di impunità che sinora li ha coperti sembra stia iniziando a sgretolarsi. Significativamente, ciò sta avvenendo grazie all’iniziativa dei Paesi del cosiddetto “Sud globale”, che, per usare le parole di Audre Lorde, stanno tentando di “smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone”. In questo scenario, per gli Stati europei, compresa l’Italia, che hanno fatto della “rule of law” un fondamento dei propri sistemi democratici, è necessario un netto cambio di rotta per scongiurare ulteriori violazioni del diritto internazionale e riaffermare la validità dei principi così gravemente infranti.

 

Israele-Palestina: discutere la guerra

[Nell’intenzione di offrire un contributo alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti, abbiamo rivolto alcune domande ad autori della casa editrice e studiosi competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.

La situazione cambia di giorno in giorno e nuovi elementi potranno integrare l’analisi.

Dopo gli interventi di Anna FoaMarcello FloresGiovanni GozziniClaudio VercelliArturo MarzanoIgnazio De Francesco e Sarah Parenzo, pubblichiamo il contributo di Fabrizio Mandreoli, che insegna teologia comparata e fondamentale a Bologna e Firenze e collabora con l’Istituto per la storia delle religioni dell’ISSR della Toscana. Insegna anche presso il carcere di Bologna ed è responsabile del centro ricerche Insight.]

 

Nella serie di analisi qui presentate – tutte di grande valore – mi pare utile soffermarmi su un aspetto centrale dal punto di vista ideale e simbolico, che può sembrare meno urgente rispetto alla questione di fermare le uccisioni, le ingiustizie e l’odio. Nella priorità che ha in questo momento la salvezza della vita di molti, ci permettiamo di accennare ad un tema che sta sullo sfondo del conflitto sanguinoso che ha visto negli attacchi del 7 ottobre e nella risposta israeliana la sua più recente manifestazione. Si tratta dello sfondo religioso e teologico che, caso per caso, anima o sostiene, giustifica o appoggia, le rispettive rappresentazioni di sé e dell’altro nel conflitto. Il tema è stato già evocato quando si è citato – nel testo di De Francesco – un hadith escatologico che fa parte del repertorio anti-ebraico: “Non giungerà l’ora sino a quando non combattete con gli ebrei, e persino la pietra dietro la quale l’ebreo si nasconde dirà: Oh Musulmano, c’è un ebreo dietro di me, uccidilo”. In maniera speculare, le conseguenze del sionismo declinato in chiave religiosa sono davanti agli occhi di tutti [1] ed invitano alla rilettura delle importanti opere di Aviezer Ravitzky che ha studiato attentamente l’evoluzione in senso religioso delle idee sioniste.

La questione non è, certo, nuova ma sembra di trovarsi di fronte ora, in piena post-modernità, ad un’alleanza perversa tra senso religioso, teologie di riferimento e percezione della terra, dell’etnia e di un ‘noi’ superiore ed esclusivo. Quando, come ci è capitato di ascoltare ad Hebron, qualcuno afferma che è proprio compito religioso – percepito come dato direttamente da Dio – riprendersi tutta la terra, la presenza dell’altro diviene una presenza demonica, da eliminare religiosamente. Certamente, la psicologia sociale e la criminologia possono aiutare a decifrare questi fenomeni di violenza collettiva e personale, nondimeno credo valga la pena indagare – per poterlo disinnescare –  quel fenomeno per cui il mistero di Dio – rivendicato da tutti i figli di Abramo, ebrei, cristiani e musulmani, come l’unico, il trascendente, il sempre più grande – viene singolarmente tribalizzato ed etnicizzato (“il nostro Dio”), territorializzato (la “nostra terra santa”) e politicizzato (“Dio è con noi”).

Per disinnescare tale paradossale riduzione teologica, che ha disastrose conseguenze interiori e politiche, credo si possa accennare al modo di leggere i testi sacri e alle opzioni di fondo che stanno dietro tali processi di interpretazione. Propongo questa schematica analisi, consapevole che molti – ricordo qui André Wenin, Giuseppe Dossetti, Meir Bar Asher, Jawdat Said, Gian Domenico Cova, Jonathan Sacks – hanno lavorato con grande sapienza in questa direzione.

In primo luogo, fa parte della lettura dei testi la consapevolezza del proprio punto di osservazione e della propria collocazione. Nessuno riflette “a partire da nessun luogo” con tutto quello che questo comporta in termini di parzialità, di questioni non viste e non visibili, di interessi in gioco, di traumi subiti o inferti. Un posizionamento consapevole, sempre nuovamente da guadagnare, aiuta nel coltivare una postura modesta che, a ben vedere, fa parte del patrimonio mistico di ogni grande tradizione religiosa.

In secondo luogo i testi, per quanto legittimamente creduti come ispirati da Dio, sono dentro la storia umana e, quindi, affidati alla responsabilità degli uomini e delle donne. Si tratta di quella storicità essenziale della fede islamica, cristiana ed ebraica: in tal senso le fonti sono come alberi rovesciati che hanno radici profonde nel mistero di Dio, ma la cui terra, il tronco, le foglie e i frutti abitano all’interno di contesti storici precisi. In tale quadro, quando la lettura incontra nei testi la violenza e l’etnocentrismo, la giustizia intesa come vendetta, l’esclusione e l’eliminazione dell’altro, essa è spinta a chiedersi che senso storico abbiano questi aspetti e se siano compatibili con le istanze etiche e religiose di fondo della propria tradizione. Si tratta della domanda su quali e quante dialettiche interne vivono nel proprio testo sacro.

Questo vale anche – ed è un terzo passaggio – per le rispettive tradizioni interpretative che rappresentano l’alveo vitale delle Scritture sacre e mediano, selezionando e trasmettendo, i significati e le chiavi di lettura principali. Il solo fatto che le tradizioni interpretative – nell’Islam, nel Cristianesimo e nell’Ebraismo – siano cosi ampie e pluralizzate – storicamente e geograficamente – è un potente suggerimento all’interprete che molti sono stati i modi di cogliere le prospettive di verità e che quindi tali modi possono essere strutturalmente parziali, limitati, o anche fuorvianti. Le tradizioni talora sono molto attente e in ascolto dei testi e delle loro profondità, in altri casi li aggrediscono per trovare in essi e giustificare quello che già si pensa.

Tale lavorio – un quarto punto – può giovarsi di un sostegno incredibile quando chi legge i testi della propria tradizione è consapevole e/o conosce i testi di quelle altrui. È la prospettiva della cosiddetta teologia comparativa: la lettura attenta e immersiva, critica e simpatetica, dei testi appartenenti ad altri ‘mondi’ religiosi e culturali permette di ritornare ai propri con un bagaglio di preziosi insights storici e umani, politici e spirituali. Questo modo di procedere per le tradizioni ebraica, islamica e cristiana è reso ancora più eloquente dal fatto che i testi stessi – animati da secoli di storia interpretativa – sono tra loro intrecciati da una serie di riletture e costanti riferimenti.

Un quinto passaggio crediamo sia decisivo: si tratta del momento della scelta ermeneutica. In questa fase, il lettore o la comunità scelgono umanamente – e per chi crede questa scelta avviene davanti al mistero di Dio – nel grande intreccio, che i testi e le loro interpretazioni costituiscono, la modalità di rispondere oggi alle domande proposte dalla storia e dall’esistenza concreta: come si ricostruisce la giustizia? Come trattare il nemico? Che sacralità ha la vita di ogni uomo e donna sulla terra? In che modo guardare e rimediare alle proprie colpe? Come il mistero di Dio ci interpella qui ed ora? Sono le domande che il credente si pone come singolo e come comunità cercando, in modo diuturno, di trovare le risposte che ritiene provenire da Dio. Quest’operazione non consiste, a ben vedere, in un depauperamento della credenza nel parlare di Dio, nella sua alterità, ma assume in maniera seria il fatto che Dio – se esiste – ha scelto di parlare a uomini e donne in quanto tali.

Arriviamo così ad un sesto passaggio: la cassa di risonanza – etica e spirituale, esistenziale e politica – del parlare di Dio è la concretezza umana. In questo spazio credo che possa giocare un ruolo importante – e ampiamente testimoniato dai mistici dei tre monoteismi – la capacità di un sentire largo e buono (la pietà/hesed, la misericordia/rahmah, la magnanimità/macrothumia). Ossia la possibilità di percepire il proprio trauma, quello personale e del proprio popolo, insieme con il faticoso riconoscimento della sofferenza e della storia dell’altro, del nemico. In un’opera storica recente – B. Bashir e A. Goldberg (edd.), Olocausto e Nakba, Zikkaron, Bologna 2023 – tale idea viene descritta come dislocazione empatica. Nell’opera si ripercorre l’obiettivo legame tra due tragedie di popolo, dove la custodia della singolarità ed unicità della Shoah si combina con il riconoscimento della Nakba attraverso uno studio attento della letteratura israeliana e palestinese che mostra l’intreccio di lunga data tra i due eventi. Senza volerci dilungare in dettagli complessi, risulta possibile rilevare in sintesi come questo atteggiamento, che sa riconoscere insieme il dolore dei propri e il dolore dell’altro, sia radicato in maniera profonda – anche se non sempre mainstream – nei rispettivi testi sacri e rappresenti un atteggiamento umano e religioso che può essere scelto e accolto. Una prospettiva delineata in maniera magistrale nel capitolo 58, 6-9 del profeta Isaia che qui glossiamo (e che invitiamo a rileggere sullo sfondo degli eventi degli ultimi decenni in Medio Oriente):

“Non è piuttosto questo il digiuno che voglio
[ossia l’autentico volere di Dio]:
sciogliere le catene inique,
togliere i legami del giogo,
rimandare liberi gli oppressi
e spezzare ogni giogo?
[cioè sollevare i poveri e le vittime, liberare gli oppressi]
Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato,
nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire uno che vedi nudo,
senza trascurare i tuoi parenti?
[ossia la capacità di riconoscere i propri e gli altri]
8Allora la tua luce sorgerà come l’aurora,
la tua ferita si rimarginerà presto.
[il proprio trauma è guarito insieme al trauma dell’altro]
Davanti a te camminerà la tua giustizia,
la gloria del Signore ti seguirà.
9Allora invocherai e il Signore ti risponderà,
implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”.
Se toglierai di mezzo a te l’oppressione”
[l’eliminazione dell’oppressione riaccende un dialogo possibile con il mistero di Dio].

Quanto detto tratta di prospettive “religiose” che – composte con un serio rispetto del diritto internazionale – ritengo vadano seminate, fatte crescere e difese nella speranza che modalità altre – aldilà della distruzione violenta del nemico – possano, in qualche modo, attecchire e contribuire ad innervare le scelte politiche, militari e ideali, diminuendo il tasso di quella violenza che rovina Israele e Palestina. L’urgente disarmo militare e politico mi pare necessiti sempre anche di un disarmo ideologico e teologico.

 

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[1] Cf. D. Neuhaus, Israele, dove vai?, in La Civiltà Cattolica 2 marzo 2024 (4169), 417-429.

La politica di San Paolo

Paolo Mieli | Corriere della Sera | 17 gennaio 2024

La più grande invenzione dell’antica Roma fu l’imperium, quella forma di potere pressoché assoluto che nacque sostanzialmente con Romolo, si perfezionò nell’età repubblicana e si completò, esplicitandosi, ai tempi di Augusto. Ad essa è dedicato un libro prezioso di Giovanni Brizzi, Imperium. Il potere a Roma. Alle radici dell’imperium, mette in risalto Brizzi, si pone una doppia matrice, ad un tempo politica e religiosa. Quella politica è stata sviscerata in ogni suo aspetto e anche qui viene ripercorso il progressivo affermarsi dei «poteri personali» da Publio Cornelio Scipione a Caio Giulio Cesare. Ma su quella religiosa — il cosiddetto «assenso dei Numi» — c’è ancora molto da indagare.

Fino a quando ci sono sullo sfondo gli Dèi il tragitto ha una sua coerenza e una sua linearità. Ma tutto rischia di andare all’aria allorché il potere romano è costretto a fare i conti con il cristianesimo. Qui la personalità della «svolta» è Paolo di Tarso, l’ebreo vissuto nel I secolo dopo Cristo che si convertì alla nuova fede e dedicò la seconda parte della propria vita alla diffusione del messaggio cristiano. In forme che resero tale messaggio compatibile con l’imperium.

Che Paolo sia una figura fondamentale nella storia del cristianesimo (e non solo) è un dato storico ormai acquisito. Per qualcuno fu addirittura più importante di Gesù Cristo. Qualche anno fa Andrew Norman Wilson diede alle stampe Paolo. L’uomo che inventò il cristianesimo (Rizzoli) in cui sosteneva la tesi secondo cui il «Gesù dei Vangeli, se non una creazione di Paolo, è un frutto di Paolo». A Wilson quella del santo appariva, nella tradizione neotestamentaria, una figura «più dominante di quella dello stesso Gesù». Si spinse a sostenere che «se Paolo non fosse esistito, è assai improbabile che noi avremmo avuto i Vangeli nella forma presente». E, benché Wilson riconoscesse che c’erano stati molti personaggi di primo piano «coinvolti nell’evoluzione del cristianesimo», gli aspetti che avevano distinto il cristianesimo dall’ebraismo e in effetti lo avevano reso incompatibile con esso, erano «un contributo esclusivo di Paolo». Talché Wilson si spinse a sostenere che fu Paolo (e non Gesù) il «fondatore del cristianesimo».

Il libro piacque pochissimo a monsignor Gianfranco Ravasi che (su «Avvenire») lo stroncò ricordando che l’autore era null’altro che un giornalista dell’«Evening Standard». D’altra parte, perfino Antonio Gramsci aveva parlato dell’Apostolo di Tarso come del «Lenin del cristianesimo» (laddove Marx sarebbe stato Gesù Cristo). «Asserti lapidari» e «approssimazione» furono i capi d’accusa di Ravasi. Il quale — sempre sul quotidiano della Conferenza episcopale italiana — suggerì, come «sano antidoto» all’opera di Wilson, il libro di Rinaldo Fabris Paolo. L’apostolo delle genti (Edizioni Paoline) che pur faceva propria la celebre definizione di William Wrede (1904) di Paolo come «secondo fondatore del cristianesimo». A dispetto della stroncatura di Ravasi, suggestioni in un certo senso wilsoniane si sono potute cogliere in libri successivi come Paolo. L’ebreo che fondò il cristianesimo di Riccardo Calimani (Mondadori) e Paolo. L’uomo che inventò il cristianesimo di Corrado Augias (Rai Libri). Lo stesso Brizzi manifesta un particolare rispetto per la figura del santo e lo presenta come «il genio di Tarso».

Ma — prima di passare a Paolo — torniamo a Gesù e ai suoi rapporti con l’imperium. Nell’affrontare il tema, Brizzi fa sua un’affermazione che fu di Pierre Vidal-Naquet nel libro Il buon uso del tradimento. Flavio Giuseppe e la guerra giudaica (Editori Riuniti): «Il non specialista che si avventura in questo tipo di ricerca piomba nell’angoscia». E la evoca come «in qualche modo assolutoria» nei propri confronti. Anche, forse, per mettersi al riparo da critiche sferzanti come quelle di Ravasi. Quella fondata da Gesù gli appare in ogni caso come una «setta giudaica che si distacca certamente — almeno secondo i Vangeli — dagli aspetti più intransigenti» della tradizione ebraica «per l’atteggiamento di apertura verso i dominatori romani». E «persino verso i rappresentanti più odiati del potere, vale a dire i pubblicani, gli esattori delle imposte». La posizione del Cristo nei confronti dell’imperio è stata dedotta soprattutto dalla sua celebre risposta ai farisei. Interrogato se fosse legittimo o meno, ovviamente dal punto di vista della legge mosaica, pagare il tributo a Roma, il Maestro di Nazareth si fece portare una moneta di Tiberio e chiese ai suoi interlocutori di chi fosse l’effigie impressa sulla moneta stessa; avutane la risposta che si trattava di Cesare, Gesù replicò sostenendo che si doveva «rendere» a Cesare le cose di Cesare e a Dio le cose di Dio. In quel «rendere» c’è, secondo Brizzi, «una sfumatura difficilmente eludibile che richiama al tributo morale se non economico da rendersi al potere in cambio dei servigi alla collettività». Tanto che qualcuno, come Ethelbert Stauffer, ha intravisto nell’uso di quel verbo un implicito «assenso» di Gesù «all’impero».

Ma in Paolo, più specificamente nella Lettera ai Romani, c’è di più. La legittimazione nei confronti del dominio di Roma — che pure, già nella frase di Gesù per alcuni è, come si è visto, qualcosa di più di un semplice accenno — nell’enunciato dell’apostolo non è solo una chiosa al detto del Maestro. Contiene un assenso e, ciò che più conta, un «avallo di natura trascendente» al potere imperiale. Il verbo usato è sempre lo stesso: «rendete a tutti quanto è dovuto». Paolo però aggiunge altre parole non irrilevanti: «Ognuno sia soggetto alle autorità superiori, poiché non c’è autorità che non venga da Dio». Perciò «chi si oppone all’autorità resiste all’ordine stabilito da Dio». Autorità che «non per nulla porta la spada», ed essendo «ministra di Dio», ha il dovere di «punire chi opera il male». Paolo, sostiene Brizzi, «non solo divinizza il potere fino ad ogni sua ultima propaggine ed emanazione funzionale». Giunge addirittura a sostenere che «persino gli esecutori di un atto che per i Giudei costituisce un autentico abominio (l’esazione delle imposte)», sono in quel momento «servitori di Dio».

Qualcuno — come il rabbino filosofo austriaco Jacob Taubes in La teologia politica di san Paolo (Adelphi), le ultime lezioni da lui tenute nel febbraio 1987 a Heidelberg, e soprattutto Wolf-Daniel Hartwich, Alejda e Jan Assmann nella prefazione al libro stesso — ha considerato la dottrina di Paolo come una «intensificazione del giudaismo» o come un «potenziamento liberatorio dell’ebraismo stesso». Ma allora perché Paolo aveva definito gli ebrei «nemici»? Qui Taubes, spiega Brizzi, era stato costretto a far ricorso a qualche «forzatura» per dar conto di quella definizione. Ma, in dialogo con Taubes, Carl Schmitt — in Teoria del partigiano (Adelphi) — aveva tagliato il nodo laddove sosteneva che con quel termine, «nemici», l’apostolo definiva la sua Chiesa per opposizione piena nei confronti degli ebrei. Dopodiché, sempre secondo Brizzi, sono molti i segni che Paolo «seguisse da tempo una linea assai meno radicale rispetto a Giacomo, a Giovanni e persino a Pietro». Finché, forse nella primavera del 61, Paolo abbandonò la Giudea per trasferirsi a Roma. Da dove non sarebbe mai più tornato a Gerusalemme. Comunque, è certo che da allora in poi egli fu «decisamente ripudiato» dagli ebrei. Ed è questo, conclude Brizzi, «ciò che qui importa davvero».

In una prefazione alle Lettere di san Paolo (Bur) il teologo e biblista Giuseppe Barbaglio — già autore di Paolo di Tarso e le origini cristiane (Cittadella editrice) — ha constatato come Paolo, pur trasformato dall’incontro con il Cristo, non si era in realtà poi riferito alle tradizioni evangeliche se non «in misura trascurabile e su punti di secondaria importanza». Si è invece reso in grado di elaborare «una teologia capace di giustificare l’apertura universalistica della Chiesa». Quello di Israele era, secondo Barbaglio, anch’esso un «universalismo», ma «centripeto», cioè atto a trascinare a sé, al mondo giudaico, donne e uomini provenienti da mondi diversi. Quello di Paolo, invece, era per così dire «centrifugo», cioè «incondizionato». Brillante intuizione, afferma Brizzi, senonché a Barbaglio sembra sfuggire il fatto che quell’universalismo «centrifugo», «in forma persino più aperta, esisteva già con altre coordinate ben prima che a diffonderlo si dedicasse l’apostolo». Il precedente «era rappresentato dall’universalismo romano, nel quale rientrava in realtà, perfettamente partecipe e conscio proprio Paolo». Ed «è la coincidenza tra i due modelli a costituirne la straordinaria novità».

Si avverte qui l’eco della scuola di Santo Mazzarino («un’intelligenza storica superiore», secondo Brizzi) e ogni riferimento va alla sua opera L’Impero romano (Laterza). Quel Mazzarino che ben comprese di che pasta fosse fatto l’universalismo romano in grado di assorbire, in nome del diritto, i popoli via via conquistati. Mazzarino intuì tra i primi l’intero senso di questo discorso e approdò alla conclusione che «nessun cittadino romano ha avuto nella storia dell’impero quell’importanza decisiva che noi dobbiamo assegnare a Paolo».

Rispetto al modello proposto da Mosè, scrive Brizzi, la posizione prediletta da Paolo «era, credo, quella che contemplava la possibilità di un ordine politico sancito da Dio attraverso il suo avallo e inverato come forma visibile attraverso un’autorità che potesse per questo pretendere di essere rispettata». Tale autorità, «dovette pensare Paolo», poteva «identificarsi — fino a che la Chiesa non l’avesse sostituita? — con la forma, pur perfettibile, dell’imperio». Brizzi ritiene «che un gigante del pensiero qual era l’apostolo possa avere antiveduto in parte le smisurate possibilità future offerte dalla soluzione proposta».

Avrebbe dovuto essere però un processo graduale, «che richiedeva un paziente lavorio di secoli» e «un adeguamento delle strutture esistenti», scartando «le scelte estreme del giudaismo». Scelte estreme (qui Brizzi si dice sicuro che Paolo ne fosse via via sempre più «chiaramente presago») che «avrebbero finito per condurre la religione dei padri, con le istanze proprie delle anime che la componevano, quella palestinese e quella della diaspora, ad un mortale confronto con l’universalismo opposto, quello di Roma». La «Legge divina contro quella, umana ma potenzialmente inflessibile dell’Urbe».

Ad ogni modo, quale che ne sia stato il germe originario, l’autore ritiene che «l’idea della Nuova Alleanza — proposta in Paolo ancora prima che nei Vangeli — presenta indiscutibili e suggestivi parallelismi con il gigantesco sistema ideologico su cui si regge la nozione prescelta dal primo degli imperatori». Nell’implicito «connotarsi come civis», quando, nella Lettera ai Romani, «dichiara la sua piena adesione all’impero», Paolo è debitore a quel modello augusteo di una suggestione «forse neppure del tutto inconscia». Paolo aveva intuito, ben prima di dar vita alla sua personale impalcatura della Chiesa nascente, come, per sopravvivere, la nuova fede dipendesse «dall’adesione o almeno dalla capacità di inserirsi in un kosmos ecumenico dominato da Roma». Senza «dapprima turbarlo troppo». Adesione in mancanza della quale «rischiava di perire con il resto di una realtà ebraica che, viceversa, con l’Urbe e le sue leggi andava ponendosi su un’irreparabile rotta di collisione». Lungo questo percorso, come sostiene Giuseppe Zecchini in Storia della storiografia romana (Laterza), Paolo offrirà un formidabile sostegno ideologico alla monarchia, guidandola verso la forma assoluta vagheggiata dalla maggior parte dei Cesari.

E la Chiesa? Giovanni Brizzi precisa che esita «a credere che il genio di Tarso possa avere antiveduto l’evoluzione ultima della sua creatura, la Chiesa». Anche se «le infinite, estreme derive della sua visione dovettero risultare inimmaginabili persino per lui», il suo pensiero «approdò comunque di fatto alla genesi di un edificio millenario, proponendo per la sovranità dimensioni nuove almeno in Occidente». E «destinate a rimanere insuperate a lungo». Molto a lungo.

Gender tech

Quali sono i lati nascosti delle ‘tecnologie di genere’ come pillola contraccettiva, test di gravidanza o ecografia? Tutti questi dispositivi hanno certamente promosso emancipazione e liberazione dai vincoli della ‘natura’. Eppure, hanno anche aperto le porte a nuove e più subdole forme di violenza e discriminazione. In Gender tech Laura Tripaldi racconta gli aspetti più controversi di queste tecnologie e ci invita a riflettere sul loro significato culturale e politico.

 

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