Fede nel diritto
- Pagine 148
- 12,00 Euro
- Al momento non disponibile presso il nostro magazzino
In breve
La certezza del diritto e il culto della legalità sono la trincea presidiata da Piero Calamandrei all’indomani dell’invasione nazista della Polonia. Negli anni oscuri della guerra e della dittatura il giurista si interroga: «il diritto qual è, quello del vincitore o quello del vinto, quello di chi vuol mantenere le proprie leggi, o quello di chi vuol instaurare un ordine nuovo in luogo delle leggi abbattute?». In queste pagine, il testo inedito di una appassionata conferenza di Calamandrei sui confini tra politica e scienza giuridica, ‘diritto libero’ dei totalitarismi e tradizione giuridica romana.
Leggi un brano
Firenze 21 gennaio 1940
1. Mai come in questo tormentato ventennio in cui le nostre generazioni hanno vissuto, dopo finita una guerra, una pace apparente che era in realtà febbrile preparazione e angosciosa attesa della nuova guerra che oggi insanguina il mondo, i problemi teorici che hanno affaticato in tutti i tempi le menti dei filosofi sulla essenza della giustizia e sulla natura razionale del diritto si sono presentati con altrettanta urgenza alle coscienze come vitali e tormentosi problemi di vita pratica.
Questa angoscia, che turba tutte le coscienze oneste, è sopra tutto sofferta dai professionisti del diritto, da coloro che hanno dedicato il meglio della loro vita al servizio delle leggi, in qualità di giudici, di avvocati, di docenti. Anche quelli di loro che non si intendono di filosofia, avvertono nella quotidiana fatica del loro ufficio, che li chiama non a dissertare astrattamente sul fondamento deontologico della giustizia, ma a dar giustizia in concreto agli uomini che ne sono assetati, un profondo turbamento, un senso di disorientamento e di fluttuazione, come se vacillassero quelle premesse su cui un tempo pareva solidamente fondata ogni attività ed ogni scienza giuridica. Questo senso di scetticismo e quasi di diffidenza di fronte al fenomeno giuridico è sopra tutto visibile nei giovani; anche in quelli che per forza di tradizione familiare o per speranza di più agevole approdo professionale continuano ad imbarcarsi nelle facoltà di giurisprudenza, lardore per gli studi da loro scelti, la convinta fede nel diritto come missione più che come mestiere, mi pare (se non mi inganno) che si vada sempre più rarefacendo: quelle parole che un tempo, senza bisogno di tanti commenti, ridestavano nei cuori giovanili il fremito delle cose vive, pare che oggi abbiano perduto ogni loro risonanza sentimentale, e quasi ogni loro significazione attuale.
Esaltate dinanzi ai giovani la giustizia e il diritto: vi staranno a sentire distaccati e quasi ostili, domandando a se stessi quale pratica sostanza si nasconda dietro questa oratoria: col sospetto che queste parole non siano che un tranello retorico invano teso al loro vigile realismo, non più disposto ormai a lasciarsi incantare dalle vuote parole sonanti del buon tempo antico.
Giustizia? Ma quale sicura realtà si nasconde dietro questa erma dalle molte fronti, che cambia faccia secondo langolo visuale da cui si guarda? Due litiganti vanno dinanzi al giudice e tutte due, per soverchiare lavversario, invocano la giustizia; la parola è la stessa, ma per ciascuno di essi vuol dire lopposto, vuol dire la propria vittoria e la rovina del suo contraddittore. Due popoli si scannano per la conquista di un regno: tutte due hanno scritto la parola diritto sulla propria bandiera; ma il diritto qualè, quello del vincitore o quello del vinto, quello di chi vuol mantenere le proprie leggi, o quello di chi vuol instaurare un ordine nuovo in luogo delle leggi abbattute? Quello di chi difende il proprio focolare o quello di chi saccheggia il focolare altrui?
Troppe conferme sembra avere dintorno a noi, anche in questa storia contemporanea in mezzo alla quale angosciosamente viviamo, la dottrina, che risale ai Sofisti, secondo la quale, come diceva Trasimaco, «la giustizia è ciò che giova al più forte»: e come si può sul serio continuare a cullarsi nella pia illusione che immagina la forza posta al servizio del diritto, quando tutti i giorni vediamo che proprio dalla forza, nientaltro che dalla bruta forza delle armi esce quellordine apparente che i vincitori chiamano diritto?
Né vale, a liberare il giurista da questi dubbi incalzanti, linsegnamento positivista secondo il quale il diritto è tutto nella legge; onde chi serve fedelmente la legge, può così essere certo di servir la giustizia. Anche qui la coscienza irrequieta gli obietta che non in tutte le leggi il diritto è racchiuso nella stessa misura: egli sente parlare intorno a sé di leggi buone e di leggi cattive; le discussioni dei politici sullopportunità di modificare con nuovi ordinamenti le istituzioni invecchiate, sono discussioni sulla giustizia delle leggi; le proposte di riforme mirano sempre a porre leggi che si credono più giuste al posto di quelle di cui si afferma il contrario. Anche le leggi, dunque, possono esser discusse e giudicate: e se una legge può esser giudicata ingiusta, vuol dire che il diritto, che si prende come criterio per giudicare la legge, sta fuori di essa. E dove sta dunque questo diritto se non nella forza che abbatte le leggi, se non nel fatto che le rinnuova?[ ]Piero Calamandrei