Sommario

a mio padre che provava a cantare «Vola colomba»

a mia madre che mi ha insegnato «La bella Gigogin»

Introduzione. Canti sociali e canzoni d’autore: un «filo rosso»

In una delle scene più suggestive di Amarcord, indimenticato film di Federico Fellini, la notte seguente la visita di un caporione fascista in una cittadina di provincia, echeggiano le note dell’Internazionale dal campanile di una chiesa. Le camicie nere, irritate dal suono di quell’inno «sovversivo», prendono a sparare in direzione del campanile finché non colpiscono e fanno cadere un grammofono dal quale proveniva quella musica. Nella scena felliniana, metafora della privazione della libertà, risuona non a caso L’Internazionale, motivo nel quale, prima dell’avvento del fascismo, si riconoscevano quanti identificavano i loro ideali con quelli della democrazia e del progresso.

Felice scelta davvero quella di Fellini, perché il canto ha costituito una delle forme più significative della rappresentazione emotiva e simbolica della politica. Testimonianza di adesione a un ideale, espressione di una fede politica, modalità che conferma ed esalta il senso di appartenenza e comunione a un gruppo: sono solo alcune delle motivazioni che hanno accompagnato l’evoluzione del canto sociale. Il suo inizio coincide con la nascita stessa della politica moderna, ovvero con la Rivoluzione francese. A partire da quell’evento, la politica si dota di un corredo di pratiche, simboli e riti. E il canto costituisce una delle manifestazioni più significative di condivisione di un credo politico. Attraverso il Risorgimento prima, la nascita e lo sviluppo del movimento operaio e sindacale poi, prende forma un corpo di canti destinati a rappresentare la colonna sonora di quanti si riconoscono nei principi di Mazzini, di Garibaldi o, più tardi, in quelli del socialismo, dell’anarchia e del comunismo.

La Grande Guerra costituisce un’ulteriore occasione che arricchisce il patrimonio dei canti: non solo di quelli che esaltano il senso della nazione, ma anche di quelli destinati ad accompagnare – pure in anni recenti – le aspirazioni dei pacifisti. Dalle trincee del 1915-18 nasce il canto che accompagna l’esperienza del fascismo. Dai riti della politica dell’Ottocento e d’inizio Novecento il fascismo mutua anche quello del canto, accentuandone la valenza simbolica e religiosa grazie all’esaltazione del mito della Grande Guerra. Canti come Giovinezza o All’armi passano dalle trincee prima di diventare inni simbolo di un regime.

Durante il Ventennio fascista il canto sociale, messo fuorilegge, ha comunque una circolazione clandestina nelle riunioni segrete degli oppositori del regime mussoliniano, o nelle adunate degli esuli antifascisti. O, ancora, per risuonare provocatoriamente come nella scena di Amarcord. Ma quella tradizione riaffiora dopo il crollo del regime fascista per saldarsi con il canto generato dalla Resistenza. Nel secondo dopoguerra Fischia il vento e L’Internazionale, Bella ciao e Bandiera rossa risuonano nuovamente nelle piazze per salutare il ritorno della libertà e della democrazia.

Fatta salva una breve parentesi negli anni postbellici, il canto sociale attraversa un periodo di letargo per tutti gli anni Cinquanta, fino alla prima metà degli anni Sessanta, per riapparire negli anni della contestazione sessantottesca e accompagnare la rivolta della baby boom generation. La riscoperta dei valori della Resistenza negli anni della rivolta giovanile non solo si accompagna alla riproposta di un antico repertorio, ma produce anche una nuova stagione del canto sociale: i canti delle mondine o gli inni partigiani vengono cantati assieme a motivi che danno voce al disagio di una generazione che scopre la politica. E che, probabilmente come mai in precedenza, affida proprio al canto il compito di amplificare i motivi della protesta.

Il Sessantotto, con i suoi riverberi sugli anni Settanta, rappresenta l’ultima grande stagione del canto sociale. Ma in quegli anni si registra una singolare «contaminazione»: l’ispirazione originaria si trasferisce dalle chitarre e dalle voci dei giovani che contestano agli strumenti di una nuova generazione di cantautori che aggiorna temi e contenuti che erano stati propri di quel canto. Bob Dylan e Joan Baez danno voce a una protesta nella quale confluiscono gli stessi motivi che un secolo addietro avevano accompagnato le lotte del movimento operaio: la solidarietà, la giustizia, i diritti calpestati delle minoranze, l’invocazione della pace.

Con la «crisi della politica», a partire dagli anni Ottanta, il bagaglio e gli strumenti (canti sociali compresi) di una stagione che aveva eletto la politica a primato vengono messi «in soffitta». Ma a tenere viva la tradizione del canto sociale, sia pure attraverso modalità e forme di comunicazione diverse, è tutta una generazione di cantautori, da Guccini a De Gregori, da De André a Fossati: una generazione che si ispira, più o meno direttamente, a Bob Dylan o alle suggestioni degli chansonniers francesi, cioè a due tradizioni musicali differenti, ma unite nel ripercorrere gli stessi temi del canto sociale ottocentesco.

All’alba del terzo millennio, dopo un sonno durato almeno un ventennio, la politica è tornata in piazza. Nelle manifestazioni e nei cortei che nell’epoca della globalizzazione vedono i giovani riaggregarsi, il canto sociale è ritornato. È ritornato a essere intonato, magari aggiornato con sonorità diverse, sul palco di Piazza San Giovanni a Roma in occasione delle festa del 1° maggio. È ritornato a essere presente in manifestazioni come quelle che hanno accompagnato la protesta contro il vertice G8 di Genova nel luglio 2001, nelle dimostrazioni dei «girotondini» o nei cortei pacifisti contro la guerra. E se la riconquista della piazza costituisce uno dei tratti più caratteristici della politica attuale, va registrato un altro dato non meno significativo: a fare da sottofondo al ritorno della politica è proprio Bella ciao. Il canto partigiano per antonomasia, assieme ai motivi della canzone d’autore più impegnata e al pop-reggae di Manu Chao, ha dato vita a una commistione fra «sacro» e «profano» che forse potrà far storcere il naso ai puristi della tradizione del canto sociale. Ma, come ammoniva Marc Bloch, «gli uomini somigliano al loro tempo più che ai loro padri»¹. Padri e figli sono uniti però da un «filo rosso» che congiunge la tradizione del canto sociale a quella più recente di una canzone permeata dagli stessi temi che, a cominciare da due secoli fa, hanno accompagnato l’ascesa della politica.

1 M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, Torino 1969, p. 48.

Considerare il repertorio dei canti sociali esclusivamente come un «corpus» di versi e musica, ancorché corretto, è tuttavia limitante. Il canto sociale cadenza lo svolgersi della politica, ne sottolinea gli eventi principali, ne accompagna l’evoluzione. È, in definitiva, uno dei segnali più significativi della partecipazione della gente comune (il «coro») alla politica. In breve, il canto risulta essere un «documento» utile per capire la storia. Un documento particolare, certo, perché, grazie al suo corredo più significativo, la musica, è carico di significati che altri documenti tradizionali utilizzati dallo storico non sempre posseggono. Un documento, insomma, che della politica rivela non tanto, o non solo, gli aspetti dottrinari, ma quelli più legati alla partecipazione emotiva e sentimentale. Sotto tale profilo questo libro non è dunque una storia del canto sociale quanto, piuttosto, il tentativo di raccontare l’evoluzione della politica attraverso il canto. Da questa impostazione discende anche la scelta dei brani proposti e commentati.

La letteratura sul canto sociale è vasta. Le prime raccolte, attraverso i canzonieri o i fogli volanti, iniziano negli anni tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. A partire dagli anni Sessanta, grazie soprattutto alla costituzione di un gruppo di studiosi che opera all’interno prima del Nuovo canzoniere italiano e poi dell’Istituto Ernesto De Martino, si inizia la raccolta sistematica e scientifica del vasto patrimonio dei canti sociali. Prende il via, al contempo, un dibattito sulla funzione e sull’importanza di questo repertorio, un dibattito che diviene tanto più vivo e fecondo mano a mano che la cultura popolare viene rivalutata dalla cultura «alta». In questo contesto la stessa terminologia (la medesima che viene impiegata in questo libro) diviene oggetto di polemiche. Inizialmente definiti canti politici e sociali, molti dei brani che compaiono nelle pagine che seguono vengono poi connotati come «canti sociali». Questa è, per esempio la definizione che ne dà Gianni Bosio: «I canti di protesta, di denuncia, di affermazione politica e ideologica, di resistenza, di contrapposizione dal periodo dell’Unità [...] ad oggi propri o in funzione degli interessi delle classi lavoratrici, vengono definiti, per comodità, canti sociali»². Questa definizione compare sia nel titolo della prima organica raccolta realizzata all’inizio degli anni Sessanta da Roberto Leydi³, sia nella più recente opera di Cesare Bermani⁴.

2 G. Bosio, L’intellettuale rovesciato, Edizioni Bella Ciao, Milano 1975, p. 53.

3 R. Leydi, Canti sociali italiani, vol. I: Canti giacobini, repubblicani, antirisorgimentali, di protesta postunitaria, contro la guerra e il servizio militare, Edizioni Avanti!, Milano 1963.

4 C. Bermani, «Guerra guerra ai palazzi e alle chiese». Saggi sul canto sociale, Odradek, Roma 2003.

Nell’ultimo quarantennio il lavoro di ricerca (anche se a fasi alterne) è continuato e ha prodotto un vasto panorama bibliografico che annovera antologie, saggi e studi critici; tuttavia, sembra mancare ancora un testo di carattere divulgativo che sintetizzi e proponga quella pagina di storia. È questo lo scopo del presente lavoro, il quale ha però il difetto, come ogni opera che dei canti proponga solo i versi, di omettere un corredo fondamentale come quello della musica⁵. Il rischio consapevole, inoltre, è quello di omissioni e scelte che possono risultare parziali. La tradizione del canto sociale è stata spesso affidata alla trasmissione orale: per tale motivo di uno stesso canto circolano diverse versioni. La selezione operata nelle pagine che seguono privilegia le versioni più conosciute, rinviando ai testi citati in nota e in bibliografia la ricerca di varianti e versioni differenti.

5 Larga parte dei canti qui citati o commentati si può ascoltare nei «Dischi del Sole», parzialmente riediti in CD da Ala Bianca Group srl e Bella Ciao srl. Inoltre, nella raccolta Avanti popolo. Due secoli di canti popolari e di protesta civile, a cura dell’Istituto Ernesto De Martino, Hobby & Work, Milano 1998, vengono riproposti testi e spartiti di 232 canti sociali.

S.P.

Il libro è stato concepito e discusso congiuntamente dai due autori nella sua interezza. Per quanto riguarda la stesura, a Stefano Pivato si devono la prima e la seconda parte con l’eccezione dei capitoli VI e VII. Ad Amoreno Martellini la terza parte, con l’eccezione dei capitoli XXIII e XXIV.

Nel corso della ricerca e della elaborazione del libro, Ivan Della Mea, Massimo Eusebio, Paola Fabbri, Emilio Franzina, Giuliano Gangemi, Oriana Maroni, Barbara Montesi, Attilio Pastori, Massimo Raffaeli, Anna Tonelli ci hanno fornito suggerimenti e indicazioni: a tutti loro va il più sentito ringraziamento.

Un grazie, infine, a Cesare Bermani, custode e profondo conoscitore del vasto patrimonio del canto sociale, non solo per le preziose indicazioni fornite, ma, soprattutto, per il paziente e appassionato lavoro che da decenni svolge. Senza la ricerca di Cesare Bermani il canto sociale non costituirebbe, oggi, patrimonio di ricerca e fonte di valori civili, soprattutto per le giovani generazioni.

Avvertenza

Nel libro figura una selezione di cinquanta fra i più significativi testi di canti. La scelta operata è stata dettata in primo luogo dal rilievo che essi hanno rivestito all’interno delle varie tradizioni politiche. Omissioni che possono sembrare rilevanti derivano dalla mancata reperibilità dei detentori dei diritti dei testi.

Laddove non viene indicato l’autore, il testo è da considerarsi anonimo.

I. Il Risorgimento cantato. Dalla Rivoluzione francese a Garibaldi

Tutto ha inizio con la Rivoluzione francese. A partire da quell’evento la politica, come pratica fino ad allora riservata ai ceti aristocratici e alto borghesi, diviene strumento di socializzazione anche per le classi popolari. Segni, emblemi, linguaggi e modi di comunicare subiscono una metamorfosi radicale.

Alla araldica, simbolo della distinzione aristocratica, si sostituisce una iconografia rivoluzionaria alla quale è delegato il compito di sottolineare nuove appartenenze e moderne identità: l’albero della libertà (emblema di una nuova era) o il berretto frigio (il copricapo che, nell’antichità, contraddistingueva lo schiavo liberato). Alla ritualità religiosa se ne sostituisce una di impronta laica, volta a confermare non solo il rifiuto delle vecchie fedi, ma, soprattutto, l’appartenenza a una religione laica che si basa sui dogmi della democrazia e della sovranità popolare. E quei dogmi si nutrono, come nelle religioni tradizionali, di un corredo di riti e simboli: bandiere, coccarde tricolore, feste e commemorazioni civili. Così come le funzioni e le feste religiose erano accompagnate dai canti sacri e liturgici, anche la «nuova politica» eleva i propri inni agli idoli dell’era laica. Anzi, l’inno diviene uno dei simboli più rappresentativi, una sorta di rituale civile: l’atto di testimonianza e di adesione alle nuove fedi secolarizzate che accompagnano l’ascesa e lo sviluppo della politica a partire dalla Rivoluzione francese. O, ancora meglio, a partire dalla Marsigliese.

In realtà la Rivoluzione francese sta alla nascita della «nuova politica» così come La Marsigliese sta all’origine del canto di ispirazione politica. Composta da Claude-Joseph Rouget de Lisle nel 1792 con il titolo di Canto di guerra per l’armata del Reno, viene stampata in fogli volanti come canto di reclutamento alle armi dei cittadini francesi («aux armes [...] formez vos bataillons»). Intonata dai coscritti marsigliesi nella loro marcia verso Parigi, prende il nome di Inno di Marsiglia: di qui, quello definitivo di La Marsigliese.

La Marsigliese

Allons enfants de la Patrie,

Le jour de gloire est arrivé!

Contre nous de la tyrannie

L’étendard sanglant est levé

Entendez-vous dans les campagnes

Mugir ces féroces soldats?

Ils viennent jusque dans nos bras

Egorger nos fils et nos compagnes.

Aux armes, citoyens!

Formez vos bataillons!

Marchons!

Qu’un sang impur

Abreuve nos sillons!

Que veut cette horde d’esclaves

de traîtres, de rois conjurés?

pour qui ces ignobles entraves,

ces fers dès longtemps préparés?

Français! Pour nous, ah! Quel outrage!

Quels transports il doit exciter!

c’est nous qu’on ose méditer

de rendre à l’antique esclavage!

Aux armes, citoyens!

Formez vos bataillons!

Marchons!

Qu’un sang impur

Abreuve nos sillons!

Quoi! Des cohortes étrangères

feraient la loi dans nos foyers!

Quoi! Ces phalanges mercenaires

terrasseraient nos fiers guerriers;

Grand Dieu! Par des mains enchaînées

nos fronts sous le joug se ploieraient;

de vils despotes deviendraient

les maîtres de nos destinées!

Aux armes, citoyens!

Formez vos bataillons!

Marchons!

Qu’un sang impur

Abreuve nos sillons!

Tremblez tyrans! Et vous perfides,

l’opprobre de tous les partis,

Tremblez! Vos projets parricides

vont enfin recevoir leur prix!

tout est soldat pour vous combattre

s’ils tombent nos jeunes héros,

la France en produit de nouveaux,

contre vous tout prêts à se battre!

Aux armes, citoyens!

Formez vos bataillons!

Marchons!

Qu’un sang impur

Abreuve nos sillons!

Français en guerriers magnanimes,

portez ou retenez vos coups!

épargnez ces tristes victimes

à regret s’armant contre nous

mais ces despotes sanguinaires,

mais ces complices de Bouillé

tous ces tigres qui sans pitié

déchirent le sein de leur mère…!

Aux armes, citoyens!

Formez vos bataillons!

Marchons!

Qu’un sang impur

Abreuve nos sillons!

Amour sacré de la Patrie,

conduis, soutiens nos bras vengeurs!

Liberté, liberté chérie,

combats avec tes defenseurs!

sous nos drapeaux, que la victoire

accoure à tes mâles accents!

que tes ennemis expirants

voient ton triomphe et notre gloire!

Aux armes, citoyens!

Formez vos bataillons!

Marchons!

Qu’un sang impur

Abreuve nos sillons!

Nous entrerons dans la carrière

quand nos aînés n’y seront plus;

nous y trouverons leur poussière

et la trace de leurs vertus

bien moins jaloux de leur survivre

que de partager leur cercueil,

nous aurons le sublime orgueil

de les venger ou de les suivre!

Aux armes, citoyens!

Formez vos bataillons!

Marchons!

Qu’un sang impur

Abreuve nos sillons!⁶

6 Avanti, figli della Patria, / il giorno di gloria è arrivato! / contro di noi si è levata / la bandiera insanguinata dei tiranni. / sentite nelle campagne / muggire quei feroci soldati? / vengono fino nelle nostre braccia / a sgozzarci i figli e le compagne.

La Marsigliese è successiva di almeno un paio d’anni a due canzoni molto popolari nella prima fase rivoluzionaria, Ça ira e La Carmagnola, destinate ad avere circolazione anche fuori dai confini francesi. Tuttavia, La Carmagnola, che nei suoi versi promette di «fare sgozzare tutta Parigi» e minaccia il «suono del cannone»⁷, evoca immagini troppo truci per rappresentare l’idea della nazione. Di qui, con tutta probabilità, la preferenza per un testo come La Marsigliese, ritenuto più adatto a rappresentare il sentimento nazionale: tant’è che nel 1792 l’Assemblea Nazionale lo eleva al rango di inno nazionale.

7 Vedi il testo completo in R. Leydi, Canti sociali italiani, vol. I: Canti giacobini, repubblicani, antirisorgimentali, di protesta postunitaria, contro la guerra e il servizio militare, Edizioni Avanti!, Milano 1963, pp. 27-28. Allo stesso testo si rinvia per le numerose varianti e i vari adattamenti regionali. Ove non diversamente indicato, i canti riprodotti in questo capitolo sono tratti dall’opera di Leydi.

È Napoleone che con le sue truppe esporta in Europa La Marsigliese, divenuta espressione della lotta contro il dispotismo per l’affermazione dei principi democratici. Ovunque avanzano gli eserciti napoleonici, si diffondono e si cantano i suoi versi, spesso tradotti nelle varie lingue nazionali. La Marsigliese è nota in Italia già nel 1793, cioè un anno dopo la sua stesura originaria. E conosciute sono decine di versioni in italiano da cantarsi «sull’aria eguale alla francese»⁸, ispirate agli entusiasmi che la Rivoluzione provoca in certi ambienti. Numerosi sono anche gli adattamenti, in lingua italiana o nei vari dialetti, degli altri due inni, il Ça ira e La Carmagnola. In Francia quest’ultimo canto, dal nome della giubba a falde corte indossata dai rivoluzionari come simbolo di uguaglianza, accompagna le esecuzioni sulla ghigliottina. In Italia viene invece cantato, e danzato, attorno agli alberi della libertà a ricordo della Rivoluzione francese:

8 Sulle varie versioni italiane, cfr. C. Bermani, «Guerra guerra ai palazzi e alle chiese». Saggi sul canto sociale, Odradek, Roma 2003, pp. 25-63.

Maria Antonietta grida ai suoi

di far la festa a tutti noi

la il cannon tuonò

lei niente festeggiò

Questa è la carmagnole

bo bo bo bom bom bom

questa è la carmagnole

che ce la suona il cannon.⁹

9 N. Manicardi, Storia d’Italia nel canto popolare, prefazione di G.P. Borghi, Forni Editore, Sala Bolognese 1996, pp. 126-127.

Tuttavia, il canto che meglio esprime gli entusiasmi dei giacobini italiani nei confronti dei principi della libertà e dell’uguaglianza è Or che innalzato è l’albero, noto anche con il titolo di Inno dell’albero, composto probabilmente a Genova tra il 1796 e il 1799. La canzone celebra l’albero della libertà, icona della Rivoluzione francese, piantato nelle piazze italiane all’arrivo delle truppe napoleoniche come segno dell’inizio di una nuova era.

Or che innalzato è l’albero

Or che innalzato è l’albero

s’abbassino i tiranni.

Da’ suoi superbi scanni

scenda la nobiltà.

Un dolce amor di patria

s’accenda in questi lidi:

formiam comuni i gridi:

viva la libertà.

L’indegno aristocratico

non osi alzar la testa

se l’alza, allor la festa

tragica si farà.

Un dolce amor di patria…

Già reso uguale e libero,

ma suddito alla legge.

È il popolo che regge:

sovrano ei sol sarà.

Un dolce amor di patria…

Giuri implacabil odio

ai feudi, alle corone,

e sempre la Nazione

libera resterà.

Un dolce amor di patria…

Sul torbido Danubio

penda l’austriaca spada

nell’Itala contrada

mai più lampeggerà.

Un dolce amor di patria…

Fra i motivi più popolari di quel periodo rivoluzionario è anche l’Inno alla Repubblica partenopea, composto da Domenico Cimarosa qualche tempo dopo la proclamazione della Repubblica napoletana, il 23 gennaio 1799. Proprio a causa di quell’inno Cimarosa, fra i maggiori compositori operistici di fine Settecento, subito dopo la caduta della Repubblica partenopea è costretto all’esilio a Venezia. Peggior sorte tocca a Luigi Rossi, autore dei versi, mandato al patibolo:

Bell’Italia, ormai ti desta!

Italiani, all’armi! all’armi!

Altra sorte a noi non resta

che di vincere o morir

dalla terra dei delitti

mosse il passo il fuoco audace

e nel sen di nostra pace

venne l’empio ad infierir.

L’impegno civile di compositori famosi (o in procinto di divenirlo), poeti, letterati, e più in generale di tutti gli «intellettuali» (che alla fine del Settecento non si chiamavano ancora così), pare dunque nascere con l’avvento delle repubbliche giacobine ed esprimersi anche attraverso il canto.

La caduta di Napoleone e il ritorno dei governi assolutistici mette al bando il repertorio giacobino. La Restaurazione è accompagnata da un ritmo, quello del valzer, che, soprattutto nelle corti e nei salotti, diviene la colonna sonora del potere restaurato. Le arie degli Strauss (padre e figlio) invadono l’Europa, a sottolineare la ritrovata supremazia di un Impero, quello austro-ungarico, incarnazione del potere assolutistico. E la Marcia di Radetzky – scritta da Johann Strauss padre nel 1848, in onore del comandante supremo delle truppe austro-ungariche che nel 1848-49 reprime i moti patriottici – diviene il simbolo, non solo musicale, di un’epoca che si oppone a La Marsigliese e alle idealità democratiche rappresentate da quel canto.

I sentimenti liberali che si esprimono subito dopo la Restaurazione non vantano un patrimonio di canti così ricco come quello dei primissimi anni dell’Ottocento. Spiccano i versi di Numi voi siete spietati, di autore ignoto, vera e propria invettiva contro il re Carlo Felice, schieratosi contro i moti costituzionalisti del 1821. Peraltro, il canto è ancora oggi al centro di una controversia non risolta fra quanti lo fanno risalire al 1821 e quanti invece ritengono che la sua origine sia da individuare già alla fine del Settecento:

Numi voi siete spietati,

noi chiamammo libertà

ma i prieghi sono andati

dove manca la pietà.

Ma i moti liberali del 1821 e quelli del decennio successivo non lasciano tracce profonde nel canto. Una maggiore influenza esercita invece la stagione politica del 1848. Il varo delle riforme, la concessione dello statuto e la dichiarazione di guerra all’Austria fanno del Piemonte sabaudo il laboratorio di una nuova stagione del canto risorgimentale. E Carlo Alberto, il re «riformatore», irrompe in versi come quelli del famoso Inno sabaudo di Gaetano Magazzari:

Carlo Alberto ha più splendido il serto,

ha impugnato lo scettro d’amor.¹⁰

10 R. Monterosso, La musica nel Risorgimento, Vallardi, Milano 1948, p. 139.

Oppure in altri meno famosi come quelli di Mangioncalda:

Sorgete italiani

a vita novella

d’Alberto la stella

risplenda nel ciel.¹¹

11 Ivi, p. 140.

Anche a Pio IX, che dal 1846 pare realizzare il sogno giobertiano di un papa riformatore e «liberale», poeti e musicisti innalzano versi e strofe come queste:

Benedetta la Santa Bandiera

che il Vicario di Cristo innalzò.¹²

12 Ivi, p. 130.

Certo, non tutti i canti che inneggiano a Pio IX hanno un’aria così marziale e austera. A Venezia, ancora sotto il dominio degli austriaci, lo si invoca sfidando la censura poliziesca, cantando questo scherzoso motivetto il cui primo verso richiama per l’appunto il papa:

viva l’X coll’I de drio

e l’uselin che fa pio pio.¹³

13 Ivi, p. 132.

Il Risorgimento ha discendenze e ramificazioni complesse e il canto ne riflette i variegati orientamenti politici e ideali. La canzone esprime le idealità di quei cattolici liberali che inneggiano al primato della Chiesa, oppure di quanti intravedono in Carlo Alberto e nella dinastia sabauda il re e il casato che possono portare a compimento il disegno unitario. Ma ci sono anche coloro che non sono disposti ad affidare né al trono sabaudo né alla cattedra di Pietro i destini unitari e invocano una rivoluzione più radicale. È, quest’ultimo, il sogno dei repubblicani. Ed è, ancora, la profezia di Mazzini musicata attraverso una serie di invettive contro i nemici degli ideali repubblicani. Come, per esempio, in un inno quarantottesco di autore anonimo il cui tono violentemente antimonarchico risuona già nel titolo ammonitore, O monarchi della terra:

O monarchi della terra

Oggi il popolo v’intuona

La canzone della guerra

Che nell’anima fremé;

via dal capo la corona:

oggi il popolo sia re

[...]

questa infamia coronata

è un insulto alla virtù,

la ferocia dei potenti

no, regnar non dee quaggiù.

Ma la canzone risorgimentale non esprime solamente adesione ai valori, agli ideali e ai principi della rivoluzione liberale. Spesso celebra i fautori del Risorgimento nazionale e quanti si sono immolati per la causa del tricolore. È una galleria di personaggi, famosi e meno famosi, quella che i canti evocano tramandandone gesta e atti eroici. Per un pubblico scarsamente alfabetizzato, il canto esercita la stessa funzione che su altri piani giocano l’iconografia e le fonti letterarie per la trasmissione della memoria del Risorgimento.

Ugo Bassi, il frate garibaldino fucilato dagli austriaci nel 1849 dopo la caduta della Repubblica romana, è cantato come il martire condannato «per amar l’Italia» e il suo sacrificio indicato come monito «ai giovinetti accorti / perché contro l’Austria / sian soldati forti». Felice Orsini e Giuseppe Pieri, i due mancati attentatori alla vita di Napoleone III condannati alla ghigliottina nel 1858, vengono celebrati come «morti con l’anima pura / per l’Italia, per la libertà».

Di Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, i due garibaldini romani giustiziati nel 1868, si evoca il sacrificio per incitare alla rivolta il popolo romano contro gli «sgherri fidi del papato». Ma la galleria dei patrioti celebrati nelle canzoni è ben più lunga e comprende anche personaggi come Giuseppe Barsanti, il caporale di fede mazziniana fucilato a Milano in seguito a un fallito tentativo insurrezionale nel 1870, e Nino Bixio, il luogotenente dell’eroe dei due mondi.

Anche dopo l’unificazione italiana la canzone continua a celebrare quei martiri che si sono immolati per la causa della libertà. È il caso, fra gli altri, di Antonio Fratti, combattente garibaldino e deputato repubblicano morto a Domokos, in Grecia, dove era accorso con un manipolo di volontari per combattere contro gli ottomani. A lui è dedicata La canta di Fratti:

Povero Fratti,

prode guerriero,

che volentieri

in Grecia andò,

col suo valore

in terra straniera

la nostra bandiera

la fè sventolar.

Non tutte le canzoni dedicate ai personaggi esprimono consenso e plauso, ma, talvolta, ironia e sarcasmo. È il caso, fra gli altri, di un ritornello in dialetto romagnolo nel quale Enrico Cialdini e l’ammiraglio Francesco Persano, protagonisti della sconfitta della battaglia navale di Lissa (1866) a opera della flotta austriaca, vengono considerati «cazzoni» e messi in contrapposizione ai garibaldini:

Ciapa Cialdini, ciapa Persano

ciapa tot quant el Stét Magiòr

se i vè Garibaldu i liga in t’un fas,

lu i bota in te fù, ste brut cazzàs.¹⁴

14 «Prendi Cialdini, prendi Persano / prendi tutto lo Stato maggiore, / se viene Garibaldi li lega in un fascio / e lui li butta nel fuoco, questi brutti cazzoni.»

Il personaggio che più di ogni altro incarna le aspirazioni radicali del Risorgimento è naturalmente Giuseppe Garibaldi. Nell’eroe dei due mondi sono riposte le speranze di quanti auspicano una caduta del papato e, contemporaneamente, della monarchia sabauda. Ma in Garibaldi si riconoscono anche coloro che attendono giustizia sociale.

La lunga durata della canzone di ispirazione garibaldina, che percorre tutta la seconda metà dell’Ottocento e si inoltra anche per buona parte del Novecento, è certamente legata alla figura dell’eroe, che assume contorni per certi aspetti devozionali. Garibaldi «come Gesù Cristo» è uno degli accostamenti certamente più presenti nell’immaginario risorgimentale, come ci tramanda una delle più celebri strofe in dialetto siciliano:

Ch’ è beddu Caribardu ca mi pari

san Micheluzzo arcanciulu daveru,

[...]

quannu talìa, Gesù Cristu pari.¹⁵

15 «Com’è bello Garibaldi che mi pare / san Micheluzzo arcangelo in persona, / [...] quando guarda sembra Gesù Cristo.»

Conseguentemente a questa immagine Garibaldi non solo assume l’aspetto dell’angelo vendicatore contro le ingiustizie politiche e sociali, ma è fonte di «verità rivelate» nelle quali il supremo sacrificio per la patria diviene condizione meritoria per il paradiso:

L’ha detto Garibaddi

e questa è la verità

chi mmore pe la patria

in paradiso va.

Da parte loro i repubblicani lo collocano accanto ad altri due personaggi chiave dell’idea di repubblica:

Su, coraggio, il dì s’avanza

che nel grembo dei destini

di Cattaneo e di Mazzini

il pensiero divinò.

Su coraggio, il dì s’avanza

per cui già, nei petti saldi,

col gran cuor di Garibaldi

ogni cuore palpitò.

Il canto più popolare dedicato all’eroe dei due mondi è l’Inno di Garibaldi. Composto nel 1859, alla vigilia della Seconda guerra di indipendenza con il titolo di Canzone italiana, è certamente l’inno che, assieme a Fratelli d’Italia, sopravvive lungamente alle vicende risorgimentali. Autore della musica è il maestro Alessio Olivieri. Le parole sono del poeta Luigi Mercantini, già autore della Spigolatrice di Sapri («Eran trecento, eran giovani e forti...») dedicata alla sfortunata spedizione di Carlo Pisacane.

Inno di Garibaldi

Si scopron le tombe, si levano i morti

i martiri nostri son tutti risorti!

Le spade nel pugno, gli allori alle chiome,

la fiamma ed il nome d’Italia nel cor:

corriamo, corriamo! Sù, giovani schiere,

sù al vento per tutto le nostre bandiere

Sù tutti col ferro, sù tutti col foco,

sù tutti col nome d’Italia nel cor.

Va’ fuori d’Italia,

va’ fuori ch’è l’ora!

Va’ fuori d’Italia,

va’ fuori o stranier!

La terra dei fiori, dei suoni e dei carmi

ritorni qual era la terra dell’armi!

Di cento catene le avvinser la mano,

ma ancor di Legnano sa i ferri brandir.

Bastone tedesco l’Italia non doma,

non crescono al giogo le stirpi di Roma:

più Italia non vuole stranieri e tiranni,

già troppi son gli anni che dura il servir.

Va’ fuori d’Italia…

Le case d’Italia son fatte per noi,

è là sul Danubio la casa de’ tuoi;

tu i campi ci guasti, tu il pane c’involi,

i nostri figlioli per noi li vogliam.

Son l’Alpi e tre mari d’Italia i confini,

col carro di fuoco rompiam gli Appennini:

distrutto ogni segno di vecchia frontiera,

la nostra bandiera per tutto innalziam.

Va’ fuori d’Italia…

Se ancora dell’Alpi tentasser gli spaldi,

il grido d’allarmi darà Garibaldi,

e s’arma – allo squillo che vien da Caprera –

dei Mille la schiera che l’Etna assaltò.

E dietro alla rossa avanguardia dei bravi

si muovon d’Italia le tende e le navi:

già ratto sull’arma del fido guerriero,

l’ardito destriero Vittorio spronò.

Va’ fuori d’Italia…

Per sempre è caduto degli empi l’orgoglio

a dir: Viva l’Italia, va il Re in Campidoglio!

La Senna e il Tamigi saluta ed onora

l’antica signora che torna a regnar.

Contenta del regno, fra l’isole e i monti,

soltanto ai tiranni minaccia le fronti:

dovunque le genti percota un tiranno,

suoi figli usciranno per terra e per mar!

La fortuna dell’inno garibaldino per antonomasia non è immediata. La sua popolarità raggiunge l’apice negli anni postunitari, allorché viene rilanciato grazie, soprattutto, all’adozione da parte dei gruppi internazionalisti inclini a declinare il mito garibaldino in chiave antistitituzionale e a valorizzarne gli aspetti anticlericali e antimonarchici. Non è un caso che i primi storici del movimento socialista ravvisassero nell’eroe dei due mondi una sorta di profeta dell’ideale socialista. «Sono tutte una sola le cento città»: così recita uno dei versi finali di una delle varianti dell’Inno, quasi a voler mettere in musica quello che Carlo Cattaneo considerava il principio ispiratore dell’unità italiana: le «cento città», per l’appunto.

A parte il richiamo presente nei versi di Luigi Mercantini, inni e canzoni fanno sovente riferimento alla geografia reale e ideale del Risorgimento. Anzi, città e luoghi sono entrati nella mitologia nazionale assieme a eventi, fatti memorabili e personaggi dell’epopea unitaria, proprio grazie alla canzone. In questo senso, i versi forse più famosi sono dedicati a una delle città simbolo del Risorgimento: Venezia. Con l’accompagnamento di un motivo, ricco di suggestioni verdiane, si narra della coeva insurrezione del 1848 e della repressione austriaca dell’anno successivo. I versi esprimono una ideale congiunzione con alcune delle città simbolo della agognata unità italiana, in particolare con Roma, che nell’immaginario risorgimentale rappresenta la meta degli ideali unitari.

O Venezia che sei la più bella

O Venezia che sei la più bella

e tu Mantova che sei la più forte.

Gira l’acqua intorno alle porte

sarà difficile poterla pigliar.

O Venezia, ti vuoi maritare

per marito ti daremo Ancona

per corredo le chiavi di Roma

e per anello le onde del mar.

Un bel giorno entrando in Venezia

tutto il sangue scorreva per terra

i soldati sul campo di guerra

e tutto il popolo gridava pietà.

A ricordarci due dei più celebrati luoghi della memoria garibaldina sono La rondinella d’Aspromonte e La rondinella di Mentana. Le due canzoni costituiscono adattamenti di motivi preesistenti. In questo caso la versione originale di entrambi è La rondinella, scritta dal patriota livornese Enrico Mayer nel 1840 e musicata da Alessandro D’Ancona. Il primo rifacimento del testo originale, attribuito ad Angiolo Talli, risale al 1862 dopo l’infelice spedizione garibaldina in Aspromonte. La rondinella di Mentana è invece del 1867, e rievoca la sconfitta garibaldina ad opera delle truppe francesi.

La battaglia d’Aspromonte è al centro anche della canzone forse più ricordata del vasto repertorio garibaldino, Garibaldi fu ferito, pur se la montagna calabrese non è citata nel testo. Come ampiamente ricordato nelle biografie garibaldine, nel corso di quella battaglia l’eroe dei due mondi fu ferito. E la canzone ricorda l’episodio con un ritornello entrato nella memoria di generazioni di italiani anche per l’orecchiabilità di Flik Flok, l’aria bersaglieresca sulla quale era intonata:

Garibaldi fu ferito

fu ferito ad una gamba

Garibaldi che comanda

tutti quanti i bersaglier.

La città che più di ogni altra è entrata nell’universo del canto risorgimentale è Trieste. La lunga e tormentata vicenda del capoluogo giuliano e la sua valenza simbolica, capace di esprimere le aspirazioni unitarie, traspaiono da una produzione che attraversa oltre un secolo di storia. Esemplare in questo senso è il popolarissimo Inno a Oberdan, scritto qualche tempo dopo l’impiccagione di Guglielmo Oberdan, nel 1882, a seguito della sua intenzione di attentare alla vita dell’imperatore Francesco Giuseppe. L’inno, composto a Trieste, gode comunque di una certa fama fuori dai confini della città giuliana e, soprattutto, ha una durata che si trascina fino alla Prima guerra mondiale e anche oltre. Fra l’altro, diventa popolare in Italia grazie alla consacrazione di Oberdan a eroe e martire da parte di quanti non accettano la Triplice Alleanza fra Austria-Ungheria, Germania e Italia, che di fatto per oltre trent’anni avrebbe frustrato le speranze di una pronta riunificazione di Trieste all’Italia. In quest’inno si riconosceranno, fino alla conclusione della Prima guerra mondiale, coloro che in quella alleanza vedevano calpestate le aspirazioni finali del Risorgimento. In particolare l’inno verrà rilanciato dal movimento repubblicano anche per i richiami a Felice Orsini, l’affiliato alla Giovine Italia che nel 1858 aveva attentato alla vita di Napoleone III, e per la palese impronta antimonarchica.

Inno a Oberdan

Morte a Franz, viva Oberdan!

Le bombe, le bombe all’Orsini,

il pugnale, il pugnale alla mano;

a morte l’austriaco sovrano,

noi vogliamo la libertà.

Morte a Franz, viva Oberdan!

Vogliamo formare una lapide

di pietra garibaldina;

a morte l’austriaca gallina,

noi vogliamo la libertà.

Morte a Franz, viva Oberdan!

Voliamo spezzar sotto i piedi

l’austriaca odiata catena;

a morte gli Asburgo-Lorena,

noi vogliamo la libertà.

Morte a Franz, viva Oberdan!

Meno noto in Italia, ma assai conosciuto a Trieste, fu l’Inno all’Italia, scritto da Quirico Filopanti:

Perla del mar, Trieste,

per te combatteremo,

rinato mostreremo

l’italico valor.¹⁶

16 Monterosso, La musica nel Risorgimento cit., p. 216.

In una produzione di canti veramente sterminata il simbolo forse più celebrato della italianità triestina è San Giusto, dal nome del colle che sovrasta la città. L’inno del Risorgimento triestino, Viva san Giusto, è tratto dal finale del prologo di un’opera, Marinella, composta da Giuseppe Sinico e rappresentata per la prima volta al Teatro Mauroner di Trieste il 26 agosto 1854:

Viva San Giusto! Trofeo di gloria

quest’è il vessillo che guida a vittoria.

[...]

Cadrà l’orgoglio dell’oppressor,

e a questa nostra bianca alabarda

ci ricongiunga fratelli ognor!¹⁷

17Ibidem.

II. «Guvernu ’talianu è veru buttanu». Dalla parte dei reazionari

Nella primavera del 2003, allorché ai discendenti di casa Savoia viene concesso di tornare in Italia dopo oltre mezzo secolo di esilio, il contestato erede al trono Vittorio Emanuele, la moglie Marina Doria e il principe Emanuele Filiberto scelgono Napoli quale prima tappa del loro rientro. Nella città partenopea, a ricevere i virtuali eredi al trono del Regno d’Italia, c’è un colorito corteo nel quale si contano, oltre agli estasiati nostalgici della monarchia sabauda, gli eredi del fascismo che non avevano ancora perdonato a casa Savoia l’arresto di Benito Mussolini il 25 luglio del 1943, i disoccupati napoletani e curiosi a vario titolo. Certamente però in quella inconsueta manifestazione il gruppo più singolare è rappresentato dai nostalgici dei Borboni che, dopo un secolo e mezzo, contestano ancora ai discendenti dei Savoia l’annessione delle Due Sicilie al Regno d’Italia. Riuniti sotto sigle come l’«Associazione culturale Due Sicilie» o il «Comitato antiSavoia» e accompagnati da stendardi e bandiere, i fedelissimi della casa borbonica accusano i Savoia di essere gli eredi di quegli «assassini» che avevano trucidato il popolo del Sud durante la spedizione dei Mille e negli anni postunitari.

Contraria alla fine del principio assolutistico, quella assemblea di nostalgici dei Borboni era costituita dai discendenti di coloro che, a cominciare dalla Rivoluzione francese, si erano opposti ai principi liberali e avevano mandato al patibolo non pochi giacobini partenopei. E i cui padri, ancora, avevano probabilmente intonato una delle più note canzoni antifrancesi ai tempi della Repubblica partenopea assai popolare lungo tutto il corso dell’Ottocento:

Viva, viva Ferdinando

Nostro padre, nostro re,

viva ancora Carolina

nostra madre la regina

Tutti, tutti li Frangisi

Avimmo nui d’ammazzare,

è finita l’eguaglianza,

è finita la libertà

Viva Dio e sua maestà,

li giacobini fora de ccà

li cardinale ci ha salvato,

l’ha aiutato mamma Maria.¹⁸

18 Anche per questo capitolo, laddove non diversamente indicato, i testi proposti sono tratti da R. Leydi, Canti sociali italiani, vol. I: Canti giacobini, repubblicani, antirisorgimentali, di protesta postunitaria, contro la guerra e il servizio militare, Edizioni Avanti!, Milano 1963.

Oppure avevano cantato il ritornello del più famoso e diffuso inno antigiacobino, quello stesso motivo i cui versi sono ancora oggi proposti dai vari siti internet dei nostalgici dei Borboni:

A lu suono de le campane

viva viva li populane

a lu suono di li viulini

sempre morte a’ giacobini.

Anche versi ironici e parodie accompagnano la calata dei francesi in Italia. Così, in un canto dal sapore goliardico, vengono per esempio esaltati i valori della fede cattolica e, all’opposto, messi alla berlina quelli del giacobinismo:

È venuto lu papa santu,

ch’ha portato li cannoncini

p’mazza li giacobini;

et voilà et voilà

caici in culu a li libbertà

[...]

liberté, egalité, fraternité,

tu rubbi a me, io rubbo a te.

La tradizione dei canti sanfedisti, di coloro cioè che si proclamavano difensori della «santa fede» minacciata dalle idee rivoluzionarie, comincia proprio con l’arrivo delle truppe napoleoniche in Italia. Mentre i fautori dei principi della libertà, della uguaglianza e della fraternità cantano La Marsigliese, i loro oppositori gridano morte ai giacobini e si stringono attorno al papa o ai sovrani assolutisti. È quella tradizione di chi si riconosce nel cardinale Ruffo che, nel 1799, pone fine all’esperienza della Repubblica partenopea. È, ancora, quella tradizione che si oppone alle rivoluzioni liberali del 1830 e del 1848 e che inneggia al brigantaggio opponendosi agli eserciti del Regno d’Italia.

In Toscana, alla fine del Settecento, i contadini si contrappongono ai simpatizzanti francesi al grido di battaglia di «Viva Maria», intonando strofe che invocano gli austriaci e la Russia zarista, uniti nella comune lotta contro il francese:

Viva l’Austria che ci tolse

alle barbare ritorte

viva il russo che diè morte

della Gallia ai rapitor.

Le sollevazioni contadine contro i francesi e i seguaci italiani dei giacobini, le cosiddette «insorgenze», sono un fenomeno che percorre gran parte del periodo napoleonico in Italia, ma lascia tracce lungo tutto il corso del Risorgimento. Sono testimonianza di chi non si rassegna alla nascita dello Stato unitario e alla scomparsa della alleanza fra trono e altare. Se ne rinvengono tracce durante le Cinque giornate di Milano, allorché i contadini lombardi intonano strofe che inneggiano ai militari austriaci:

Viva Radeschi e viva Matternich

morte ai sciuri e viva i puveritt.

Negli stessi anni, dopo la sconfitta nella Prima guerra di indipendenza che obbliga Carlo Alberto ad abdicare al trono, al Piemonte dei Savoia i veronesi dedicano queste irriverenti strofe:

I piemontesi son partiti

con la piva nel suo saco,

Carlo Alberto è un gran macaco

ch’el vogliamo fusilar.

Neppure Garibaldi si sottrae alla berlina di quanti dall’eroe dei due mondi non si sentono liberati, ma sottoposti a un nuovo ordine che non accettano. A Bari, per esempio, dopo la caduta dei Borboni si cantano strofe contro il generale della spedizione dei Mille, ma anche contro Vittorio Emanuele, il re d’Italia:

Nun velìme Manuèle

e manghe Garabàlde

nu velìme u prengepine

ca iè figghie a Marì Crestine.¹⁹

19 «Non vogliamo Emanuele / e neanche Garibaldi / noi vogliamo il principino / che è figlio di Maria Cristina».

L’arrivo delle truppe napoleoniche in Italia non contribuisce solo alla fioritura di una serie di motivi che accompagnano, lungo tutto l’arco dell’Ottocento, lo spirito antiunitario e antirisorgimentale, ma produce un genere destinato, nei due secoli successivi, a costituire uno dei filoni più prolifici: quello di intonazione antimilitarista. La Rivoluzione francese infatti, in ossequio alla affermazione del principio di uguaglianza e alla necessità di difendere i confini dello Stato nazionale, introduce la coscrizione e la leva militare obbligatoria per tutti i cittadini. Ha inizio il fenomeno della diserzione, al quale fa da colonna sonora quel filone di canti che accompagnerà le proteste antimilitariste fino al movimento pacifista della seconda metà del Novecento.

È Napoleone, ritenuto l’artefice della leva obbligatoria, il bersaglio principale di tutta una serie di canti che fioriscono un po’ ovunque nelle regioni italiane. In Toscana si ammonisce l’imperatore con questi versi: «Guarda Napoleone quello che fai / la meglio gioventù tutta la vuoi». Gli fa eco il Piemonte con una canzone molto simile: «Bonapart l’ha mandà a dire / ch’an da partire, ch’an da partire».

Prototipo di quei canti è considerato Partire, partirò (1799). L’autore è, con tutta probabilità, Anton Francesco Menchi, cantastorie e poeta assai popolare negli ambienti delle rivolte sanfediste della Toscana di fine Settecento. A lui si deve, fra l’altro, una parodia della Marsigliese nella quale il grido di «Viva Maria» risuona in ogni strofa.

L’edizione più conosciuta di quella canzone, che nell’Ottocento ebbe vari rimaneggiamenti e adattamenti fino a divenire una sorta di ideale inno antimilitarista, è pubblicata nel 1882 da Alessandro D’Ancona ed è particolarmente diffusa in Toscana.

Partire, partirò

Partire, partirò, partir bisogna

dove comanderà ’l nostro sovrano;

chi prenderà la strada di Bologna

e chi anderà a Parigi e chi a Milano.

Ah, che partenza amara,

Gigina cara, mi convien fare.

Vado alla guerra e spero di tornare.

Se il nostro imperator ce lo comanda

ci batteremo e finirem la vita,

al rullo dei tamburi, a suon di banda

farem del mondo l’ultima partita.

Ah, che partenza amara,

Gigina mia cara, Gigina mia bella,

di me non avrai più forse novella.

Negli anni postunitari la protesta contro le nuove leggi imposte dallo Stato sabaudo si esprime in forma ancora più violenta contro le tasse imposte dai nuovi governanti. E il governo è considerato alla stregua di una «puttana», come in un canto in dialetto siciliano risalente probabilmente agli anni immediatamente seguenti l’Unità.

Guvernu ’talianu è veru buttanu

Guvernu ’talianu è veru buttanu,

cci suca lu sangu a lu povir’omu;

li tassi chi metti su’ cosi trimenti,

chi fannu trimari li spaddi e li renti...

C’è tassa ppi tuttu: manciari e biviri,

vigghiari e durmiri, campari e muriri!

Ma cci su’ du’ cosi a chistu mumentu,

ca nun su’ suggetti a lu tassamentu!

Guvernu ‘talianu, ti ringraziu

chi per pisciare non si paga daziu

e chi per farsi ‘na ca-ca-cantata

nun c’è bisognu di carta bullata!

Cu’ l’occhi chini e a panza vacanti,

’na manu darreri e ’n’autra davanti;

Che’ peri scausi e i causi strazzati,

jemu girannu ‘ppi sti’ strati strati!

Semu arriddutti comu l’armi Santi,

nuri a lu ’nfernu ’nta lu focu ardenti;

e c’è di luntanu cu’ ni fa la cucca,

e tutti li cosi si cogghi e sa ’mmucca!²⁰

20 «Il governo italiano è proprio puttano, / succhia il sangue alla povera gente; / le tasse che mette sono cose tremende, / che fanno tremare le spalle e i denti... / C’è una tassa per tutto: mangiare e bere / vegliare e dormire, campare e morire! / Solo due cose ci sono, fino ad ora, / che non sono soggette a tassazione! / Governo italiano, ti ringrazio / che per pisciare non si paga dazio, / e che per farsi una ca-ca cantata / non c’è bisogno di carta bollata! / Con gli occhi pieni e la pancia vuota, / una mano dietro e l’altra davanti; / con i piedi scalzi e le calze strappate, / andiamo girando qua e là! / Siamo ridotti come le anime sante, / nudi all’inferno in mezzo al fuoco ardente; / e c’è di lontano chi ci prende in giro, / e tutte le cose coglie e si mangia!»

III. Amore e amor di patria. L’opera lirica

«Viva l’Italia!, Viva la Repubblica!, Viva Verdi!». Con queste grida, ripetute ad alta voce, il pubblico accoglie la prima esecuzione della Battaglia di Legnano, tragedia lirica di Giuseppe Verdi, che si rappresenta a Roma il 27 gennaio 1849. Scene di questo tipo non sono inusuali nei teatri italiani dell’Ottocento. Anzi, spesso, nei territori ancora sotto il dominio dello Stato pontificio o dell’Impero asburgico la rappresentazione di un’opera lirica diviene pretesto per scatenare manifestazioni di carattere patriottico. Come generazioni di alunni hanno imparato sui banchi di scuola, le scritte sui muri dell’Italia ottocentesca che celebravano il grande compositore di Busseto («Viva V.E.R.D.I.») stavano per l’appunto a mascherare un più patriottico «Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia».

Di fatto buona parte della produzione melodrammatica italiana è intimamente legata alle vicende e alle aspirazioni risorgimentali. In un ideale Pantheon delle passioni civili ottocentesche Verdi, Donizetti, Bellini convivono accanto a glorie letterarie come Foscolo e Alfieri e a protagonisti dell’epopea risorgimentale come Mazzini e Garibaldi. Sotto questo profilo l’opera lirica rappresenta uno dei momenti più significativi del processo di costruzione della identità nazionale.

In realtà molte delle opere considerate di carattere patriottico furono composte dagli autori senza alcuna delle intenzioni civili e ideali che il pubblico più tardi avrebbe attribuito loro²¹. È solo verso la fine del primo cinquantennio dell’Ottocento, nel pieno di quella temperie che accompagna i moti nazionali del 1848, che opere scritte anni prima vengono dal pubblico rielaborate e caricate di significati prossimi al sentimento e alle aspirazioni del Risorgimento. Curiosamente si può dunque parlare con verosimiglianza di un involontario uso politico e civile del melodramma ottocentesco da parte di vari autori.

21 Per questa interpretazione cfr. più ampiamente: C. Sorba, Teatri. L’Italia del melodramma nell’età del Risorgimento, Il Mulino, Bologna 2001.

In questo contesto un caso del tutto particolare è però rappresentato da Giuseppe Verdi. È fuor di dubbio che, almeno per una parte della sua vita artistica, il compositore di Busseto abbia subito il fascino e l’influsso politico di Giuseppe Mazzini.

In un saggio scritto nel 1836, La filosofia della musica, il vate dell’idea repubblicana invocava una rigenerazione «progressista» della musica italiana e sollecitava i compositori italiani a dare più importanza al coro inteso come rappresentazione solenne dell’elemento popolare. Dall’incontro con Mazzini, Verdi fu non poco influenzato: proprio su richiesta dell’apostolo repubblicano scrisse un inno nazionale e, soprattutto, La battaglia di Legnano.

L’opera, unanimemente considerata la più patriottica del repertorio verdiano, rievoca le ultime fasi della lotta fra Federico Barbarossa e la Lega lombarda, fino alla battaglia di Legnano del 29 maggio 1176. La tragedia verdiana è percorsa da cori, cabalette e cavatine inneggianti al tema della patria oppressa e al desiderio di riscossa degli italiani. Come emerge già all’apertura del primo atto nel coro delle milizie cittadine: «Viva Italia! Un sacro patto / Tutti stringe i figli suoi...».

In un’opera scritta sull’onda emotiva suscitata dalle Cinque giornate di Milano e composta proprio con il proposito di esaltare quel particolare momento storico, non mancano però gli intrecci amorosi. Arrigo e Rolando, i due guerrieri della Lega lombarda unitisi per difendere Milano dal Barbarossa, si contendono Lida. Costei, un tempo amante di Arrigo, da lei creduto morto, è nel frattempo andata sposa a Rolando. Insidiata da Marcovaldo, prigioniero germanico, Lida è anche accusata dal marito Rolando di averlo tradito con Arrigo. Nel finale dell’opera, amore romantico e amor di patria si fondono nella scena in cui il morente Arrigo proclama dinanzi a Rolando l’innocenza di Lida e muore baciando il Carroccio, simbolo della Lega lombarda.

Oltre a La battaglia di Legnano, scritta con intenti esplicitamente patriottici, anche altre opere verdiane realizzate prima dell’incontro con Mazzini assunsero però una valenza di carattere politico. In particolare è Nabucco (1842), con le sue allusioni alla libertà e alla cacciata dell’oppressore, esplicita nella cabaletta di Zaccaria «Che sia morte allo stranier», a divenire l’opera simbolica dell’epopea risorgimentale. Il coro Va’ pensiero costituisce l’emblema della trasformazione di un brano melodrammatico in inno patriottico. Sullo sfondo del dramma si intrecciano due storie d’amore: quello paterno di Nabucco, re d’Assiria, per la figlia Fenena; e quello fra Fenena e Ismaele, nipote del re di Gerusalemme.

Nei Lombardi alla prima crociata, rappresentata per la prima volta alla Scala l’11 febbraio 1843, il sentimento civile risalta nella messa in scena di un fatto eroico che vede protagonisti gli antenati dei lombardi. Il patriottismo è esaltato attraverso l’analogia fra i milanesi alla vigilia delle Cinque giornate e i loro antenati («O guerrieri della croce / Su correte ai santi allori») che combattono per liberare Gerusalemme dal dominio musulmano. Ma è, soprattutto, il canto che i crociati innalzano con il ricordo rivolto alla patria lontana a esaltare l’orgoglio civico dei milanesi: «O Signore, dal tetto natio...». Anche questo dramma però si svolge sullo sfondo di complicati intrecci d’amore e di passioni. A cominciare da quello di Oronzo che fugge dal suo esercito per ritrovare l’amore perduto di Giselda, dichiarato in uno dei più celebri duetti del terzo atto: «Teco io fuggo».

Un intreccio di amori ancora più complicato è in Ernani (1844), ambientata nella Spagna del Cinquecento, che tocca corde sensibili ai temi risorgimentali, soprattutto nel coro Si ridesti il Leon di Castiglia, in cui si rende solenne la rivolta dei congiurati contro Don Carlo, il re usurpatore. Ernani si innamora di Elvira, nipote di Don Ruy Gomez De Silva, grande di Spagna, al quale è stata promessa in sposa. E, per sfuggire alla promessa di matrimonio con il vecchio zio, Elvira, che ricambia l’amore di Ernani, lo implora di salvarla («Ernani [...] Ernani involami»). Ma della bella Elvira si innamora anche don Carlo, re di Spagna, al quale però la fanciulla resiste, pronta a suicidarsi per difendere il proprio onore. L’opera, secondo i consolidati moduli del romanticismo, si conclude con il suicidio di Ernani sul cui corpo si accascia, affranta, Elvira.

Se Giuseppe Verdi incarna l’ideale rapporto fra opera lirica e Risorgimento, il pubblico ottocentesco tributa onori di carattere patriottico anche ad altri compositori. I temi cari alle speranze risorgimentali sono presenti in alcune opere di Gioacchino Rossini come L’italiana in Algeri, nel rondò Pensa alla Patria e in Guglielmo Tell, che rievoca il tema della Svizzera oppressa dal dominio asburgico e la ritrovata libertà dopo la cacciata dello straniero. Anche il coro dei Druidi della Norma di Vincenzo Bellini, con le sue esplicite invocazioni alla ribellione dei galli contro il giogo degli oppressori romani, viene adottato come inno patriottico.

Stessa sorte tocca a un’altra opera di Bellini, I Puritani, messa in scena per la prima volta a Parigi il 24 gennaio 1835. Ambientato al tempo delle lotte fra cattolici e puritani nell’Inghilterra del 1600, il lavoro belliniano diventerà anni più tardi uno degli inni del Risorgimento, soprattutto nel duetto di Riccardo e Giorgio:

Suoni la tromba, e intrepido

io pugnerò da forte.

Bello è affrontar la morte

gridando: libertà.

Presentata al pubblico nel 1826, Caritea regina di Spagna di Saverio Mercadante diviene un popolare inno risorgimentale anche perché, a quanto narrano le cronache, il più celebre coro dell’opera sarebbe stato intonato dai fratelli Bandiera prima della loro esecuzione:

Chi per la patria muor

vissuto è assai;

la foglia d’allor

non langue mai

piuttosto che languir

sotto i tiranni

è meglio morir

sul fior degli anni.

Nella produzione ottocentesca le citazioni degli ideali patriottici non traspaiono esplicitamente attraverso rinvii a luoghi, situazioni e personaggi del Risorgimento nazionale. Ma la condizione della «patria oppressa» è richiamata allusivamente attraverso una efficace trasfigurazione di periodi ed epoche lontane nella quale il pubblico identifica le condizioni dell’Italia sotto il dominio straniero. Né poteva essere altrimenti con regimi come quello asburgico, o quello pontificio, pronti a intervenire con tagli e censure preventive di fronte a qualunque riferimento diretto alla situazione politica.

È il pubblico che trasporta idealmente le allusioni del melodramma da epoche lontane alla realtà del Risorgimento. Il popolo di Israele oppresso dal re babilonese Nabucodonosor nel 587 a.C., gli svizzeri che lottano contro il dominio degli austriaci in età medioevale nel Guglielmo Tell, o la ribellione dei galli contro il giogo degli oppressori romani rievocata in Norma diventano, nella coscienza civile del pubblico, situazioni che esprimono il desiderio di libertà e della cacciata dello straniero dall’Italia della seconda metà dell’Ottocento.

In ogni epoca e a ogni latitudine il sentimento della nazione oppressa cantato nel melodramma si trasforma in una identificazione con la patria italiana ed è destinato a suonare come il ritornello del più popolare inno risorgimentale, l’Inno a Giuseppe Garibaldi, con le sue invocazioni alla cacciata dello «stranier!».

Ma nel popolare inno dedicato all’eroe dei due mondi è assente qualunque riferimento ad amori e affetti domestici largamente presenti invece nell’opera lirica. Amore e amor di patria si intrecciano piuttosto nel melodramma ottocentesco. E in taluni casi, anche in opere scopertamente patriottiche, è il primo a prevalere sul secondo.

Emblematica al proposito è Tosca che, tratta dall’omonimo romanzo di Sardou, Puccini mette in scena per la prima volta il 14 gennaio 1900 al Teatro Costanzi di Roma. I due atti del dramma sono ambientati nella Roma del 1800: dopo la soppressione del potere temporale dei papi e la proclamazione della Repubblica, le truppe borboniche, approfittando dell’allontanamento dell’esercito napoleonico per la spedizione in Egitto, invadono Roma, abbattono la Repubblica e processano i suoi esponenti.

La rappresentazione dei personaggi e delle situazioni corre sul filo dell’epopea risorgimentale: la rievocazione della battaglia di Marengo, dove risultarono vincitrici le truppe napoleoniche contro quelle austriache («Vittoria, Vittoria! / L’alba vindice appar / che fa gli empi tremar! / Libertà sorge, crollan / tirannidi!»); l’odiosità con la quale vengono rappresentati i «nemici» della libertà, da Scarpia a Spoletta a Sciarrone; e, all’opposto, la simpatia che circonda Cavaradossi, pittore di sentimenti liberali, e Tosca, sua amante, ne fanno un dramma in cui è possibile rintracciare alcuni degli ingredienti che avevano fatto la fortuna del dramma di tipo risorgimentale. Tuttavia, nell’immaginario degli italiani Tosca è sempre stata vissuta non per i richiami di natura patriottica, ma come la tragica storia d’amore fra Tosca e Cavaradossi.

Il rapporto simbiotico fra alcune arie del melodramma e l’epopea risorgimentale è poi ridiffuso anche da alcuni momenti solenni che contribuiscono a precisare ulteriormente l’opera lirica come forma musicale patriottica. Nella festa dello Statuto le bande e le fanfare intonano, assieme alla Marcia reale e all’Inno di Garibaldi, arie di Verdi, Bellini e Rossini. Questo spiega il fenomeno non insolito di persone analfabete che avevano purtuttavia una certa familiarità con il melodramma. Certo, si trattava di una dimestichezza non tanto con le intere opere bensì con motivi, arie celebri e singoli personaggi. Ma tanto bastava perché il sentimento patrio raggiungesse, sia pure in forme ridotte e approssimative, gli strati popolari.

La popolarità del melodramma è certamente attribuibile alla evocazione del sentimento patrio, ma anche al suo immancabile intreccio con legami affettivi e situazioni amorose. Amore e amor di patria per l’appunto, secondo uno schema classico del periodo romantico. Mogli, madri, amanti, spose promesse e spose mancate affollano i drammi ottocenteschi e intrecciano le loro vicende con quelle della rivendicazione di terre natìe, di regni perduti o riconquistati.

Questo intreccio spiega non solo la popolarità dei grandi compositori ottocenteschi, ma anche quella di alcune canzoni risorgimentali che sembrano ricalcare gli stessi moduli del melodramma. Per parafrasare uno dei luoghi comuni più diffusi sull’Italia ottocentesca, accanto a una canzone dell’Italia «legale», tramandataci dalle cerimonie ufficiali, dai manuali scolastici e dalle liturgie nazionali, esiste una canzone dell’Italia «reale». Per il Risorgimento – ma il discorso vale anche per altri periodi – la retorica nazionalista ci ha consegnato una immagine spesso falsata delle canzoni di carattere patriottico. Soldati in marcia, vessilli spiegati, supremi sacrifici ed eserciti di combattenti sono situazioni ricorrenti nei motivi intonati nelle parate militari o nelle occasioni ufficiali. Ma la marzialità di quei motivi non penetra che superficialmente nell’immaginario popolare. Non a caso la canzone più popolare del nostro Risorgimento nazionale non contiene se non allusivamente riferimenti di carattere politico. Si tratta infatti di una canzone d’amore: La bella Gigogin.

Canzonetta scritta dal milanese Paolo Giorza, autore di ballabili, è eseguita per la prima volta il 31 dicembre 1858 al Teatro Carcano di Milano in occasione di un concerto della banda civica. Il successo è immediato, tant’è che viene replicata ben otto volte su richiesta del pubblico in sala. Immediata è anche la sua investitura di carattere patriottico: La bella Gigogin, infatti, risuona in occasione della Seconda guerra di indipendenza nel 1859 e l’anno dopo è sulle bocche dei garibaldini durante la spedizione dei Mille. Accompagna poi tutte le vicende che seguono la formazione dello Stato nazionale e trascina la sua popolarità anche nel Novecento, fino a essere considerata come un possibile inno nazionale.

La bella Gigogin

Rataplan! Tamburo io sento

che mi chiama alla bandiera.

Oh che gioia, oh che contento,

io vado a guerreggiar.

Rataplan! Non ho paura

delle bombe e dei cannoni:

io vado alla ventura,

sarà poi quel che sarà.

Oh, la bella Gigogin,

col tromilerillellera,

la va spasso col so’ spincin [fidanzatino],

col tromilerillerà!

Di quindici anni facevo all’amore...

Dàghela avanti un passo,

delizia del mio core!

A sedici anni ho preso marito...

Dàghela avanti un passo,

delizia del mio core!

A diciassette mi sono spartita...

Dàghela avanti un passo,

delizia del mio cor!

La ven, la ven,

la ven alla finestra,

l’è tutta, l’è tutta,

l’è tutta insipriata!

La dis, la dis,

la dis che l’è malada

per non, per non,

per non mangiar polenta!

Bisogna, bisogna,

bisogna aver pazienza,

lassalla, lassalla,

lassalla maridà!

Mi baciò, mi baciò il bel visetto.

Ciacciaccià!

Io le dissi, io le dissi: che diletto!

Ciacciaccià!

Là più in basso, la più in basso, in quel boschetto,

andaremo, andaremo a riposà!

È pur vero che La bella Gigogin recita un ritornello («dàghela avanti un passo») che alla vigilia della Seconda guerra di indipendenza può suonare come monito e allusione ai tentennamenti del Piemonte sabaudo. Ed è altrettanto vero che altri versi contengono un vago richiamo al sentimento patriottico: «Rataplan! Tamburo io sento / Che mi chiama alla bandiera». Tuttavia, la canzone evoca pur sempre una storia d’amore («Di quindici anni facevo all’amore [...] / A sedici anni ho preso marito»), cantata sull’aria di un brioso ritmo di polka²².

22 Sulle vicende di questa canzone cfr. più ampiamente R. Monterosso, La musica nel Risorgimento, Vallardi, Milano 1948, pp. 195-198.

Del resto anche Il pover Luisin, risalente al periodo della Seconda guerra di indipendenza e scritto probabilmente nel 1859, è un motivo non retorico nel quale si reclama la serenità degli affetti amorosi e familiari di fronte alla crudeltà della guerra. La canzone, scritta in dialetto lombardo, nella sua traduzione italiana racconta di «un bel ragazzo / e un mazzolino di rose» e della sua tragica fine: «son già passati tre anni,/ è morto, non lo vedo più, / eppure questo povero cuore/ è qui ancora per lui». È, in definitiva, un motivo che canta la disperazione di un amore perduto a causa della guerra.

Il pover Luisin

Un dì per sta cuntrada

pasava un bel fiö

e un masulin de ros

l’ha trà in sül me pugiö

e un masulin de ros

l’ha trà in sül me pugiö.

E per tri mes de fila

e squasi tüti i dì,

el pasegiava semper

dumà per vedèm mi

el pasegiava semper

dumà per vedèm mi.

Vegnü el cinquantanöv,

che guera desperada!

e mi per sta cuntrada

l’hu pü vedù a pasà

e mi per sta cuntrada

l’hu pü vedù a pasà.

Un dì piuveva, vers sera,

s’ciupavi del magun

quand m’è rivà ’na lètera

cul bord de cundiziun

quand m’è rivà ’na lètera

cul bord de cundiziun.

Scriveva la surela

del pover Luisin

che l’era mort in guera

de fianc al Castelin

che l’era mort in guera

de fianc al Castelin.

Hin già pasà tri an,

l’è mort, el vedi pü,

epür stu pover cör

l’è chi ancamò per lü

epür stu pover cör

l’è chi ancamò per lü.²³

23 «Un giorno per questa contrada / passava un bel ragazzo / e un mazzolino di rose / ha gettato sul mio balcone / e un mazzolino di rose / ha gettato sul mio balcone. / E per tre mesi di seguito / e quasi tutti i giorni / passeggiava sempre / soltanto per vedermi / passeggiava sempre / soltanto per vedermi. / Venuto il cinquantanove, / che guerra disperata! / e per questa contrada / non l’ho più visto passare / e per questa contrada / non l’ho più visto passare. / Un giorno pioveva, verso sera,/ scoppiavo col magone / quando m’è arrivata una lettera / bordata di nero a lutto / quando m’è arrivata una lettera / bordata di nero a lutto. / Scriveva la sorella / del povero Luigino / che era morto in guerra / di fianco al Castellino / che era morto in guerra / di fianco al Castellino. / Son già passati tre anni,/ è morto, non lo vedo più, / eppure questo povero cuore / e ancora qui per lui / eppure questo povero cuore e ancora qui per lui.»

La celebrità di La bella Gigogin e Il pover Luisin non deve stupire. Deve semmai far riflettere sullo scarto di popolarità fra le canzoni d’intonazione patriottica e quelle di impianto antiretorico nelle quali prevale il mondo degli affetti domestici. Un sentimento «antico» come quello dell’amore si intreccia, nell’Ottocento, con uno «nuovo»: l’amor di patria. Gli affetti privati e familiari diventano tutt’uno con il sentimento nazionale. La famiglia e il microcosmo attorno al quale essa ruota divengono anche la rappresentazione pubblica di un sentimento privato: il grembo del microcosmo familiare (madri, mogli, fidanzate e figli) è evocato come una piccola patria. Mentre nella canzone dell’Italia «legale», espressa dagli inni patriottici come Fratelli d’Italia o l’Inno di Garibaldi, non c’è posto per la dimensione privata, in quella dell’Italia «reale» prevalgono sentimenti, amori e affetti²⁴.

24 E. Franzina, Inni e canzoni, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 116-162.

Come nell’opera lirica. Ma anche come nella Bella Gigogin o nel Pover Luisin.

IV. «Far nazioni» e «far canzoni». Gli inni nazionali

Il 24 maggio 1862 all’Her Majesty’s Theatre di Londra, in occasione dell’Esposizione Universale, viene eseguito l’Inno delle Nazioni. Composto da Giuseppe Verdi, l’inno comprende una introduzione, un coro, un solo di soprano e un finale nel quale si sovrappongono God Save the Queen, La Marsigliese e Fratelli d’Italia. Vera e propria anticipazione di un inno europeista, quella esecuzione non solo suona come un omaggio del grande compositore di Busseto alle nazioni liberali dell’Europa ottocentesca, ma sancisce l’ormai avvenuta adozione degli inni nazionali come parte costitutiva dell’apparato rappresentativo e simbolico delle nazioni.

Gli inni nazionali si diffondono a partire dalla fine del XVIII secolo come espressione dell’idea di Stato-Nazione, conseguenza dei processi politici e culturali innescati dalla Rivoluzione francese, e fanno parte di quell’apparato di simboli e di codici che definiscono la rappresentazione estetica ed emotiva dello Stato nazionale: la bandiera, le uniformi dell’esercito, i miti nazionali e, per l’appunto, l’inno.

In realtà, parafrasando Eric Hobsbawm, se l’Ottocento può essere definito come il secolo del «far nazioni», nondimeno è il secolo del «far canzoni». Canzoni che, come la letteratura, le tradizioni folkloriche o la lingua, devono in un certo modo rappresentare il sentimento intimamente legato alla formazione delle comunità nazionali. Gli inni costituiscono dei preziosi documenti, non solo musicali, che ci testimoniano i difficili percorsi della affermazione dello Stato-Nazione e delle dialettiche politiche che si sviluppano al loro interno.

Esemplificativa al proposito è la vicenda di Fratelli d’Italia, la cui storia inizia l’8 settembre 1847 allorché l’autore stende in poche ore le strofe del futuro inno nazionale italiano²⁵. Il canto degli italiani, questo il titolo all’origine, comincia a circolare nel dicembre del 1847, stampato in fogli volanti, e qualche mese più tardi risuona sulle barricate delle Cinque giornate di Milano.

25L’inno di Mameli musicato da Michele Novaro. Con note raccolte da A. Pastore e la musica trascritta pei giovinetti da G. Ferrari, Stab. Tip-Lit. dell’Annuario Generale d’Italia, Genova 1889, p. 46.

Il canto degli italiani(Fratelli d’Italia)

Fratelli d’Italia

l’Italia s’è desta

dell’elmo di Scipio

s’è cinta la testa;

dov’è la vittoria?

Le porga la chioma

che schiava di Roma

Iddio la creò.

Stringiamoci a coorte,

siam pronti alla morte:

Italia chiamò.

Noi siamo da secoli calpesti e derisi,

perché non siam popolo,

perché siam divisi:

raccolgaci un’unica

bandiera, una speme;

di fonderci insieme

già l’ora suonò.

Stringiamoci a coorte,

siam pronti alla morte:

Italia chiamò.

Uniamoci, amiamoci:

l’unione e l’amore

rivelano ai popoli

le vie del Signore.

Giuriamo far libero

il suolo natio:

uniti per Dio,

chi vincer ci può?

Stringiamoci a coorte,

siam pronti alla morte:

Italia chiamò

Dall’Alpi a Sicilia

dovunque è Legnano;

ogni uom di Ferruccio

ha il core, la mano;

i bimbi d’Italia

si chiaman Balilla;

il suon d’ogni squilla

i Vespri suonò.

Stringiamoci a coorte,

siam pronti alla morte:

Italia chiamò.

Son giunchi che piegano

le spade vendute;

già l’aquila d’Austria

le penne ha perdute:

il sangue d’Italia

e il sangue polacco

bevè col Cosacco;

ma il cor le bruciò.

Stringiamoci a coorte,

siam pronti alla morte:

Italia chiamò.

Autore di quei versi è Goffredo Mameli, nato a Genova il 5 settembre 1827 e dunque, all’epoca, appena ventenne. Fervente mazziniano, Mameli sarebbe morto il 6 luglio del 1849, a seguito delle ferite riportate combattendo in difesa della Repubblica romana.

La biografia politica di Mameli non è elemento secondario per comprendere la fortuna di quei versi, che sarebbero stati riconosciuti come l’inno ufficiale della nazione italiana solo un secolo più tardi dalla loro originaria stesura. È pur vero che quelle strofe godono di una certa popolarità nei momenti più significativi che precedono l’Unità d’Italia: vengono cantate in occasione delle Cinque giornate di Milano, intonate durante la spedizione dei Mille e nel corso delle guerre di indipendenza. Tuttavia, al momento della proclamazione del Regno d’Italia è la Marcia reale del capobanda del Reggimento Savoia, Giuseppe Gabetti, a essere elevata al rango di inno nazionale.

In realtà, a partire dall’epilogo unitario, la Marcia reale e Il canto degli italiani convivono secondo percorsi paralleli a esprimere le due principali ispirazioni del Risorgimento. Se la marcia del capobanda Gabetti continua a essere suonata nelle occasioni ufficiali, i versi di Mameli sono invece cari a quanti non si riconoscono nell’epilogo moderato del Risorgimento nazionale. E, fra questi, verosimilmente lo stesso Giuseppe Verdi che, sia pure in maniera non sempre coerente, aveva mostrato in più di una occasione un’aperta simpatia per le idee repubblicane. Da qui la preferenza del compositore di Busseto per l’inserimento nell’Inno delle Nazioni del Canto degli italiani anziché della Marcia reale in occasione della Esposizione Universale di Londra.

Certo, l’identificazione del suo autore con gli ambienti del repubblicanesimo non deve avere giovato alla fortuna dell’inno nel periodo monarchico. Ma da dove traspariva l’impronta antimoderata dell’inno di Mameli? A ben guardare, la cifra del repubblicanesimo, o forse meglio sarebbe dire del giacobinismo di Mameli, si coglie in una serie di riferimenti più storici che immediatamente politici. In definitiva in quei richiami ai modelli del classicismo che la Rivoluzione francese aveva eletto a rappresentazione non solo estetica degli ideali rivoluzionari.

Già nella strofa iniziale, secondo uno schema della classicità allora assai in voga nella simbologia repubblicana, la prima citazione storica è dedicata alla figura di Scipione l’Africano («Dell’elmo di Scipio / s’è cinta la testa»). Con tutta evidenza si tratta del richiamo a un personaggio che non solo aveva contribuito a rafforzare il primato di Roma, ma aveva anche rappresentato un momento di apertura ideale contro il tradizionalismo. In questo senso l’evocazione di Scipione, secondo l’uso della storia elaborato dai rivoluzionari francesi, sta a significare l’elevazione dell’epopea classica a modello di una società nuova. In particolare Scipione simboleggia non già la Roma dei Cesari, ma, secondo la vulgata del classicismo giacobino, la grandezza e il riscatto del popolo romano nei confronti dei cartaginesi di Annibale.

Né la citazione di Scipione costituisce l’unico debito di Mameli nei confronti di quella cultura della Rivoluzione francese cara agli eredi italiani del giacobinismo. Fin troppo evidente è nel verso «Stringiamci a coorte...» l’evocazione della Marsigliese («Formez vos bataillon...»).

Mal si adatta dunque a rappresentare il sentimento dell’unità nazionale, avvenuta sotto l’egida della monarchia sabauda, un inno che contiene riferimenti troppo evidenti a una rivoluzione che aveva decapitato nobili e teste coronate. Ma l’ispirazione repubblicana dell’inno si coglie ancor più chiaramente nella quarta strofa, che costituisce un condensato di quei riferimenti storici che l’idea e l’etica repubblicana ottocentesca considerano come gli antecedenti più significativi dell’idea di italianità. Fuor di metafora i richiami sono alla battaglia di Legnano che, con la sconfitta di Federico Barbarossa, nel 1176, segna una delle premesse della affermazione politica dei comuni italiani; e a Francesco Ferrucci, nel testo «Ferruccio», il comandante dell’esercito della repubblica fiorentina del 1530 celebrato come uno dei precursori dell’idea di repubblica. Quindi l’evocazione di Balilla, che il 5 dicembre 1746 dà inizio alla rivolta genovese contro gli austriaci, per concludere con la citazione dei Vespri siciliani che, fra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, consentono la cacciata dei francesi dalla Sicilia.

L’inno di Mameli esalta dunque non già il ruolo delle dinastie, ma, coerentemente alla ispirazione mazziniana, quello dei «popoli». Questo spiega perché, durante l’unificazione, ad esso veniva preferita la Marcia reale del Gabetti, vera e propria esaltazione della dinastia sabauda: «Viva il Re! Viva il Re! Viva il Re! / Chinate o reggimenti le bandiere al nostro re / [...] Bei figli d’Italia gridate evviva il Re!».

La «sfortuna» di Fratelli d’Italia nel corso dell’Ottocento non si limita alla sua mancata adozione come inno nazionale, ma anche alla sua scarsa popolarità rispetto ad altri canti risorgimentali. I motivi più popolari che accompagnano le guerre d’indipendenza, la spedizione dei Mille o le Cinque giornate di Milano derivano, per gran parte, o dalla citazione delle più popolari arie del melodramma o dalla tradizione del patrimonio folklorico regionale.

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