Capitolo IV.

Scaldarsi

Caminetti e stufe. Se in alcune zone o ceti sociali sopravvissero a lungo abitazioni a focolare centrale senza camino, ciò non dipendeva solo dalla vischiosità delle tradizioni. Per costruire caminetti a parete oppure stufe – tanto in campagna quanto in città – erano infatti necessarie strutture non infiammabili, in pietra o in muratura o, per quanto riguarda le stufe, anche di ferro: innovazioni costose che implicavano cambiamenti relativamente ampi della struttura abitativa29. Non a caso per cucinare in alcune zone si costruirono forni e/o piccole cucine esterne all’abitazione: certo così si evitavano le grosse spese necessarie all’ammodernamento e il rischio di incendi, ma ovviamente non si sfruttava appieno il calore30. Per avere un caminetto laterale in casa una soluzione poteva allora essere quella di costruire una sola parete in pietra, e le altre tre di materiali vegetali, come nel caso delle bourrines delle paludi della Vandea31.

Il caminetto a parete laterale pare essere stato un’invenzione italiana. Probabilmente fu introdotto a Venezia nel XII-XIII secolo: i primi di cui si abbiano precise attestazioni risalgono al 122732. Da allora fumisti, spazzacamini, grandi architetti si cimentarono nello studio dell’inclinazione di cappe e canne fumarie per migliorare il tiraggio e favorire la fuoriuscita del fumo: nel corso dei secoli la cappa venne abbassata e la canna incurvata. Nel contempo il caminetto dall’Italia si diffuse nel resto d’Europa33. Esso permetteva di avere ambienti meno affumicati, ma buona parte del calore veniva sprecata.

Uno sfruttamento molto più razionale del calore si rese possibile grazie all’introduzione di stufe a partire dallo sviluppo di semplici forni di pietra, mattoni o di argilla, forse inizialmente realizzato nella zona meridionale delle Alpi34. Costruite in muratura, talvolta rivestite di mattonelle di maiolica (Kachelofen), queste stufe si diffusero in Svizzera, in Austria, in Germania, in Ungheria, in Polonia, in Russia: a volte erano poste tra due ambienti e rendevano dunque possibile scaldare due vani contemporaneamente. Attorno ad esse spesso erano sistemate delle panche dove ci si poteva sedere o dormire al caldo: anche in tempi molto recenti nei masi tirolesi i vecchi di casa dormivano sopra o di fianco alla stufa35 (Fig. 16). Ma sentiamo cosa ci racconta in ­proposito un viaggiatore italiano di fine Cinquecento, Francesco da Pavia.

Egli viene più volte ospitato in case polacche in cui tutta la famiglia dorme su banconi coperti di cuscini e pellicce posti intorno alla stufa. Gli ospiti di passaggio vengono sistemati insieme ai familiari. Francesco, quando gli capitano situazioni del genere, ne approfitta per sdraiarsi vicino a una delle donne di casa. Qualche volta viene ben accolto. Qualche altra ne ricava solo dei graffi (senza che nessuno venga svegliato)36.

Ma lasciamo la storia un po’ piccante di Francesco da Pavia e torniamo a quella delle stufe. Come accennato, quelle osservate dal nostro viaggiatore si diffusero soprattutto nell’Europa centro-settentrionale e orientale, ma nelle zone slave meridionali continuò a prevalere il focolare aperto37. La stufa non ebbe grande successo neppure in Italia, nella Francia meridionale e in Portogallo, dove invece erano diffusi i caminetti. Essi erano comunque presenti anche al Nord, soprattutto in Norvegia e in Inghilterra: frequentemente modificati per rispondere all’esigenza di bruciare carbon fossile, in Inghilterra si erano diffusi nel Cinquecento, ma a lungo erano rimasti un lusso38. In Spagna, nonostante le case fossero spesso di pietra, si usavano molto i bracieri grazie anche alla disponibilità di legname in grado di bruciare senza fare molto fumo e molte fiamme: il fuoco in queste zone poteva essere un mobile portatile, una specie di stufetta39. Ma nella Tierra de Campos e nella Tierra de Pan della vecchia Castiglia, dove il legname era scarso, ci si scaldava bruciando paglia in condotti sotterranei. Si sa d’altronde che alcuni palazzi italiani del Rinascimento erano «climatizzati» grazie a fuochi accesi in intercapedini sotto il pavimento e grazie all’aria calda fatta circolare in tubi nascosti nelle pareti40. A partire dal Sei-Settecento si svilupparono infine le stufe di ferro o di ghisa, diffuse inizialmente soprattutto nei Paesi Bassi41, e nel 1740 venne inventata la cosiddetta stufa Franklin, destinata ad avere larga diffusione42.

I vetri alle finestre. Ad un miglior riscaldamento delle case con­tribuì, comunque, accanto alla diffusione di caminetti e stufe, quella dei vetri alle finestre. Certo i più poveri tra i cottages inglesi (come molte delle abitazioni più misere) per tutto il periodo qui analizzato sarebbero rimasti privi non dei vetri ma delle stesse finestre43 e ancora nel secolo scorso c’erano case contadine con finestre chiuse solo da scuri di legno, nelle quali, quando faceva freddo, bisognava rinunciare o alla luce o al calore. Le finestre erano insomma un lusso che non tutti potevano permettersi. E come un lusso, almeno in certi paesi, ad esempio l’Inghilterra e la Francia rivoluzionaria, erano considerate anche dalle autorità, che le ­annoveravano tra le comodità soggette a tassazione suntuaria44. Presenti in case di abitazione di città come Bologna, ­Genova e ­Firenze già nel Trecento, nel corso dell’Età moderna le finestre di vetro si estesero dalle chiese e dai palazzi più ricchi alle case comuni, affiancando le imposte di legno e sostituendo, là dove c’erano, le finestre di carta oleata e le «impannate», fatte tendendo in un telaio una stoffa, spesso impregnata di ­trementina per rendere il tessuto semitrasparente45. Passando per la Toscana verso la metà del Settecento, un osservatore notava che c’erano i vetri alle finestre in tutte le case, ma ne datava l’introduzione a circa ottant’anni prima46. Nel corso del tempo, inoltre, anche il vetro divenne più chiaro e trasparente, rendendo possibile avere più luce: alle piccole lastre o ai tondini uniti con il piombo si sostituirono infatti sempre più spesso lastre più grandi di vetro bianco47.

Nelle dimore rurali le finestre, dove c’erano, rimasero però a lungo molto piccole: lentamente, tuttavia, essere al caldo d’inverno smise di significare accalcarsi nella penombra con tutti i membri della famiglia, coperti con il maggior numero possibile di indumenti, attorno ad un fuoco fumoso, tenendo il bestiame più vicino possibile allo spazio degli uomini per sfruttarne il calore (ma fino a tempi recenti è rimasto usuale in molte zone passare le serate al caldo nella stalla48, Figg. 55-56). Lentamente diminuiva, seppur di poco, la dipendenza delle attività umane dall’alternarsi della luce e del buio, delle stagioni calde e di quelle fredde.

Come accendere il fuoco e cosa bruciare. Anche accendere il fuoco cominciò a divenire un’operazione un po’ meno difficile e laboriosa grazie all’invenzione, verso il 1530, dei primi rudimentali fiammiferi. Non si trattava ancora però dei fiammiferi in grado di infiammarsi da soli per sfregamento, introdotti all’inizio del XIX secolo. Erano solo dei pezzettini di legno, di canna, di canapa, di carta arrotolata o di cotone immersi per un tratto nella cera, facilmente infiammabili. Per dar loro fuoco si usavano soprattutto acciarini formati da un pezzo di acciaio e da una scheggia di selce che andavano sbattuti insieme con forza nella speranza di riuscire a produrre una scintilla non troppo effimera e abbastanza calda da incendiare un pezzettino di stoffa, l’esca, con il quale poi si sarebbe dovuto procedere ad accendere prima il fiammifero e poi il vero e proprio combustibile49. Questa operazione, lunga e sfibrante, che la mattina doveva essere condotta al buio e, d’inverno, con le mani intirizzite, era di solito affidata ai servi, quando li si aveva, oppure, sembra, alle donne: «la mattina presto, quando mi alzo, prima di vestirmi e agghindarmi, spazzo e pulisco la casa secondo il bisogno, o, se fa freddo, accendo il fuoco», recitano i versi di una ballata inglese del Seicento relativa ai compiti femminili50. Non stupisce che chi non aveva troppi problemi di approvvigionamento di combustibile tendesse a tenere il fuoco sempre acceso, né che si potesse andare a chiedere un tizzone ai vicini51.

Tali problemi in alcune zone erano molto gravi, e la gamma dei combustibili utilizzati nei vari contesti, a seconda delle disponibilità locali e delle possibilità individuali, era estremamente ampia e variata, così come la gamma dei vantaggi e degli svantaggi di ciascuno52: legname, paglia, fieno, carbone, torba, escrementi di animali, miscele varie... Edward Daniel Clarke narra che, mentre nel 1791 attraversava, in compagnia, la Cornovaglia e il Devon, rimase molto colpito dalla vista di «una vecchia che, zoppicando, camminava dietro ai nostri cavalli nella speranza di trarre un po’ di combustibile dai loro escrementi», fornendoci un bell’esempio di come le difficoltà di approvvigionamento potessero essere gravi53. Ma se il letame era usato solo dai poveri, o quasi, ciò era soprattutto per il suo odore, non perché fosse un cattivo combustibile: il suo valore calorico (4.0) è anzi addirittura superiore a quello che ha, mediamente, il legname (3.5), identico a quello della torba e pari a più della metà di quello del carbone bituminoso (6.9)54. Il problema dell’approvvigionamento pare fosse particolarmente forte proprio in Inghilterra, per quanto dovesse essere molto serio anche in Italia, visto che il prezzo della legna da ardere aumentò, a quanto pare, più di tre volte e mezza tra il tardo Cinquecento e l’inizio dell’Ottocento. Se nel 1696 il 15% del territorio inglese era boschivo, negli anni Venti del nostro secolo solo il 5% era tale, tanto che l’Inghilterra era, dopo il Portogallo, il paese europeo con meno boschi. Dopo il 1840 il carbone, impiegato in modo vieppiù massiccio a partire dalla fine del Cinquecento, aveva ampiamente rimpiazzato la legna da ardere. Ma in precedenza, soprattutto nel tardo Settecento, essa era divenuta sempre più scarsa e costosa. Nel suo studio sulle condizioni di vita dei poveri (The State of the Poor, 1797), Sir Frederick Morton Eden denunciò che tra i braccianti agricoli del Sud del paese la penuria era tale che la preparazione del cibo si riduceva a bollire un po’ d’acqua per il tè due volte al giorno: il pane che essi mangiavano quotidianamente e l’arrosto che arricchiva i loro pasti domenicali erano cotti dal fornaio. Molti di loro non avevano mai neppure assaggiato un vero e proprio piatto caldo55.

Il valore simbolico del fuoco. Al di là dei problemi di rifornimento in combustibile e del suo costo, il fuoco acceso aveva un forte valore simbolico, quasi sacrale. Incarnava la famiglia, l’ospitalità, la vita stessa. In quest’ottica non stupisce che in Sardegna, dove prevalevano i focolari centrali, venisse spento solo in caso di lutto. In molte zone le donne che, in assenza di servi, sembra fossero le principali responsabili del mantenimento del fuoco, pare dedicassero una cura particolare alla pulizia e all’apparenza del focolare, circondato da molte credenze e superstizioni56. In varie lingue esso rappresentava metonimicamente la famiglia, dal momento che l’unità domestica coresidente poteva essere definita «fuoco» (feu in francese), parola derivata dal latino focus, che vuol dire appunto «focolare domestico»57.

La centralità pratica e simbolica del fuoco rispetto alle relazioni familiari emerge in modo particolarmente chiaro dalla descrizione della casa che Serlio propone per i contadini ricchi. «Primieramente», scrive, «io intendo che nel mezzo vi sia una sala commune a tutti, nel mezzo della quale vi si farà lo fuogo, acciò che vi capisca più persone et che nelli giuochi e nel divisare di più cose tutti si veggano nel volto»58. Pare quasi di averla davanti agli occhi, questa famiglia che attorno al fuoco e grazie al fuoco intesse le sue relazioni faccia a faccia, si diverte, discute, trova la sua unità (Fig. 15).

Spostare il focolare dal centro della camera ad una parete laterale, moltiplicare i caminetti, far sparire la viva fiamma dentro una stufa non significava allora modificare solo le modalità di riscaldamento della casa e, almeno in parte, quelle di preparazione dei cibi. Significava anche dar vita ad ambienti che favorivano una diversa sociabilità tra i membri della famiglia; che rendevano possibili trasformazioni e differenziazioni dell’immaginario; che tendevano a modificare gli equilibri simbolici della dimora, tanto quelli del suo spazio interno quanto quelli legati alla sua posizione nel cosmo: «il camino caliginoso con la sua cappa nera era una specie di condotto astrale che metteva in comunicazione l’interno con l’immensità remota dei cieli», ha scritto un autore59.

«Che differenza tra una stufa e un caminetto!», avrebbe commentato Sébastien Mercier nel 1788. «La vista di una stufa spegne la mia immaginazione, mi rattrista e mi rende malinconico: a questo calore scialbo, tiepido, invisibile preferisco il freddo più pungente; amo vedere il fuoco, ravviva la mia immaginazione»60. In effetti stufa e camino rimandavano a due culture ­diverse, a due modi diversi di vivere il rapporto con il fuoco, il calore e la luce (il fuoco della stufa non illumina): forse anche per questo in zone in cui si era consolidata la tradizione dei caminetti, come la Francia e – soprattutto – l’Italia, la lotta contro il freddo portò alla loro moltiplicazione, più e prima che alla diffusione della stufa, che pure permetteva di risparmiare combustibile e di sfruttarlo meglio (circa due terzi del calore di un camino si perde nella cappa)61.

Nelle case con un’unica stanza in assoluto il fuoco era il centro d’integrazione dello spazio interno. E lo stesso si può dire rispetto a quelle con un’unica stanza fornita di focolare e a quelle con una sala comune dotata di un caminetto che, pur non essendo necessariamente l’unico della casa, svolgeva la pluralità di funzioni di fornire luce, calore, fiamma, braci o cenere calda per cucinare; e sulla cui cappa, nelle case di un certo rango, era talvolta esposto lo stemma di famiglia. La moltiplicazione dei fuochi e la loro differenziazione (fuoco destinato prevalentemente alla cucina, fuoco destinato al riscaldamento, fuoco destinato all’ostentazione) rappresentarono quindi «un cambiamento profondo nel progetto stesso d’abitare», tanto dal punto di vista funzionale quanto dal punto di vista simbolico62.

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