Capitolo V.

Solidarietà e gerarchie a tavola

Mangiare insieme. Gli onori tributati a Jouvin de Rochefort dai suoi poveri ospiti ci ricordano, d’altra parte, che il pasto può esprimere nello stesso tempo solidarietà e differenze: da un lato la «commensalità è un segno di fiducia e di fraternità, o di prossimità di status». Dall’altro «le principali relazioni sociali sono espresse a tavola»31.

Già si è accennato al valore di rito di aggregazione dei banchetti nuziali. Avevano lo stesso valore anche altri tipi di socialità conviviale o in senso lato «alimentare». In Danimarca chi veniva ammesso a far parte di una comunità di villaggio per sancire l’ammissione doveva offrire da bere a tutto il vicinato. In altre zone alla tassa di aggregazione andavano aggiunte le spese per pagare vino o birra a tutta la comunità: «birra d’ingresso», si chiamava quest’uso nell’isola baltica di Fehmarn32. Il pasto vero e proprio d’altronde era spesso investito anche di un elemento sacrale grazie alla preghiera recitata prima di cominciare a mangiare.

Naturalmente non è detto che i membri di una famiglia pranzassero sempre insieme. Coloro che lavoravano nei campi potevano portarsi dietro qualcosa e mangiare sotto un albero; nelle famiglie più misere ciascuno spesso doveva arrangiarsi come poteva a guadagnare, mendicare, rubacchiare qualcosa da mettere sotto i denti; nelle famiglie più ricche signore o signora in assenza di ospiti potevano talvolta decidere di pranzare in camera. Mille motivi potevano insomma far sì che i membri di una famiglia consumassero i loro pasti separatamente l’uno dall’altro. Ma la commensalità era considerata un momento in cui l’unità familiare si esprimeva e si realizzava, tanto agli occhi degli uomini quanto al cospetto di Dio, grazie appunto alla preghiera recitata prima dei pasti e alla benedizione del cibo.

Già si sono citate alcune fonti che lo dimostrano, ad esempio il testamento di Albergati Capacelli o le lamentele dei servi della Franca Contea33. Aggiungiamo qualche altra prova. Vivere «a uno pane e a uno vino», si diceva in Toscana per indicare l’appartenenza ad una famiglia34. Le grandi comunità familiari del Nivernais, che riunivano in una proprietà indivisa varie coppie che abitavano, spesso, ma non sempre, sotto lo stesso tetto, trovavano proprio nel vivere allo stesso «pot, feu et sel» [= pentola, fuoco e sale] l’espressione della loro unità35. In Ungheria, dove era comune che i figli sposati dei contadini vivessero in case indipendenti costruite vicino all’edificio principale abitato dai genitori lavorando insieme lo stesso fondo agricolo, nel censimento del 1784-87 e in quelli della popolazione non nobile dal 1804 al 1847 si stabilì di considerare come familia le persone che vivevano sullo stesso lotto di terreno e cucinavano insieme, anche se abitavano in case diverse36.

L’associazione tra «mangiare insieme» e «far parte della stessa famiglia» è tanto radicata che il fatto di stare «ad una medesima tavola» può contribuire, insieme ad altri elementi, a far sospettare l’esistenza di relazioni more uxorio. A Siena, nel 1590, si crede che esista una relazione di concubinato tra tal Andrea milanese, che «tiene scuola di suono e raccame [= ricamo]», e Virginia, la donna insieme alla quale affitta delle stanze a studenti tedeschi. Sì, è vero, essi «habitano et vivono ad una medesima tavola», nota il rettore della chiesa parrocchiale di San Pietro in Banchi, dove hanno casa. Ma «separatamente dormono per quanto ne ho relatione»37. Per indebolire i sospetti indotti dalla commensalità ci vuole insomma l’intervento del prete.

Specularmente, la rottura dell’unità familiare può trovare espressione proprio nella separazione delle pratiche alimentari: in ambito cattolico non esisteva il divorzio, ma era prevista la separazione dei coniugi «tori, mensae et habitationis» [= del letto, della mensa e dell’abitazione]38. Nel 1769 le tensioni tra Apollonia, una donna di Brusino Arsizio, sul lago di Lugano, e i suoceri con cui vive si esprimono anche sul terreno del cibo: «facciamo tra noi un sol foco» – testimonia la suocera – «ma la pignatta caduno fa la propria»39.

Chi prima chi dopo, chi meglio chi peggio. Oltre che calorose comunioni o nette separazioni attraverso le pratiche alimentari si possono esprimere anche più sofisticate trame di differenze: la tavola è uno dei luoghi dove le gerarchie sociali, quelle di genere e quelle generazionali trovano espressione e vengono ribadite. Se i montanari sudtirolesi riservarono al loro illustre ospite l’unico sedile, e il vino disponibile, le antiche tradizioni dei Paesi Baschi imponevano alle donne di astenersi dal sedere alla tavola del capo di casa40: che gli uomini mangiassero seduti e che donne e/o bambini consumassero il loro pasto in piedi, spesso davanti al focolare, talvolta solo dopo che i maschi avevano finito o erano stati serviti, è usanza attestata in varie parti d’Europa41. E praticata ancora in tempi recenti, seppur sempre più raramente. «Gli uomini erano intorno alla tavola e le femmine e i bambini fuori o in stalla», ricorda Maria, nata nel 1898 nel Vicentino42. Talora tale usanza era giustificata proprio adducendo la scarsità di sedie e sedili, riservati ai membri più importanti della famiglia43. Ma in altri casi i pasti erano occasione di una segregazione che rispecchiava solo le gerarchie familiari, senza che la disponibilità di sedie vi avesse alcun ruolo. «Non eravamo mai sedute a tavola. Mai. Solo gli uomini a tavola, le donne sulle careghe, in un angolo della cucina», racconta un’altra donna veneta, nella cui casa le seggiole evidentemente non mancavano44. Le gerarchie, comunque, potevano esprimersi anche dove uomini e donne sedevano alla stessa mensa. In un testo pubblicato in Inghilterra nel 1724 si sosteneva, ad esempio, che in Germania alle mogli «non era consentito sedersi a capotavola»45.

Proprio una ricerca sulla Germania del Nord ci permette di approfondire l’argomento. La ricerca mostra la presenza di modi diversi, in diverse zone, di disporsi in occasione del pasto. In uno di essi, probabilmente il più antico, donne e bambini mangiano in piedi. Un altro è caratterizzato dalla presenza intorno al tavolo di tutti i membri della famiglia (servi compresi), ordinati secondo una gerarchia che assegna il posto di capotavola al capofamiglia e vede poi disposti maschi e femmine sui due diversi lati, gli uni e gli altri seduti secondo un preciso ordine: i servi di più alto rango e i figli maggiori stanno infatti più vicini al padre. Un terzo, senza dubbio il più recente, è contraddistinto dalla separazione della famiglia dei padroni dal gruppo dei servitori, ora disposti attorno ad una tavola separata, che tra l’altro, talvolta, a differenza di quella padronale, è fornita di panche e sgabelli, piuttosto che di più moderne sedie. Ed è talora addirittura collocata in un’altra stanza46.

La ricerca citata si riferisce ad un contesto in prevalenza rurale, nel quale la crescente separazione tra la famiglia padronale e i servi andava probabilmente ricondotta ad alcune leggi ottocentesche che tendevano ad approfondire la distanza sociale che separava i contadini dai loro dipendenti. «In molti villaggi contadini un’unica circostanza – se tutto il gruppo familiare, inclusi i servi, mangia alla stessa tavola, o no – è sufficiente per stabilire se la relazione fra il padrone e il servo è diventata soltanto una pura questione legale o se è ancora, per certi aspetti, patriarcale, per stabilire, insomma, se le vecchie tradizioni sono scomparse o se sono state mantenute e sviluppate», osservava a metà del secolo scorso uno studioso47. Probabilmente aveva ragione. In famiglie in cui i servi erano relativamente poco numerosi, la loro presenza alla stessa tavola dei padroni era l’espressione tangibile del fatto che erano considerati parte integrante della comunità familiare48. L’esistenza di precise gerarchie nella disposizione a tavola di vari membri che la componevano, nei modi e nei tempi del loro accesso al cibo esplicitava, tuttavia, come il gruppo familiare, lungi dall’essere qualcosa di egualitario e idilliaco, fosse una struttura duramente gerarchica. Nelle famiglie aristocratiche, gerarchicamente ancora più articolate, proprio nella pluralità dei tavoli tali gerarchie finivano per trovare una significativa espressione.

La moltiplicazione dei tavoli. In Età moderna, infatti, come si può intuire da quanto si è detto nel capitolo precedente, nelle case nobili era abituale la presenza di tavoli separati per i padroni e i servi, o addirittura, nelle dimore delle famiglie più importanti, per i servi di diverso grado49. Nel 1563 alla corte di Parma ce n’erano addirittura tredici50. I tavoli diversificati marcavano così attraverso la loro stessa dislocazione nello spazio la maggiore o minore vicinanza al padrone dei diversi domestici e, di conseguenza, la loro maggiore o minore importanza. Il processo condotto nel 1786 in occasione della misteriosa morte (suicidio o omicidio?) della seconda moglie del già citato Francesco Albergati Capacelli ci fornisce una visione particolarmente chiara del nesso tra tavoli diversificati e gerarchie familiari. La morte della donna, infatti, avviene poco dopo il pranzo: interrogati da coloro che conducono le indagini, tutti i membri della famiglia e della servitù spiegano come e dove hanno mangiato o stavano mangiando.

Scopriamo così la presenza di quattro diversi «tavoli» nella lussuosa villa di campagna che è teatro dei fatti: al primo mangiano il marchese, sua moglie, i loro due bambini, il precettore di quest’ultimi e il violinista di casa. Al secondo, dopo aver servito alla tavola padronale, mangia il cameriere con il personale domestico femminile. Questo tavolo si trova nella stanza delle domestiche, collocata direttamente sotto la camera della padrona, alla quale è collegata con un campanello e con una scaletta di servizio. Nel suo appartamento indipendente, il fattore pranza con la moglie, che ha un bambino a balia. Nelle cucine, che si trovano nel sotterraneo del palazzo, mangiano, chi prima, chi dopo, tutti gli altri membri della servitù maschile: staffieri, stallieri, cuoco, sottocuoco e sguatteri51.

Nella residenza estiva della famiglia Albergati la gerarchia che informa di sé la vita e le relazioni tra i membri dell’unità coresidente si rispecchia insomma con precisione quasi matematica nella «stratigrafia» dei tavoli e della loro collocazione nello spazio certo non neutro del palazzo52. Le donne, tuttavia, tendono a fare gruppo: Maria Pifaretti, Marianna Boscani, Maddalena Zambonelli e Lucia Franzoni hanno senza dubbio una posizione diversa nella gerarchia servile, dal momento che sono impiegate, rispettivamente, in qualità di donna da governo, cameriera, maestra di ricamo della marchesina Eleonora e «donna da fatti» (cioè donna di fatica). Ma mangiano tutte insieme, e in uno spazio molto vicino a quello della padrona, quasi che la vischiosità dell’appartenenza di genere nel caso delle donne avesse la meglio sulla posizione nella scala gerarchica della servitù. Spesso d’altronde sono indistintamente definite come «le donne di casa» e come tali non di rado si definiscono53. Per gli uomini invece la relazione è molto più netta e quasi priva di ambiguità, se si esclude, forse, il cuoco, che pur essendo figura di una certa importanza di necessità non può che stare in cucina. Per il resto l’alto e il basso della posizione dei tavoli coincidono quasi perfettamente con l’alto e il basso nella gerarchia del personale domestico.

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