Capitolo V.

Varietà e monotonia del cibo

Il cibo di tutti i giorni e il cibo del dì di festa. Se verso il 1250 qualcuno, un po’ ottimisticamente, aveva pensato che la fame fosse un problema ormai superato, per tutta l’Età moderna essa, vissuta o temuta, rappresentò al contrario un’esperienza centrale nella vita di larghissima parte della popolazione. All’arricchirsi della varietà di cibi corrispose, paradossalmente, per i ceti più bassi, una maggior monotonia della dieta e un impoverimento del suo apporto nutritivo. Mais e patate concorsero ad ampliare la tipologia e, grazie alle loro alte rese, anche la quantità delle risorse disponibili. Nel complesso ciò contribuì ad attutire l’impatto dei cattivi raccolti. Insomma, mais e patate evitarono a molti di morire letteralmente di fame217. Resero inoltre possibile sfamare più bocche coltivando gli stessi appezzamenti di terra, o tirare a campare con un salario più misero. Favorirono così l’aumento demografico. Da un lato infatti la loro introduzione contribuì ad attenuare le crisi di sussistenza e la mortalità ad esse collegata; dall’altro rappresentò un ampliamento delle risorse disponibili che ebbe effetti positivi sulla nuzialità e sulla fecondità: quando c’era di che vivere, le persone erano più libere di sposarsi e di mettere al mondo dei figli. Ma questi indubbi vantaggi si ottennero a caro prezzo: mais e patate contribuirono al sensibile peggioramento della qualità dell’alimentazione della maggioranza degli europei che caratterizzò il periodo qui analizzato. Non a caso, allora, varie ricerche confermano che tra la metà del Settecento e i primi anni dell’Ottocento – in un’epoca cioè di rapida crescita demografica, di forte aumento della pressione sulle risorse alimentari disponibili, di impennata dei prezzi del cibo, di caduta dei salari reali e di deterioramento della dieta delle masse – la statura media degli europei si abbassò di qualche centimetro. In base ai risultati di uno studio, i tedeschi, all’inizio del XIX secolo, sarebbero stati addirittura più bassi dei loro antenati vissuti alla fine del Medioevo! E poiché a peggiorare fu l’alimentazione dei ceti inferiori (che comunque rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione), non stupirà scoprire che nel Settecento la statura media delle élites europee, a quanto è dato di sapere, non diminuì affatto, e in alcuni casi anzi si innalzò218.

Sarebbe tuttavia scorretto pensare all’alimentazione popolare e contadina d’Età moderna solo come a un regime di assoluta deprivazione. Grande amante dei piaceri della vita, Ménétra nel suo Journal ricorda spesso pasti tutt’altro che disprezzabili. Riesce anzi ad assicurarsene qualcuno piacevole addirittura quando finisce in carcere: amanti e amiche «vengono spesso a portarmi un buon pranzetto, che ci mangiamo insieme», scrive in proposito219. Ma anche a chi è meno fortunato o di indole meno godereccia l’alimentazione può offrire almeno qualche motivo di soddisfazione.

Anzitutto ci sono momenti di festa e di abbondanza: i banchetti nuziali, le festività religiose oppure le feste legate al raccolto. Goethe ci informa ad esempio che a Napoli il Natale è un vero e proprio tripudio alimentare220. Verso il 1640 nello Yorkshire «è consuetudine di molti luoghi, alla fine del raccolto dei piselli e delle granaglie, invitare a cena tutti i braccianti e le loro mogli (che li hanno aiutati nel raccolto); nel corso di questa vengono loro offerti budini, pancetta, o manzo bollito, carne o torta di mele, e poi viene portata della panna in grandi piatti e a ognuno se ne dà un cucchiaio; in seguito vengono serviti dolci caldi e birra. Infatti a quell’ora si fanno cuocere delle torte e si procura della birra: alcuni tagliano il dolce e lo intingono nella panna, così che la festa vien chiamata vaso o secchio di panna»221.

Ma anche la dieta di tutti i giorni, per quanto povera, non era necessariamente improntata alla più totale frustrazione del palato. Era noto e praticato l’uso di odori e di piante aromatiche come aglio, cipolla, maggiorana, menta, prezzemolo, salvia, rosmarino, finocchio, anice, coriandolo, ginepro ecc. che potevano rendere gradevoli anche cibi molto poveri. «Non mi sembrarono cattive, né mal preparate», disse Jouvin de Rochefort delle rape che gli avevano offerto i bovari tirolesi, quasi meravigliandosi di averle mangiate con gusto222. Nella preparazione del cibo le donne del popolo a cui spettava il compito di cucinare potevano esplicare le loro abilità e i ­loro saperi. Ma ovviamente non potevano fare miracoli quando non avevano nulla da mettere in pentola o quando i cibi disponibili, oltre ad esserlo in misura limitata, costringevano ad una monotonia che finiva per provocare gravi carenze e malattie. Chissà quante avranno provato e riprovato a fare il pane con le patate, sperimentando diverse misture e spaccandosi la testa sul problema ben più di Monsieur Parmentier!

Comunque, quegli stessi orti e giardini in cui i nuovi prodotti vennero all’inizio sperimentati, diffusissimi in campagna e presenti, seppur in misura limitata, anche in molte città, ospitavano frutta, verdure ed erbe che rappresentavano un importante contributo al regime alimentare.

Comuni erano le zuppe (condite con un po’ di burro, lardo, strutto o olio e se possibile arricchite con un po’ di carne) che pote­vano essere fatte con cipolle, legumi, cavoli, patate, rape ecc., spesso mescolati a cereali o pane duro. Rape e cavoli erano presenti in tutt’Europa: in quella centro-settentrionale, dove d’inverno era difficile avere verdure fresche, i crauti erano insostituibili. In Polonia l’importazione di ortaggi per il brodo pare si debba alla regina Bona Sforza d’Aragona, moglie del re Sigismon­do I Jagellone nella prima metà del Cinquecento, cui pare si debba anche l’introduzione della lattuga. Non a caso il termine polac­co usato per definire gli ortaggi da brodo (dall’Ottocento impiegato anche nell’accezione di verdure in generale) è w¢oszczyzna dal polacco W¢ochy, cioè Italia. Dall’Italia, d’altronde, erano stati importati anche il cavolo, la rapa, le carote, la barbabietola, i piselli e il cavolfiore. Conosciute in Polonia dal XIV secolo, tali verdure hanno in effetti nomi per la maggior parte derivati dall’italiano, così come porri, cipolle, asparagi, fagioli, zucchine ed insalata. Il loro diffondersi nella dieta polacca è stato un processo graduale: nel XIX secolo i consumatori più poveri mangiavano solo cavoli, piselli, carote e rape223. Se, alla fine del periodo qui studiato, verdure ai nostri occhi tanto povere e banali in Polonia per alcuni erano ancora una rarità, nell’Europa meridionale abbondavano. Le insalate, in particolare, erano quasi immancabili: talvolta erano tutto quello che c’era da mettere sotto i denti. Secondo un testimone, la dieta dei contadini toscani, alla fine del periodo qui considerato, prevedeva tre pasti: uno composto di «bullie de blé de Turquie» e d’insalata, un altro di pane e fagioli o altri legumi bolliti e conditi con un po’ d’olio, il terzo di zuppa. Solo la domenica mangiavano un po’ di carne224.

Nell’Europa mediterranea, un altro elemento importante era rappresentato da olive, fichi secchi e frutta: sembra che certi contadini calabresi d’inverno tirassero avanti a pane e fichi225. Nel­l’Europa centro-settentrionale erano ampiamente consumate mele, pere, ciliegie: non di rado, soprattutto in Germania, si seccavano al forno per garantirne la conservazione. D’inverno potevano rappresentare addirittura un sostituto del pane. Significativamente in alcuni casi la diffusione di patate e mais portò a ridurne il consumo. Ma venivano utilizzate anche in preparazioni più sofisticate: se ne facevano marmellate, soprattutto in Polonia; in Germania si mangiavano cotte con il lardo o insieme alla carne. Il generale Luigi Ferdinando Marsili, catturato dagli Ottomani nel 1683 e finito schiavo di due poveri bosniaci, racconta che nella casa dei padroni la «maggior delizia [...] del gusto» era una vivanda «chiamata in turco ozaff» preparata bollendo nell’acqua prugne, mele e pesche (per il resto il vitto della famiglia – residente in un tugurio di legno tutto annerito dal fumo e costituita da quattro fratelli con mogli e numerosi figli – consisteva «solamente di focaccie [sic] di farina o di miglio o di avena», mentre «un piccolo bue» affumicato dopo la macellazione rappresentò, «mischiato con cavoli», il companatico per tutto l’inverno che Marsili passò in casa loro). Ma torniamo alla frutta. Accanto a quella fresca, c’erano i semi oleosi, che in molte zone rivestivano una notevole importanza per il loro apporto di grassi e calorie: mandorle, pistacchi, pinoli, nocciole, noci (da cui si traeva l’olio)226.

A parte pesca e caccia, non di rado di frodo, altri importanti apporti nutritivi derivavano dalla stalla e dal cortile. Come quella dell’orto, anche la gestione della corte era di solito un compito femminile. I contadini mangiavano abbastanza raramente polli e conigli, in genere riservati ai padroni o alla vendita, mentre usavano maggiormente le uova, anch’esse comunque in parte destinate al mercato e/o al proprietario della terra227.

In molte aree ad agricoltura mista anche la preparazione di burro e formaggio era un compito femminile: in Inghilterra, per esempio, dalle ragazze da marito ci si aspettava che fossero abili in tale attività228. Ma in altre zone si riteneva la lavorazione del latte un compito prettamente maschile, a volte addirittura centrale nella definizione della virilità: tra i Baschi di Sainte-Engrâce la preparazione del formaggio era riservata agli uomini maturi sessualmente. Preparazione del formaggio e procreazione erano infatti simbolicamente e linguisticamente associate: si credeva che il seme maschile facesse coagulare il mestruo nel ventre delle donne dando origine al feto, così come il caglio fa coagulare il latte formando il formaggio. Agli uomini anziani, non più in grado di generare, non era pertanto lecito andare nelle capanne sui monti a lavorare il latte. Restavano pertanto a casa, con donne e bambini, ai quali venivano assimilati229.

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