Capitolo IV.

Tavoli, sedie, poltrone e socialità

Cinque dipinti, tre tavoli, una culla e una sedia da bambino, alcuni libri, ceramiche e mattonelle di Delft, boccali e piatti di peltro, un arcolaio, sette tende di pizzo, due letti e una panca con sopra un materasso, una cassapanca, un armadio per la biancheria, vari cuscini, due specchi, circa venti seggiole, sei completi di biancheria da letto, quarantuno tovaglioli e una gabbietta per uccelli: questi, stando all’inventario che ne fu fatto, erano i beni del sarto olandese ter Hoeven, le cui condizioni di agiatezza erano mediocri, quando la sua casa venne venduta, nel 1717. Per quanto riguarda l’Olanda ter Hoeven è stato considerato un esempio «ragionevolmente tipico del suo gruppo sociale»211. A giudicare dall’inventario dei beni la dimora della sua famiglia appare abbastanza confortevole. Tutte le abitazioni di città erano così ben fornite di tavoli, di sedie, di mobili? Dopo aver visitato varie case contadine e aver analizzato come fossero i letti osserviamo meglio la dotazione e l’arredamento degli interni urbani.

Rispetto agli interni contadini, quelli di città, e quelli di grandi città come Parigi o Londra in particolare, appaiono in genere più ricchi di mobilio e di oggetti, soprattutto di oggetti nuovi o raffinati. Abbiamo visto le tappe della diffusione di tavoli e sedie in ambienti rurali o semirurali: nel XVIII secolo una percentuale non indifferente, seppure decrescente, ne è sprovvista. Come negli interni olandesi, nella capitale francese nel Sei-Settecento ne troviamo invece in gran quantità: in media ci sono 3 o 4 tavoli per abitazione (anche i gagne-deniers ne hanno in genere almeno due). Non di rado si tratta di tavoli pieghevoli, adatti dunque agli spazi ristretti della vita cittadina. In ogni casa c’è inoltre mediamente una dozzina di sedili. In larga maggioranza sono sedie. Ma ci sono anche sgabelli, panchetti, poltrone e divani212.

Un tempo molto più diffusi delle seggiole, panche e sgabelli nel corso del Settecento risultano però ormai in calo. Nel secolo dei Lumi si diffondono anche poltrone e divani, introdotti rispettivamente all’inizio e alla fine del Seicento. Se il divano nasce come suggestione orientale (il suo nome, sofa, deriva dall’arabo suffa, cuscino), la poltrona, che lo anticipa, costituisce un’evoluzione e un arricchimento del seggiolone, cioè della sedia con i braccioli che nelle case patrizie rinascimentali era spesso una dotazione specifica del padrone di casa, quasi un simbolo del suo potere nell’ambito domestico. Tale seggiolone, che in occasioni particolari poteva venir ceduto ad ospiti degni di onori particolari, era infatti più grande sia della sedia della moglie sia di quelle, pur dotate di una certa imponenza, dei familiari di rango inferiore al padrone. Nella fattura delle sedie e nella possibilità di usarle potevano dunque rispecchiarsi precise gerarchie, tanto familiari quanto sociali. Ma anche gli asimmetrici rapporti tra uomini e donne avevano la loro traduzione nei sedili: esistevano infatti sedie pro muliere o «da donna». E – fosse per rimarcare la subordinazione femminile o per fornire un sedile adatto alle donne, che più degli uomini stavano in casa, sedute – fatto sta che tali sedie erano molto più piccole della media213.

Come si vedrà meglio nelle prossime pagine, l’accesso alle sedie, nei contesti in cui esse sono scarse, continua a lungo a riflettere ed esprimere asimmetrie e gerarchie214. A quest’epoca, come si ricorderà, nelle campagne più povere ci sono ancora case completamente sprovviste di sedili, nelle quali ci si può accomodare solo per terra, o eventualmente sul cassone e sul letto. In una capitale come Parigi invece ce n’è in abbondanza anche in appartamenti dove vivono famiglie di bassa estrazione sociale215. Ma non tutte le città sono così ben fornite. A Venezia, ad esempio, nel Settecento non sempre è dato di trovare un «careghin». Dunque anche in questo caso a fungere da sedili sono il cassone (ancora diffuso) e il letto, che è ormai una presenza generalizzata, mentre nel Cinquecento non erano poche le famiglie che avevano solo un materasso o un pagliericcio. La funzione di sedile che il letto può svolgere contribuisce forse a spiegare perché esso possa essere un luogo di socialità216.

Analogamente, la pletora di sedili presenti nelle case parigine non può essere giustificata solo sulla base del grande numero di abitanti che ogni casa nasconde, per riprendere lo stupore di un uomo di lettere dell’Hainaut. Gli abitanti di ogni singola unità abitativa, infatti, sono in genere molto meno numerosi dei posti a sedere, che sono in media una dozzina, come si è detto. Le abitazioni formate da un unico vano, che rappresentano il 31% del totale, ospitano di solito due o tre persone. Quelle composte di due o tre vani (42%) sono abitate da tre o quattro individui. E analogo è l’affollamento delle dimore che hanno da tre a sette vani (20%). Solo quelle di dimensioni ancora superiori (7%) ospitano molte persone, in buona parte domestici217.

L’alto numero di sedili, così come la presenza di tavoli pieghevoli, probabilmente rimanda allora ad una socialità intensa. Possiamo immaginare feste nei saloni della nobiltà o conversazioni dotte ed eleganti nei salotti di raffinate animatrici culturali arredati con divani e poltrone di legni preziosi, velluti o damaschi. Ma possiamo anche figurarci dimore popolari affollate di amici, vicini e/o parenti seduti su semplici sedie impagliate davanti al fuoco o intorno alla tavola – alcune delle donne con fuso e conoc­chia in mano – intenti a chiacchierare o a giocare a carte oppure presi nell’ascolto di uno dei membri della compagnia che legge un libro ad alta voce.

Certo in Età moderna va diffondendosi la lettura compiuta individualmente utilizzando solo la vista e nelle case più ricche si moltiplicano gli spazi adatti a tale attività solitaria218. Ma la lettura ad alta voce costituisce un’importante forma di socialità e comunicazione, almeno in parte resa necessaria dalla presenza di analfabeti (più o meno consistente a seconda delle zone, dei gruppi sociali e del sesso) e, perché no, dalla stessa relativa scarsità dei libri219. Pur non numerosi, in città i libri sono tuttavia presenti anche nelle case dei ceti medio-bassi. Verso il 1700, nella capitale francese ce n’è almeno uno nel 13% degli inventari post-mortem di salariati e nel 30% di quelli di domestici. Ottant’anni dopo tali percentuali si attesteranno rispettivamente attorno al 35 e al 40%. Sul complesso delle famiglie la percentuale dei possessori di qualche volume è circa il 23% verso il 1750; più alta, ma comunque probabilmente inferiore al 50%, nella seconda metà del secolo. A Londra gli inventari che elencano libri sono il 31% già tra il 1675 e il 1725, laddove nelle altre città inglesi la percentuale oscilla tra il 21 e il 23%, e nelle campagne è del 17%220.

Le noiose elencazioni contenute in inventari polverosi, vecchi di secoli, ci lasciano tuttavia intuire anche altre forme di socialità, di svago e divertimento. Nella Venezia del tardo Cinquecento, che pure è un grosso centro editoriale, i libri sono ancora piuttosto scarsi e i notai che compilano gli inventari non paiono avere con essi molta confidenza, visto che raramente li citano con autore e titolo, preferendo espressioni vaghe come «libri grandi e piccoli», «libri greci e latini», «libri de umanità». Non mancano ovviamente le eccezioni: quando in casa di qualcuno trovano una copia dell’Orlando furioso di solito lo definiscono «un Ariosto» e di tanto in tanto ci forniscono elenchi di libri piuttosto dettagliati. Scopriamo così ad esempio che l’intagliatore Andrea Fosco, piuttosto noto ai suoi tempi, accanto ad altri testi possedeva «un libro di architettura in foglio grande, un libro di Sebastian Serlio in folio, un libro di Leon Battista Alberti di architettura in quarto e un libro ditto [= detto] di cinque ordini di architettura di Giacomo Barotio da Vignola». Oltre ai libri, Andrea possedeva anche un «liuto con la sua cassa»: se la sua biblioteca appariva abbastanza anomala, non era tale il possesso di uno strumento. All’epoca, infatti, nella città veneta i notai ne registravano la presenza anche in abitazioni modeste, mentre negli ambienti mercantili e patrizi il 90% degli inventari includeva clavicembali, cetre, lire, arpe e/o altri strumenti: calli e campielli dovevano risuonare spesso delle loro note. La loro presenza massiccia ci lascia così immaginare una vita musicale vivace, e disegna una situazione lontanissima da quella che ancora due secoli più tardi caratterizzerà piccoli centri rurali come il villaggio francese di Genainville, dove gli strumenti musicali risultano completamente assenti; ma distante, parrebbe, anche da quella di una capitale come Parigi, dove nel Settecento gli strumenti musicali sembra fossero poco diffusi al di fuori della cerchia dei musicisti di professione221.

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