Capitolo V.

Dimmi quando mangi. Dimmi cosa mangi: ti dirò chi sei

Il pranzo è servito. Cibi cucinati da uomini, cibi cucinati da donne. Ma a che ora si mangia? Anche in questo caso non è possibile dare una risposta univoca. I più poveri probabilmente mangiano quando trovano qualcosa da mettere sotto i denti. Ma anche chi non è ridotto proprio in miseria non mangia per forza a ore fisse118. Un documento relativo alla corte di Mantova, probabilmente dell’inizio del Seicento, sembra insinuare che tutta la «gente bassa» non ha «regula alcuna» nel ritmo alimentare: sostiene infatti che proprio per questo motivo all’ultima delle tavole, quella destinata ai più umili tra i servitori, cioè carrozzieri, lettighieri e mozzi di stalla, «sempre vi dovrà essere formaggio, sallame, presuto [= prosciutto] et insallata». «Costoro non si curano niente di sapere il punto del mezzogiorno, né quello della mezzanotte. Di giorno travagliano, di notte dormono. Né tampoco sono solleciti dell’ora del pranzo e della cena. Mangiano quando hanno fame», conferma nel 1783 il gesuita Giulio Cordara. Il velato disprezzo per la gente del popolo che traspare da tali citazioni induce tuttavia a temperarne almeno in parte la portata119. In ogni caso anche ad altri livelli sociali il ritmo alimentare può essere rotto dalla possibilità di fare uno spuntino quando si ha fame. Il numero dei pasti e la loro cadenza non sono poi sempre gli stessi: chi lavora in campagna sa che durante i grandi lavori della mietitura o del raccolto si ha diritto ad un surplus alimentare, tanto che si può arrivare a sette pasti al giorno. In occasione di certi festeggiamenti si può poi stare a tavola per ore, se non per giorni interi120.

Fin dall’antichità tuttavia la regolarità dei pasti rappresenta un ideale: un ideale non solo dietetico, ma anche morale. L’assunzione di cibo a cadenze regolari è considerata infatti espressione di una condotta civile che si oppone ai comportamenti sfrenati e selvaggi. All’inizio dell’Età moderna talora se ne sottolinea anche l’utilità sociale. «Molte nazioni un tempo non prescrivevano alcun momento preciso per mangiare», scrive un autore. «Sarebbe difficile conciliare tale costume con lo svolgimento degli affari che si ha nei paesi civilizzati»121.

Anche trascurando tutti gli elementi citati sopra che, per un motivo o per l’altro, alterano o minano la regolarità dei pasti, è però evidente che in Età moderna non tutti mangiano lo stesso numero di volte, né alla stessa ora. La situazione inoltre è talvolta diversa a seconda delle stagioni. Si trasforma infine nel corso dei secoli. Procediamo dunque con ordine.

Verso la fine del Medioevo in Francia, che è forse il paese rispetto al quale siamo meglio informati, i popolani mangiano quattro o cinque volte (d’estate, quando le giornate sono più lunghe, ci può essere un pasto in più). I membri adulti dell’alta società fanno invece solo due pasti, dîner e souper. Tali pasti sono comunque per tutti quelli principali. Non è facile generalizzare, ma pare che chi non fa la prima colazione (déjeuner) pranzi verso le dieci, chi invece la fa, tra mezzogiorno e l’una. La cena si consuma prima che faccia notte, ma chi ha pranzato verso le dieci di mattina prima di cenare fa merenda (gouter). Già nel Cinquecento, invece, gli italiani di ceto elevato pranzano alle due e cenano alle nove di sera, dopo il teatro.

Nel corso del tempo, infatti, lo scarto orario tra i pasti dell’élite e quelli delle classi popolari si approfondisce. Mentre l’orario dei pasti popolari resta abbastanza stabile, quello dei pasti delle élites subisce un progressivo ritardo. Dalla metà del Cinquecento alla fine del Settecento a Parigi l’ora del dîner viene ritardata di circa otto ore: se nella prima metà del XVI secolo si pranza alle dieci, all’inizio dell’Ottocento lo si fa alle sei. E si cena verso le undici: il pasto serale subisce infatti un ritardo di circa sei ore. La provincia, tuttavia, si modernizza con più lentezza: anche una variabile regionale interviene così a complicare la già complessa mappa degli orari dei pasti.

Non è solo in Francia, comunque, che l’élite mangia sempre più tardi. In Inghilterra nel Seicento si pranza verso le undici, alle due di pomeriggio a metà del XVIII secolo. Ma i più mondani lo fanno addirittura alle cinque. E cenano verso mezzanotte. Certo sono casi limite. Nel Settecento però in tutt’Europa l’alta società passa le notti a teatro, in feste e balli. La mattina, pertanto, dorme a lungo e inevitabilmente pranza e cena molto tardi, tanto che finisce per avere ritmi di vita completamente diversi dal resto della popolazione122.

Cibi di qualità per gente di qualità. In Età moderna innumerevoli differenze attraversavano così la sfera dell’alimentazione. Ma i confini tra uomini e donne, adulti e bambini, servi e padroni, persone più o meno importanti, cittadini e contadini, non venivano disegnati solo attraverso le esclusioni e le inclusioni nella commensalità, attraverso la disposizione a tavola, la conoscenza o meno delle buone maniere, il possesso di piatti, bicchieri, posate, l’organizzazione delle cucine e del servizio a tavola, la concreta preparazione dei cibi, il fatto di essere allattati da una balia o dalla madre, l’orario dei pasti.

Tali confini venivano espressi e comunicati anche attraverso i cibi stessi. A lungo, infatti, si credette che ciascuno dovesse mangiare secondo la propria «qualità», con ciò intendendo non solo (e non tanto) secondo la propria costituzione, salute, età, ma (piuttosto) secondo la propria posizione sociale. «Morì con aspri duoli per non poter mangiar rape e fagiuoli», dice Giulio Cesare Croce del villano Bertoldo, costretto dalla sua inaspettata ascesa sociale alla corte di re Alboino a cibarsi solo di prelibatezze123. L’opera letteraria riprende una credenza diffusa e pervicace, nel suo evidente classismo.

Destinate a perdurare a lungo, le convinzioni relative al cibo appropriato per ogni gruppo sociale si inserivano, almeno nella prima Età moderna, in un complesso di credenze che associava l’alto con il positivo e il basso con il negativo: Dio, si pensava, aveva dato anche alla natura, oltre che alla società umana, una struttura gerarchica. La «catena dell’essere» ordinava tutti gli esseri viventi tra i due poli rappresentati in basso dagli oggetti inanimati e in alto da Dio. Ogni pianta e ogni animale erano associati a uno dei quattro elementi da cui si riteneva costituita la materia, cioè, in ordine ascendente, terra, acqua, aria e fuoco. In tal modo ogni essere veni­va classificato secondo il suo presunto grado di nobiltà. Si credeva ad esempio che sia gli alberi sia i bulbi appartenessero al regno della terra, ma che i primi, che si slanciano verso il cielo, fossero più nobili dei secondi. In questo senso i volatili erano considerati cibi da principe e re, e se ne mangiavano molti oggi impensabili: cormorani, cicogne, cigni, gru, aironi, pavoni e via discorrendo. La carne del porco che grufola nel fango o le rape che crescono sottoterra erano invece alimenti ritenuti adatti a rozzi contadini124.

Ma se da un lato si credeva che ciascuno dovesse mangiare il cibo appropriato alla sua «natura», dall’altro si pensava che gli alimenti ingeriti contribuissero a forgiare le caratteristiche attribuite ad ogni gruppo sociale. Noi nobili «mangiamo più pernici e altre carni delicate, e questo ci dà un’intelligenza e una sensibilità più elastiche di quelle di coloro che mangiano manzo e maiale», notava un autore nel Cinquecento125. All’inizio dell’Età moderna, il cibo serviva addirittura a marcare le distanze anche tra persone che partecipavano alla stessa mensa: i pezzi e le pietanze migliori andavano a quelle più importanti126. Mentre infatti il servizio alla francese, che andò definendosi tra Cinque e Settecento, prevedeva che ciascuno si servisse liberamente dai piatti portati in tavola, in molti altri paesi, una volta che scalchi e trincianti avevano suddiviso le pietanze, erano i servitori a porgere il cibo ai convitati, servendo prima quelli più di riguardo e poi tutti gli altri secondo il loro ordine gerarchico127. In quest’ottica non stupirà per nulla, allora, il fatto che sui diversi tavoli che organizzavano la commen­salità di persone di rango diverso non solo non si mangiava allo stesso modo. Non si mangiavano neppure le stesse pietanze.

Così, quando nel 1592 le autorità di Firenze offrirono un pranzo a due principi bavaresi in visita nella città con il loro seguito, al tavolo dei due signori vennero serviti cinque diversi tipi di volatili (come accennato i volatili erano ritenuti l’alimento più nobile in assoluto). Al tavolo dei gentiluomini che costituivano le persone più di spicco tra il personale dei due principi ne vennero imbanditi solo quattro tipi. I trenta commensali del tavolo dei servitori di rango un po’ più basso – collocato in un’altra sala – dovettero accontentarsi di condividere cinque piatti contenenti ciascuno un unico volatile. Nella lista relativa all’organizzazione del banchetto vennero poi indicati i cavalli e i muli degli ospiti, giacché si provvide anche a loro: i servi che svolgevano le funzioni più basse, circa centoquaranta persone che furono alloggiate nelle locande della città, vennero elencati dopo gli animali, certo non per caso128.

Anche nelle case private, soprattutto in quelle più ricche, servi e padroni, ed eventualmente domestici di diverso rango, mangiavano di solito pietanze diverse e bevevano bevande differenti: l’espressione italiana «confezione-famiglia», che indica una confezione di beni di consumo, in genere alimentari, grande e a buon prezzo ma non sempre della miglior qualità, deriva significativamente dall’espressione «vino da famiglia» comunemente usata, in Età moderna, per indicare il vino destinato ai membri del personale domestico; la famiglia, appunto, nel significato etimologico del termine129. Almeno in area padana è peraltro attestata anche l’espressione «pane da famiglia», usata per indicare un pane di bassa qualità130.

Se nella gerarchia degli alimenti la carne dei maiali che grufolano tra i rifiuti e i tuberi che crescono sottoterra erano situati ai gradini inferiori, nella gerarchia delle persone analoga posizione avevano, come accennato, i contadini che la terra lavoravano. E non si trattava solo di un’astratta convinzione rispetto a quale dovesse essere, nel mondo, la giusta collocazione di ciascuno: l’alimentazione in città e quella in campagna erano davvero differenziate. Il dominio della realtà urbana su quella rurale lentamente impostosi dopo il Mille, in particolare in zone come l’Italia e le Fiandre, si traduceva, anzitutto, nel fatto che in città anche i ceti medio-bassi tendenzialmente mangiavano pane bianco, cioè pane di frumento. Con qualche eccezione, come quella rappresentata dai siciliani, i contadini si cibavano invece di pane nero o comunque preparato con ingredienti diversi dal grano: pane di segale, di orzo, d’avena, di miglio, di panico, di farina di castagne, di lupini, di mais, di misture varie a seconda delle disponibilità locali (Tav. 13)131. I proprietari terrieri, infatti, esigevano canoni in frumento; i cittadini potevano acquistare il pane o la farina al mercato al cui approvvigionamento erano deputate le autorità annonarie; i contadini non potevano che farne senza, o quasi132. «O pan di fava», «che sei venuto a fare in questo sito», cioè in città, «dove non sei gradito né prezzato?», perché «fra i contadini non vai, u’ sei amato e riverito?», recitano i versi del Contrasto del pane di formenti e quello di fava per la precedenza scritto da Giulio Cesare Croce133.

Ma le distinzioni e le gerarchie sociali corrispondenti alle tipo­logie di pane non si riducevano all’opposizione pane bianco/pane nero: da un lato in città il pane era tanto più bianco – cioè abburattato – quanto più si saliva la scala sociale. Dall’altro solo gli strati sociali medi e alti mangiavano pane fresco tutti i giorni, preparato dai panettieri o fatto in casa (ma c’era anche chi lo impasta­va in casa e lo portava a cuocere presso appositi fornai134). Gli altri mangiavano pane duro: così se ne consumava meno. E se tra i ­ceti popolari di città non era forse inusuale comperare tutti i giorni piccole quantità di pane135, tra i contadini la «strategia del ­pane raffermo» era largamente praticata anche per risparmiare tempo e, soprattutto, combustibile («In una buona casa pane raffermo e legna secca», ci ricorda un proverbio). Così in alcune zone delle Alpi si faceva il pane solo due volte all’anno. Zuppe e bevande avrebbero poi permesso di ammorbidire un po’ la dura pietanza136.

Per quanto duro e nero, il pane era un bene agognato, che non si collocava certo all’ultimo posto nella scala gerarchica degli alimenti. In genere scarsamente panificabili, i cereali inferiori lasciati ai contadini erano consumati anche in altre fogge: con essi si preparavano pappe, farinate e polente che se non erano forse molto saporite avevano il vantaggio di sfuggire, in toto o in parte, alle imposizioni signorili sui mulini e sui forni: polenta di miglio in Sologne, in Champagne e in Guascogna fino al 1700; di miglio, grano saraceno o di mais nell’Italia settentrionale; grou di grano saraceno e latte o acqua in Bretagna; porridge d’avena in Scozia e in Inghilterra; kasza di segale frantumata, tostata e bollita oppure di orzo, di miglio o di grano saraceno in Polonia, in Lituania e in Russia...137.

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