Capitolo IV.

Camere e corridoi

Per l’eleganza pubblica e la comodità privata. La tendenza alla specializzazione non coinvolge, comunque, solo il mobilio: è la casa stessa che viene riorganizzata secondo linee volte a creare luoghi separati per le diverse funzioni. Nelle dimore delle élites anche in epoca medievale esistono alcuni spazi specializzati. Spesso esistono vere e proprie cucine. Talvolta, soprattutto in grandi edifici come conventi e abbazie, sono costruzioni separate, per evitare il pericolo di incendi230. Talaltra sono collocate all’ultimo piano: soluzione scomoda per quanto riguarda l’approvvigionamento di acqua e di legna, ma sensata, in particolare nelle abitazioni con ampie parti in legno, al fine di ridurre il rischio di veder bruciare tutta la casa se esse prendono fuoco231. Ciononostante anche in abitazioni appartenenti a persone di ceto non basso è frequente che la sala sia l’unico luogo dove c’è un focolare, ed è lì allora che si cucina e si mangia232.

Ma a partire dal Quattrocento la casa diviene oggetto di crescenti sforzi di razionalizzazione, soprattutto nell’ambito della cultura rinascimentale italiana, che in seguito costituirà un modello in tutt’Europa. Ai vertici della scala sociale viene abbandonato il palazzo tipo «fortezza» e nasce, in particolare a Firenze, un nuovo tipo di abitazione, il palazzo di città. La trasformazione è legata allo sviluppo dell’economia urbana; all’allentarsi della riprovazione morale della Chiesa nei confronti della ricchezza; al diffondersi della convinzione che spendere per costruire, lungi dall’essere qualcosa di riprovevole, possa al contrario essere una scelta vantaggiosa tanto per il proprietario della casa quanto per la città che ne viene abbellita; alla volontà dei ricchi e dei nuovi potenti di affermare dal punto di vista simbolico la loro condizione attraverso la propria dimora233.

«Elegantiae publicae et commoditati privatae», «per l’eleganza pubblica e la comodità privata», sta scritto sopra l’ingresso del quattrocentesco Palazzo Castani, a Milano234. I palazzi italiani del Rinascimento sono in effetti ispirati a principi non solo di grandiosità, di simmetria e di ordine235, ma anche di comodità e praticità. «La fabbrica [= la costruzione, la casa] honestamente bella ma perfettamente commoda» è preferibile a quella «bellissima et incommoda», scrive il gentiluomo e architetto Alvise Cornaro236. Gli architetti si preoccupano pertanto della «distribuzione delle stanze»237. Lo spazio domestico comincia a venir diviso in zone di servizio, di rappresentanza e private238. Dal Quattrocento chi può permetterselo inizia a riservare alcune stanze al suo uso personale239.

Camere, anticamere, gabinetti e studioli. Il padrone di casa riceve gli ospiti nella camera dove è collocato il suo letto, che è forse lo spazio più importante della dimora. Ma qualcuno comincia a sentire il peso di tanto via vai di gente nella stanza dove tiene le sue cose più preziose e dove riposa. Dunque che fare? Come ­risolvere il problema? L’anticamera, ecco la soluzione che va profilandosi. Proprio così: si comincia a costruire davanti alla camera un’anticamera in cui trasferire alcune delle attività normalmente svolte nella stanza da letto, come ricevere amici o conoscenti. Ma avere un’anticamera offre anche altri vantaggi: vi si può poi mangiare o tenere degli oggetti. È inoltre possibile farvi dormire un servitore durante la notte in modo da averlo vicino, ma non proprio tra i piedi, in caso di bisogno. Oppure ci si può far stare un domestico durante il giorno per controllare chi arriva. In questo senso per garantire un maggior isolamento alle stanze da letto e per filtrare meglio gli accessi le anticamere possono venir moltiplicate. Sembra che in origine esse siano definite «guardacamere»240. Che sia per la funzione di controllo che permettono di esercitare?

Ma nel Cinquecento, al fine di creare spazi personali relativamente isolati e di avere luoghi riservati dove dormire, prende piede anche l’abitudine di costruire una seconda camera dotata di un letto diversa da quella in cui si ricevono gli ospiti (a parte i più intimi)241. In alcuni casi la distinzione tra stanze da letto private e da parata si sovrapporrà a quella tra stanze da letto da estate e da inverno242. Nella loro ricerca di comfort e decoro, infatti, i più fortunati si fanno costruire una stanza da letto estiva, a volte posta a piano terra, dove è più fresco, e una stanza da letto invernale più piccola e raccolta, che può esser meglio riscaldata, di solito al piano nobile, cioè al primo piano243.

Ma la tensione verso una maggior comodità non si arresta qui. Dietro o accanto alla camera da letto si cominciano infatti a costruire piccole stanzette ad essa associate, «destri, studi e camerini», come scrive l’architetto Francesco di Giorgio Martini verso il 1480244. Cos’è un «destro»? È il gabinetto, e non si può certo negare che averlo vicino sia una comodità di poco conto. Ma nel corso del secolo i ricchi spostano le loro preferenze dal «destro», in genere rappresentato da un foro collegato ad una fossa biologica, verso le seggette, collocate in un angolo della camera da letto o in una delle piccole stanze ad essa adiacenti245. Come si può più facilmente immaginare, lo studio, detto anche studiolo o scrittoio, è invece uno spazio personale dove ritirarsi a leggere e scrivere in santa pace e dove conservare libri, lettere, documenti importanti e oggetti di valore. Proprio questo spazio, di cui godono prevalentemente ma non esclusivamente gli uomini, secondo alcuni autori sarebbe la prima espressione di un nuovo bisogno di privacy e comfort personale destinato poi a svilupparsi nei secoli successivi.

Lo studio è in un certo senso l’antenato dei cabinets francesi e dei closets inglesi elegantemente arredati che tanta importanza avranno nel Sei-Settecento246. Nel periodo post-rinascimentale, infatti, la tendenza a dotare le stanze da letto di piccoli spazi attigui non verrà meno, ma andrà anzi in generale rafforzandosi. «Bisogna che le stanze da letto principali siano accompagnate da un gabinetto [cabinet] d’ampiezza ragionevole, da un retro-­gabinetto [arrière-cabinet], e da due disimpegni. Vi si può aggiungere un terzo piccolo gabinetto con un letto di riposo al quale si dà il nome di boudoir. Si fanno anche molti piccoli ridotti che hanno diversi usi», scrive nel 1743 Charles-Étienne Briseux, testimoniando bene a che punto sia arrivata ai tempi suoi la tendenza che aveva preso avvio nell’Italia del Rinascimento247.

L’appartamento. Proprio grazie al moltiplicarsi degli spazi attorno alla stanza da letto nei palazzi italiani rinascimentali nasce così l’appartamento, una sorta di casa nella casa ad uso privato dei proprietari. Tale soluzione è destinata ad un duraturo successo. Un appartamento, per essere completo, deve avere almeno quattro stanze, «cioè un’anticamera, una camera, un gabinetto e un guardaroba che deve sempre essere fornito di una scala», sostiene ad esempio D’Aviler nel Seicento248. In effetti la presenza di una scala o di un’uscita «segreta» è un elemento più o meno indispensabile dell’appartamento. Nella sua forma ideale esso infatti è formato da una serie di stanze consecutive percorrendo le quali ci si allontana dagli spazi più pubblici e ci si inoltra in quelli più privati: alla fine della sequenza un’uscita o una scala segreta permette al proprietario della stanza, ai domestici, al suo coniuge o agli amanti clandestini di entrare e uscire senza passare per gli spazi più pubblici e visibili249.

«Moglie e marito dovrebbero avere ognuno la propria camera da letto», sostiene autorevolmente Leon Battista Alberti nel Quattrocento250. Ma dalla stanza da letto singola all’appartamento in cui una stanza da letto è circondata da anticamere e stanzini vari il passo è breve. Nel Rinascimento e in Età moderna mogli e mariti appartenenti alle élites hanno così spesso un appartamento per ciascuno, talvolta addirittura due, uno per l’estate e uno per l’inverno. Anche i figli, una volta cresciuti, ne hanno uno, e così altri eventuali parenti adulti che vivono in casa251. Per quel che posso giudicare, la divisione sessuale degli spazi all’interno dei palazzi non è stata oggetto di studi approfonditi. Ma nell’Italia del Rinascimento alla moglie, quando non ha un appartamento personale, pare sia riservata una stanza dietro a quella del marito. Nella Francia del Seicento sembra invece che le dame risiedano al piano nobile, dove si trovano le stanze da cerimonia e da parata, e che alla padrona di casa sia destinato un appartamento più grande di quello del marito252.

Mobili e stanze. Nei palazzi rinascimentali, spesso costruiti con un cortile centrale, il salone, un salotto o un’altra sala che può essere utilizzata come sala da pranzo, alcune anticamere e la cappella si trovano in genere nel lato che corrisponde alla facciata principale. Sul lato opposto va sviluppandosi la presenza di spazi per le opere d’arte e i libri (galleria, biblioteca). Le altre due ali sono destinate l’una alle stanze più private; l’altra, che di solito è quella che contiene la scala principale, a qualche anticamera e ad ambienti di servizio253.

In questi palazzi aree di rappresentanza, di servizio e private sono dunque generalmente individuate in modo abbastanza chiaro, nonostante ci possano essere sovrapposizioni e contaminazioni. E alcune stanze assumono una spiccata destinazione funzionale, esaltata dagli arredi specifici che vanno sviluppandosi. Lo studio, ad esempio, nel Quattrocento è arredato in modo semplice, ma è fornito di solito di un mobile con un piano per scrivere, scansie e ripiani per mettervi degli oggetti e uno o più leggii254. Destinato ad evolvere verso forme più simili a quella che noi oggi consideriamo una scrivania, questo mobile in un periodo un po’ successivo a Venezia pare sia definito «scrittor». A Firenze lo si chiama più spesso «studiolo» e si riserva il nome di «scrittoio» alla stanza che lo contiene, detta a Venezia «studio». Ma in entrambi i contesti l’uso dei termini può essere invertito. Il mobile che caratterizza la stanza e la stanza stessa finiscono così per identificarsi. Il mobile dà insomma un contributo tale alla definizione della destinazione funzionale dello spazio in cui è inserito che il nome dell’uno e quello dell’altro possono venir scambiati255.

Mangiare, ricevere, dormire. Ciononostante, nei palazzi rinascimentali molte stanze restano multifunzionali: al loro interno si svolgono cioè molte attività diverse. E anche nelle stanze che hanno, per così dire, un’identità più precisa si intrecciano spesso attività che noi oggi tendiamo a tenere separate. Le stanze da letto dei padroni di casa, come già si è detto, sono spesso due: una da parata, in cui si ricevono ospiti importanti ma non si dorme o si dorme raramente; l’altra privata, dove tuttavia non ci si limita a dormire. Le donne vi fanno lavori di ricamo, spesso vi si ricevono le persone più intime, a volte si legge, talora si scrive una lettera, non di rado si mangia. Non esiste infatti uno spazio specifico per mangiare. Se ci sono molti ospiti o una festa si possono montare delle tavolate nel salone. Ma quando non ci sono ospiti la famiglia del padrone di casa può mangiare in modo più raccolto in una saletta, detta anche salotto o tinello. Si può però pranzare anche in un’anticamera. In alternativa ciascuno può consumare il pasto nel proprio appartamento, solo o in compagnia256. Non a caso i tavoli nel Quattrocento sono in gran parte formati da assi messe su cavalletti che ­possono venir rapidamente smontati: è soprattutto dal Cinquecento che si sviluppano i tavoli con gambe fisse e addirittura tavoli da parata257.

«La sala da pranzo C 7 può servire da anticamera alla camera con alcova per dormire C 4 [...] L’anticamera H 7 può fungere da sala da pranzo», scrive D’Aviler a fine Seicento illustrando uno dei suoi progetti258. Una camera da letto «servirà per pura comparsa», sostiene Giovanni Biagio Amico alcuni decenni più tardi259. Ancora tra Sei e Settecento anche nelle dimore dei più ricchi lo spazio destinato ai pasti non è insomma nettamente definito e in pieno Settecento c’è chi propone la stanza da letto, seppur da parata, come stanza in cui ricevere. Ciò non significa, tuttavia, che per secoli tutto resti immutato.

Sebbene le anticamere possano fungere da sale in cui si mangia «è molto in uso destinare uno spazio particolare come sala da pranzo», constata infatti D’Aviler260. E in effetti i dati disponibili mostrano che ai vertici della società le sale da pranzo tendono a diffondersi.

Nelle residenze di campagna dell’élite inglese l’antica hall, la stanza comune in cui tutti mangiavano, in cui spesso ci si intratte­neva e nella quale alcuni servi addirittura dormivano, nel Seicento perde queste sue caratteristiche: i padroni per mangiare si costruiscono una stanza apposita, e la hall diviene il refettorio della servitù. Col tempo, tuttavia, viene introdotta una stanza anche per i pasti dei servi, spesso collocata nel seminterrato. Un tempo cuore pulsante della casa, la hall scade allora a semplice ingresso261.

In Francia «i cittadini [...] e i mercanti han dove mangiano», scrive nel 1718 Pier Jacopo Martello una trentina d’anni dopo la pubblicazione del testo di D’Aviler262. A Parigi tuttavia la diffusione della stanza da pranzo fuori dalle cerchie dei ricchissimi appare un fenomeno caratteristico soprattutto della seconda metà del XVIII secolo263.

A Venezia tra il 1682 e il 1690 viene costruita Ca’ Zenobio ai Carmini, considerata «il prototipo più completo» del nuovo modo d’abitare che si diffonderà in città nel Settecento. Essa è dotata di un «Tinello de’ Padroni» collocato esattamente sopra quello dei servitori264. E in effetti nel secolo successivo nelle dimore più ricche della città lagunare la sala da pranzo sarà pressoché universale265.

Anche in Scozia nel Settecento la stanza da pranzo va assumendo una nuova importanza. Diviene infatti il luogo in cui sistemare gli oggetti di casa più preziosi e prestigiosi ed è destinata soprattutto ad una socialità maschile basata sul consumo vistoso di alcolici e di pasti prevalentemente a base di carne. Ma nelle piccole case della classe media spesso continua a contenere un letto, seppur molto isolato dal resto della stanza grazie a cortine266.

In tutt’Europa, insomma, le stanze da pranzo si moltiplicano. Ma, almeno a giudicare dagli inventari parigini, se dai vertici della società si allarga lo sguardo anche agli altri ceti esse non risultano poi così diffuse. A Parigi nella seconda metà del XVIII secolo sono segnalate solo nel 14% delle abitazioni267. Complessivamente, nel Settecento, nella capitale francese sale, saloni, sale da pranzo ecc. non sono che il 12% di tutte le stanze principali citate negli inventari. Le cucine sono il 17%. Tutte le altre stanze sono semplicemente delle chambres268.

Che cosa si intende allora con chambre? La chambre «è ordinariamente il luogo dove si dorme e dove si riceve», spiega un importante dizionario secentesco269. «Per lo più ricevono dove dormono», conferma all’inizio del Settecento lo scrittore bolognese Pier Jacopo Martello parlando dei cittadini e dei mercanti francesi270. Non a caso è proprio nella chambre che si trova, in genere, un gran numero di sedie e sedili271. Questa plurifunzionalità, come si può immaginare alla luce di quanto già si è detto, non dipende solo dalla ristrettezza di molte abitazioni. Certo i più poveri sono spesso costretti a fare tutto in un’unica stanza: mangiare, dormire, ricevere, non di rado anche lavorare. Gli inventari parigini conservano ad esempio memoria di un maestro che vive con la moglie in un alloggio di un unico vano dove sono presenti anche i banchi per gli scolari, e di un fabbricante di bevande che prepara e vende le sue limonate nella cucina di casa che è, al contempo, stanza da letto272. Ma la chambre è il luogo in cui si dorme e si riceve pure per coloro che possono permettersi spazi separati per lo svolgimento dell’attività professionale da un lato e per la preparazione dei cibi dall’altro, come testimonia anche Martello. E questo tipo di intreccio caratterizza anche i palazzi della nobiltà, dove lo spazio abbonda. Come si è visto, nelle dimore dei più fortunati stanze da letto private affiancano spesso quelle da parata. Ciò non toglie, tuttavia, che Madame de Maintenon possa dormire in una stanza in cui il re riceve i ministri: mentre il re discute le cameriere la spogliano e l’aiutano ad andare a letto, dove le cortine sono l’unico riparo della sua intimità273.

È comunque proprio sotto Luigi XIV che, in Francia, cominciano a vedersi i primi segni, tra i ceti più agiati, di quella tendenza ad una più spiccata specializzazione dei vani destinata a realizzarsi nella seconda metà del XVIII secolo, come dimostra anche il diffondersi della definizione di «sala da pranzo» che si verifica proprio durante il suo regno. I salons – moda di derivazione italiana – si moltiplicano poco dopo, a partire dagli anni Venti e Trenta, mentre la definizione di «camera da letto» diviene relativamente comune durante la seconda metà del secolo274. Nel Seicento, la tensione tra ostentazione e comodità che abbiamo visto in gioco già nel Rinascimento tende a sbilanciarsi verso il primo dei due poli275: l’«architettura della magnificenza, promossa da Luigi XIV come esaltazione dello Stato» negli ultimi anni del secolo finisce per coinvolgere anche i privati. Ma nei primi decenni del Settecento nell’edilizia abitativa l’ago della bilancia si sposta dal fasto alla comodità e al lusso276.

Alcune tematiche presenti già nel Rinascimento italiano e poi sviluppate soprattutto in Inghilterra vengono riprese e approfondite dagli architetti francesi, che spesso esercitano influenza anche fuori dai confini della loro patria. «Le case sono fatte per viverci, e non per guardarle: perciò l’utilità sia preferita alla simmetria», aveva scritto Francesco Bacone nel suo testo Of Building277. «La decorazione [...] è senza dubbio molto interessante in architettura, ma per quanto possa apparire essenziale, è insufficiente senza la comodità», sostiene l’architetto e trattatista francese Jacques-François Blondel nel 1752278. Il problema della distribuzione delle stanze e la riflessione su come renderle comode e funzionali balza al centro della ricerca e della riflessione degli architetti. «Niente ci onora tanto quanto l’invenzione dell’arte di disporre gli appartamenti. Prima di noi [...] le case erano fatte solo per la vita di società, non per la comodità privata», sosterrà, forse con un po’ troppa boria, Pierre Patte, continuatore del Cours d’Architecture civile dello stesso Blondel279.

Nell’ambito di tale rinnovata ricerca di dimore comode, «deliziose e incantevoli» nelle quali si possa sfuggire ai «visitatori importuni» la separazione e specializzazione delle stanze assume particolare importanza280. La camera da letto, in particolare, diviene uno spazio consacrato al sonno e ad attività private: «è solo in caso di malattia che la camera da letto potrà accogliere una compagnia un po’ numerosa», spiega l’articolo dell’Encyclopédie ad essa dedicato281.

Ma nel Settecento tra i parigini solo uno su dieci ha una vera stanza da letto separata. Le cucine in cui ci si limita a preparare gli alimenti sono ugualmente rare, tanto all’inzio quanto alla fine del secolo. E ancora alla fine del periodo qui analizzato sala da pranzo, salotti e saloni sono sconosciuti nei ceti medi della popolazione282. Anche in questo contesto dominato dalla ristrettezza degli spazi si fanno tuttavia sentire nuovi bisogni: i sottoscala e i rispostigli in cui si accumulavano robe vecchie, legna da ardere e mille altre cianfrusaglie vengono trasformati in gabinetti, anticamere, guardaroba e altre minuscole stanzette che servono a garantire un minimo di intimità. Queste piccole dépendances si moltiplicano e tendono a perdere la loro originaria connotazione di spazi intermedi tra il dentro e il fuori. Vengono infatti meglio integrate nello spazio domestico vero e proprio283.

Nella capitale francese questi cambiamenti si accompagnarono ad altre trasformazioni: le unità abitative (quelle ovviamente che non si riducevano ad un’unica stanza priva di dépendances) erano spesso organizzate in verticale, con camere e bugigattoli dispersi talvolta su due, tre, addirittura quattro piani. Prima del 1720-30 l’organizzazione spaziale orizzontale, l’appartamento come lo conosciamo anche oggi, era insomma ancora rara: diverrà preponderante solo nella seconda metà del secolo284. Nella misura in cui comportava un «compattamento degli spazi» occupati da una singola famiglia, anche questa trasformazione contribuì allora a definire in modo più netto i confini tra esterno e interno, a creare dimore più chiuse su se stesse, un po’ meno aperte alla vita collettiva di tutto lo stabile in cui erano inserite.

Nel ghetto. La sera del 29 maggio 1782 un’ebrea torinese, Anna Tedeschi, stava accendendo il fuoco «per far cuocere un poco di minestra» dopo essere tornata dal funerale di un nipotino, partorito il giorno prima dalla nuora e sopravvissuto solo poche ore. Non aveva ancora finito l’operazione quando Giuseppe Tedeschi e suo figlio Serve, inquilini del «soffitto attinente», irruppero nella camera dove Anna era in compagnia del marito e della puerpera. Presa una pentola d’acqua, i due spensero il fuoco, sostenendo che il «fumo dava molta pena a loro». Serve affermò anzi che «non fosse l’ora di accendere il fuoco». Anna rispose che non aveva potuto accenderlo prima, dal momento che aveva dovuto assistere il neonato agonizzante e poi occuparsi della sua sepoltura. Ciò non valse a calmare gli animi, che anzi si scaldarono ancor di più: volarono insulti e bastonate, tanto che la povera Anna restò ferita al capo. Una giornata cominciata e finita male, per lei. Non sappiamo esattamente perché il suo nipotino fosse morto, ma quello di uscire di scena appena venuti al mondo era, allora, il triste destino di molti neonati. Possiamo invece affermare con una certa sicurezza che il sovraffollamento del ghetto torinese era una delle ragioni della violenta lite, se proprio non l’unica.

A Torino, come in altri ghetti, ad esempio quello romano, non era infatti permesso agli ebrei di allargare gli spazi loro assegnati: convertirsi era (deliberatamente) l’unica strada lasciata aperta a chi avesse voluto sfuggire all’affollamento. Anche nelle città in cui qualche espansione era possibile, si trattava comunque di opportunità molto limitate. Così – se anche fuori dai ghetti ebraici (introdotti dal Cinquecento) la crescita demografica provocò, talvolta, un aumento della promiscuità abitativa – al loro interno essa in genere si tradusse in una netta diminuzione dello spazio di cui ciascun abitante poteva usufruire. Altro che tendenza verso la specializzazione dei vani o creazione di spazi intimi e «privati»! Per gli ebrei dei ghetti (cui erano tra l’altro in genere precluse le proprietà immobiliari) la prospettiva era quella di vivere in una stanza; i più fortunati potevano al massimo permettersene due con in più una bottega.

Gli spazi erano spesso talmente ridotti che – oltre un certo limite – non aveva neppure senso accumulare beni e oggetti: il fatto che non fosse possibile investire in abbondanti beni materiali probabilmente contribuiva anzi, insieme ad altri fattori, a spingere i membri delle comunità ebraiche a investire in cultura e nell’arricchimento interiore.

Ma usciamo dall’atmosfera soffocante del ghetto e riprendiamo l’analisi delle condizioni di vita di chi non era forzatamente costretto in spazi chiusi e ristretti285.

Il villano e il cittadino. A Parigi, come si è visto, gruppi sociali diversi esprimono, ciascuno a suo modo e secondo le proprie possibilità, esigenze di intimità e privacy che possiamo classificare come simili. Rispetto ai fasti di questa grande capitale le condizioni di vita nelle campagne non sono però sempre e comunque improntate all’«arretratezza» dal punto di vista della disponibilità e dell’organizzazione degli spazi. Non sono necessariamente quelle di «selvaggi» rispetto ad un mondo «civilizzato», anche se la più frequente vicinanza tra uomini e animali che caratterizza il mondo rurale può indurre facilmente a bollare di «belluinità» tutti i suoi abitanti. Da questo punto di vista è significativo che Serlio – il primo architetto che si sforza di trovare soluzioni abitative per tutti i ceti sociali – nel sesto libro del suo trattato proponga una progressione della disponibilità e dell’articolazione degli spazi che procede in modo più o meno parallelo tanto in città quanto in campagna: in entrambi i contesti per i più poveri egli progetta case con un unico vano di abitazione, e man mano che risale la gerarchia sociale amplia e arricchisce le case suggerite286 (sulle case contadine progettate da Serlio Figg. 14-15).

Nella realtà sociale d’Età moderna il parallelismo costruito da Serlio non appare completamente fuori luogo. Ci sono zone, infatti, in cui lo sviluppo delle case rurali porta alla creazione di dimore ampie, nelle quali, come si è visto, la diversificazione funzionale degli spazi non tocca solo le attività produttive e di trasformazione dei prodotti agricoli (stalle, cantine, colombaie, granai, frantoi ecc.) ma anche la vita per così dire più strettamente domestica. In questo senso, i progetti degli architetti impegnati a rinnovare, con i loro interventi, il paesaggio dell’Italia centrale fin dal Quattrocento prevedevano, come si è detto, almeno una distinzione tra la cucina e la camera del capofamiglia e, in seguito, quella tra cucina e stanze da letto287. Di fatto nelle campagne toscane del Settecento il letto si trova quasi sempre in una camera, solo raramente in cucina o in una sala. Nel Seicento Jacob e Agatha, come altri contadini benestanti, hanno Stube, cucina e stanze da letto separate. Volgere lo sguardo alla relativa complessità della cultura abitativa rurale di una zona periferica come la Norvegia può contribuire a confermare l’impossibilità di considerare il mondo contadino come arretrato e «incivile». Certo i Vichinghi abitavano grandi case piuttosto rozze fatte con file di pali che reggevano un tetto di tronchi tagliati a metà ed erano circondate da muri di sassi e argilla, in cui uomini e animali vivevano sotto lo stesso tetto. Ma già nel XII secolo raggiungono la massima perfezione complesse costruzioni fatte con assi. A partire probabilmente dal Duecento, inoltre, si diffondono solide case di dimensioni relativamente piccole realizzate con tronchi interi, la cui elaborata tecnica costruttiva è probabilmente importata dalla Russia e dai paesi slavi. Inizialmente costituite da una sola stanza, queste case già in epoca medievale sviluppano spesso una struttura costituita da tre vani, mentre il diffondersi, nel Sei-Settecento, nelle zone orientali del paese, del camino a parete laterale al posto del focolare centrale permette non solo di liberare spazio nella stanza principale rendendo possibili attività più differenziate, ma anche di dotare i cottages di un secondo piano. I progressi della specializzazione, in Norvegia, si esplicano tuttavia anche nel diffondersi di fattorie composte, oltre che dal cottage, da vari piccoli edifici con funzioni specializzate. Ha centrale importanza, tra di essi, il magazzino, detto loft o stabbur, le cui caratteristiche principali si definiscono fin dal Medioevo. Generalmente costruito su due piani, usato in estate anche per dormire, esso incarna infatti la prosperità che deriva dal lavoro quotidiano. È pertanto riccamente decorato, tanto da rappresentare il «tesoro» di ogni fattoria288.

Dobbiamo allora ribaltare i termini della questione e concludere che le campagne anticiparono le città? Una risposta positiva sarebbe probabilmente scorretta. Ma sarebbe scorretta anche una risposta recisamente negativa. Entro certi limiti il mondo rurale e quello urbano hanno infatti avuto evoluzioni «autonome»: non certo prive di interdipendenze, ovviamente, come dimostra il fatto stesso che molti degli architetti che intervennero sul paesaggio rurale venivano dalla città e rappresentavano interessi cittadini. Ma legate alle specificità dei rispettivi ambienti. Nelle campagne l’esigenza di diversificazione funzionale poteva infatti essere particolarmente accentuata e il problema dello spazio meno impellente. Non a caso le ville che i ricchi si facevano costruire in campagna rappresentarono un campo di sperimentazione piuttosto libera grazie al fatto di non dover tener conto di tutti i vincoli dati dalla presenza di strade e altre abitazioni caratteristica dell’ambiente urbano289. «Asai case di gentilomini si truovano più belle et più proporzionate fuori delle cità che in esse cità, e questo avviene ché nella cità si truova di rado un sito a squadro et ancho isolato, ma alla campagna si puote dispore una casa di forma si vuole», notava a questo proposito Serlio290. A tutt’altro livello anche le case contadine potevano sfruttare qualcuno di questi vantaggi, anche se la diversificazione degli spazi, come abbiamo visto, era ben lungi dal coinvolgere uniformemente tutti i ceti rurali. Forse tuttavia (ma la questione meriterebbe ricerche più approfondite) in campagna disponibilità di spazio e senso del privato e dell’intimità si articolavano in modo diverso, rispetto alla città: in fondo, come più volte si è detto, le case dei mezzadri avevano spazi molto specializzati, ma poi ancora nell’Ottocento varie persone condividevano lo stesso letto291.

Verso la specializzazione. Le indagini finora condotte sembrano in definitiva indicare una diffusa tendenza alla specializzazione dei singoli ambienti delle abitazioni. In questo senso accanto a quello che è stato definito «lo spazio primordiale dell’abitazione», cioè la salle francese, la Stube tedesca, la hall inglese e via discorrendo, nascono nuovi ambienti: chambre, Zimmer, chamber, parlour, inner room, borning room... E tali spazi possono a loro volta subire ulteriori specializzazioni (camera da letto, da pranzo ecc.)292.

A quanto è dato di giudicare dai dati disponibili, che su molte realtà sono ancora carenti, tempi e tappe di tali trasformazioni variano a seconda dei contesti, anche se la seconda metà del Settecento pare un momento di grandi trasformazioni in molte zone. In questo senso in Inghilterra le stanze da letto da parata sembrerebbero diffondersi più tardi che in Italia e in Francia, ma anche forse scomparire prima. E i coniugi di alto ceto sociale sembrerebbero dormire insieme più spesso che sul continente293. A Londra poi la tendenza alla specializzazione delle stanze sembrerebbe abbastanza precoce, rispetto a molti altri contesti europei. E senza dubbio è tale rispetto al resto della Gran Bretagna. Certo nelle case londinesi del Seicento è dato di trovare letti praticamente in ogni tipo di stanza: nelle botteghe, nelle cucine, nelle halls. E di trovarli affiancati a tavoli, panche, sedie, stoviglie e agli oggetti più svariati, fatto che indica una certa promiscuità e una scarsa specializzazione dei vani. Ciononostante nel Seicento le stanze dei piani superiori sono usate prevalentemente come stanze da letto e la preparazione dei cibi avviene di solito in cucina294.

Complessivamente comunque aumentano un po’ dappertutto gli spazi specializzati, anche se è solo lentamente che dal viluppo originario si districano la stanza intesa come stanza da letto, come luogo privato destinato al riposo; la stanza da pranzo; lo studio; il salone e il salotto come luoghi delegati alla socialità e ai contatti con gli ospiti ecc. Ovviamente i cambiamenti ridisegnano nuovi confini tra i gruppi sociali: molte famiglie per tradizione e/o mancanza di spazio continueranno a vivere in vani dove si dorme, si mangia, si riceve e addirittura si lavora; altre introdurranno qualche novità nell’organizzazione dei loro spazi domestici ma non avranno mai, per esempio, una sala da pranzo, uno studio o una biblioteca. In linea di massima, comunque, il processo comporta l’individuazione, all’interno dell’abitazione, di spazi più privati e di spazi più aperti all’esterno. Implica dunque una profonda riorganizzazione del modo stesso di concepire la destinazione funzionale dei vani e anche le relazioni tra le persone che li abitano295.

L’«enfilade» e il corridoio. Nelle case e nei palazzi del Rinascimento e dell’Età moderna le stanze non solo erano spesso plurifunzionali. Di solito erano anche collegate in modo tale che non era possibile spostarsi dall’una all’altra senza attraversare quelle collocate tra il luogo in cui ci si trovava e il luogo che si voleva raggiungere. Facilitare gli spostamenti significava, allora, anzitutto, moltiplicare le porte: in molti palazzi rinascimentali ogni stanza aveva così due, tre, talvolta anche quattro porte. È sensato disporre le porte in modo tale che permettano di raggiungere il maggior numero di parti dello stabile, aveva scritto Leon Battista Alberti. Spazi abitativi organizzati in base a tale indicazione rimandavano ad una vita domestica in cui qualsiasi attività poteva essere interrotta in ogni momento dal passaggio di questo o di quello e nella quale erano frequenti gli incontri fortuiti con altri membri della famiglia o con gli ospiti di passaggio dovuti alla semplice necessità di spostarsi.

Come si è visto, nei grandi palazzi rintanarsi nelle parti più interne della casa erigendo una barriera di anticamere e costruire appartamenti personali dotati di uscite e scale segrete fu una delle soluzioni adottate per trovare un po’ di calma. Ma tale soluzione, se da un lato senza dubbio permetteva di «filtrare» l’accesso degli ospiti alle stanze personali e di sfuggire indisturbati davanti ai più sgraditi e petulanti, dall’altro non permetteva certo di isolarsi in modo netto dagli abitanti della casa, e in particolare dai servi. L’introduzione del corridoio avrebbe profondamente modificato questa organizzazione dello spazio e gli stessi rapporti tra le persone che vivevano sotto lo stesso tetto.

Quando si realizzò dunque questo mutamento? Ovviamente non è facile dare una risposta netta. Fin dall’antichità esistevano nelle case elementi architettonici simili a corridoi. Nel 1558 Maddalena Piccinini, la ragazza che abbiamo incontrato all’inizio del libro mentre ostentava il suo anello nuziale, diceva di aver compiuto il rito di matrimonio nella cucina di una coppia di amici posta «oltre il coridoro»296. Cosa intendeva? Secondo i dotti autori del Vocabolario degli Accademici della Crusca, il «corridoio o corritoio» è un «andito, sopra le fabbriche per andar dall’una parte all’altra, da alcuni detto in latino, pergula»297: una definizione che fa riferimento ad un’idea di corridoio non solo diversa da quella attuale, ma anche poco utile, parrebbe, a interpretare le parole di Maddalena, che presumibilmente con il termine «corridoro» indicava il passaggio che dalla porta esterna o dalla stanza principale dello stabile portava alla corte interna, elemento architettonico presente in varie abitazioni cittadine298.

Oltre che in città, qualcosa di simile a un corridoio poteva esistere anche in campagna: come abbiamo visto, a piano terra la casa di Agatha e Jacob era attraversata in tutta la sua larghezza da uno spazio di passaggio sul quale si aprivano cantine, stalla ecc.299.

Nelle dimore signorili fin dal Rinascimento, come si è detto, esistevano poi passaggi segreti e nascosti che davano su scalette o mettevano in comunicazione stanze diverse la cui entrata principale non era però certo quella dalla quale penetrava chi arrivava da questi angusti anfratti, fosse una cameriera o un amante clandestino. Essi erano infatti dotati di porticine non di rado occultate in un qualche angolo300. Sia la camera del marito sia quella della moglie «dovrebbe avere una porta separata, oltre la quale vi dovrebbe essere un corridoio comune che le colleghi, in modo che uno possa recarsi dall’altro senza essere visto da nessuno», scriveva Alberti301.

In effetti il duca d’Urbino aveva un passaggio attraverso il giardino che gli permetteva di recarsi nell’appartamento della sua sposa302. In questo caso il corridoio era dunque un elemento architettonico esterno: analogamente il termine «corridoio» era usato per indicare il passaggio coperto che permetteva al papa di recarsi dal Palazzo del Vaticano a Castel Sant’Angelo303.

Non mancava dunque il concetto di «corridoio». In tutti i casi descritti non si trattava però di corridoi nel senso odierno del termine, vale a dire di spazi lunghi e stretti sui quali si apre la porta di ogni singola stanza. E le tendenze architettoniche che si svilupparono dal Rinascimento in avanti implicarono, semmai, in una prima fase, una riduzione degli elementi simili all’attuale corridoio. Da un lato infatti la ricerca di isolamento grazie al filtraggio reso possibile dalle anticamere era in netto contrasto con il concetto di corridoio. Come è stato scritto, «una volta che il concetto di appartamento si fu pienamente sviluppato, la presenza di un corridoio vero e proprio avrebbe vanificato la sua intenzione di incanalare i visitatori attraverso una sequenza di stanze»304. D’altro lato la disposizione delle stanze en enfilade, in modo tale, cioè, che ognuna sfociasse in quella successiva, era preferita per motivi estetici e simbolici: la disposizione di una porta posta in ogni stanza alla stessa altezza del muro permetteva infatti di creare giochi prospettici e di ostentare ai visitatori la vastità del palazzo (Fig. 35). «Dalla sala si entra nelle anticamere, che per rendere magnifico il palazzo dovranno essere molte con le porte a fila, cioè una dirimpetto all’altra, sicché essendo tutte aperte, dalla prima si veda l’ultima camera», spiegava molto chiaramente Amico nella prima metà del Settecento riprendendo un tema caro a tanti architetti e proprietari di palazzi305. Con questo sistema nelle stanze che si trovavano agli angoli del palazzo si poteva addirittura avere il piacere di vedere attraverso le porte, in tutta la loro lunghezza, ben due lati della costruzione306.

Ma la scomodità di tale disposizione appariva molto chiaramente agli occhi di alcuni. «A che, per Dio, dunque servono quelle sterminate fughe di sale che, l’una in altra passando, atte non sono a ricevere un collocato letto, se non forse nell’ultima?», si chiedeva Martello nel 1718. Infatti, chi fosse stato «condannato» a dormire in una delle altre avrebbe dovuto rassegnarsi a veder «avanti a’ suoi piè corbettare chi tutte voglia ad una ad una trascorrerle, o per urgenza d’impiego, o per vaghezza di godere le dipinture, gli arazzi, gli scrigni, i vasellamenti, e le statue»307. Proprio l’introduzione del corridoio avrebbe permesso di trovare una soluzione soddisfacente a questo tipo di problemi.

Il primo corridoio «moderno» fu forse quello costruito in una residenza progettata a Chelsea, in Inghilterra, da John Thorpe nel 1597308. «Una lunga entrata che attraversa tutta la casa», veniva definita l’innovazione nel progetto, che all’epoca era una vera e propria curiosità309. Paradossalmente, visti i modelli italiani del­l’epoca, il corridoio centrale andò diffondendosi insieme all’imporsi dell’influenza italiana sull’architettura inglese. Coleshill House, nel Berkshire, progettata tra il 1650 e il 1667 dall’architetto dilettante Sir Roger Pratt per un cugino, rappresenta forse il caso in cui la nuova tecnica di distribuzione degli ambienti era impiegata in modo più radicale e sistematico: ogni piano aveva un corridoio che attraversava tutta la casa e che ad ogni estremità aveva una scala di servizio. Al centro dell’edificio si trovava un ingresso (hall) di due piani con una doppia scalinata. Ogni stanza aveva una porta che si apriva o sul corridoio o sulla hall (Fig. 36).

Nei suoi taccuini Pratt spiegava che il passaggio che attraversava tutta la casa nel senso della lunghezza rispondeva all’esigenza di non avere continuamente sotto gli occhi «il lavoro nelle stanze di servizio»: Pratt voleva insomma superare un tipo di distribuzione delle stanze che imponeva ai padroni di casa, volenti o nolenti, di passare attraverso le aree di servizio quando si spostavano da una parte all’altra dell’edificio. Nello stesso tempo il corridoio avrebbe permesso di evitare che i domestici, per svolgere le loro mansioni, fossero costretti a passare attraverso le stanze in cui si trovavano i padroni310.

Di fatto, tuttavia, il modello della camera dotata di un’unica porta aperta sul corridoio non si impose subito. «La parola corridoio, signora, è straniera, e significa in inglese nient’altro che passaggio, tuttavia oggi è generalmente usata come una parola inglese», spiegava ancora all’inizio del Settecento l’architetto e drammaturgo John Vanbrugh alla duchessa di Marlborough311. E quando, nel 1728-32, l’architetto James Gibbs progettò la residenza di Kelmarsh, nel Northamptonshire, dotandola di un corridoio sul quale si affacciavano tutte le stanze, c’era ancora chi considerava tale soluzione una vera e propria novità. In seguito, tuttavia, pian piano i ricchi l’adottarono tutti312. Ma ci volle del tempo. E in una fase per così dire intermedia le stanze ebbero spesso sia porte che le mettevano in comunicazione le une con le altre, e questo soprattutto per l’esigenza estetica di creare giochi prospettici, sia porte che davano sul corridoio, giustificate non da motivi estetici, ma funzionali. I motivi funzionali avrebbero alla fine avuto il sopravvento, trasformando ogni stanza in un’unità isolata: le attività svolte all’interno di ciascuna vennero completamente sottratte allo sguardo o alla possibilità di essere interrotte dal casuale passaggio di uno dei membri dell’unità abitativa. Ne veniva facilitata la comunicazione legata a scopi precisi, mentre diminuiva quella dovuta agli incontri fortuiti313.

La trasformazione probabilmente esprimeva, e al contempo rafforzava, un nuovo senso del pudore, un crescente bisogno di sottrarre alcune attività allo sguardo altrui, una più marcata esigenza di selezionare le persone con cui condividere determinate pratiche, un più profondo desiderio di passare una parte del proprio tempo in solitudine314. Ma al di fuori della ristretta cerchia dell’élite, e di quella inglese in particolare, l’imporsi del corridoio è fenomeno soprattutto otto-novecentesco.

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