Capitolo IV.

L’ambiente urbano

Case fitte e odori intensi. Addentriamoci, allora, in una città: entriamo da una delle sue porte. Ad esclusione della maggioranza di quelle inglesi, infatti, quasi tutte le città europee in Età moderna sono circondate da mura, che dal XVI secolo vengono spesso sostituite con costosi bastioni e terrapieni in grado di resistere alle cannonate135. Questa trasformazione rende praticamente impossibile modificare i confini dello spazio urbano limitandosi ad abbattere la cinta e a ricostruirne una più ampia, come si era fatto in passato quando la crescita demografica rendeva angusti gli spazi cittadini.

Ma, lo si è visto, in molte città d’Età moderna la popolazione cresce: dunque che fare? Come risolvere il problema della disponibilità di spazio? Ecco che si sfruttano gli spazi liberi all’interno delle mura. Le case (non i palazzi dei ricchi) si allungano all’interno, presentando sulla strada solo il lato più corto. «Le abitazioni dei più poveri uomini nelle città [...] sono strette ma longhe», scrive Serlio136. Si sviluppano poi gli stabili ad appartamenti. Nelle città italiane all’inizio del Cinquecento essi sono rari, ma nel corso del secolo a Napoli, Genova e Venezia si moltiplicano. A Roma dopo il 1650 appaiono anche palazzi ad appartamenti destinati a ceti sociali diversi: famiglie di ceto sociale elevato al «piano nobile», famiglie di ceto più basso agli altri piani. Da Roma questa tipologia si estenderà ad altre città, soprattutto a Torino e a Napoli137. Il numero dei piani infine aumenta. Pur costruita sull’acqua, Amsterdam nel corso del Seicento vede le case di quattro piani moltiplicarsi a scapito di quelle di due o tre. A Parigi nel 1667 viene vietato per legge un innalzamento superiore a 15,60 mt e nel 1783 viene imposto il rispetto di un rapporto tra altezza degli edifici e larghezza delle strade. Verso la metà del Settecento predominano gli stabili di quattro piani, ma negli anni successivi si nota un’ulteriore tendenza all’elevazione: ci sono case di sei-sette piani, o forse più138. In certe zone della città vivono circa 500 persone per ettaro. In alcuni quartieri londinesi 800. Ma nel Settecento, a Marsiglia, nella città vecchia si arriva a 1000, mentre in alcune parrocchie veneziane, nel tardo Cinquecento, addirittura a 2000: le città di mare sono in effetti spesso particolarmente affollate139. E in molte città fuori dalle mura crescono caotici e squallidi sobborghi che in alcuni casi stemperano il confine tra il mondo rurale e quello cittadino.

Ciò tuttavia avveniva mentre il paesaggio schiettamente urbano da molti altri punti di vista si differenziava sempre più da quello rurale, sebbene nelle città continuassero a esistere orti e giardini e, soprattutto nei centri medio-piccoli, la campagna continuasse almeno parzialmente a pervadere, per così dire, con i suoi ritmi, le sue esigenze, i suoi colori e i suoi odori, la vita cittadina, che peraltro a sua volta non di rado proiettava sulle campagne circostanti le sue richieste, i suoi capitali, i suoi poteri140.

Quanto più le città erano grandi tanto meno si sarebbe infatti potuto sentire, al loro interno, il profumo dei campi: come in molte case contadine, le sensazioni olfattive, nell’ambiente urbano, dovevano anzi essere assai forti e sgradevoli, almeno per la nostra sensibilità141. Ma già prima dell’incendio del 1666, che la distrusse in buona parte, Londra cresceva a occidente per sfuggire ai miasmi dei fitti abitati della parte orientale, giacché il vento soffiava da ovest: anche allora, insomma, non mancava una certa sensibilità al fetore142.

Rifiuti e immondizie. Di fatto, nei centri urbani l’alta densità di popolazione rendeva in genere molto più complesso e problematico che in campagna lo smaltimento dei rifiuti. In Europa le uniche città pulite pare fossero quelle olandesi, a giudicare dall’ammirato stupore che in genere suscitavano negli stranieri. «La bellezza e la pulizia delle strade sono così straordinarie», scriveva un viaggiatore inglese a tal proposito, «che persone di ogni ceto non soltanto non esitano, ma sembrano persino trarre piacere dal camminarvi»: esse sono linde come «un qualsiasi pavimento di una camera da letto»143.

Ma se in Olanda, dove la pulizia finiva per simboleggiare la libertà, i cittadini perbene consideravano un dovere civico lavare il selciato davanti alla propria casa144, altrove la situazione si presentava completamente differente. Le strade erano imbrattate dal letame degli animali impiegati per trainare carri e carrozze e da quello dei porci e degli animali allevati nelle corti e nelle strade. Ancora nel 1746 a Venezia veniva proibito di allevare i maiali: segno che in città non mancava chi lo faceva145. Non di rado i pitali erano poi vuotati sulla pubblica via, talvolta senza neppure preoccuparsi del fatto che qualcuno potesse venirne investito: il 30 agosto 1740 tal Falgherij, «servitore del Signor Senator Vizzani», querela un uomo che «aggiusta occhiali alla strada del merca­to di mezzo», a Bologna, «per haverlo bagnato nelle braghe e nel corpetto nel buttare una catinella di piscio inavvertentemente»146. Addirittura nella linda Olanda non doveva mancare chi si sbarazzava in tal modo dei rifiuti: certo la normativa prevedeva che chi fosse stato insozzato da sporcizia gettata dalla finestra nelle strade principali potesse chiedere un risarcimento. Ma il semplice grido «attenzione all’acqua!» tutelava gli abitanti da analoghe richieste quando vuotavano pitali e catini nelle strade laterali147.

Cercavo qualcosa da mangiare nella «merda» perché «mi morevo dalla fame», racconta un altro uomo le cui parole sono rimaste impigliate nelle carte processuali bolognesi. Le sue parole così testimoniano, oltre alla gravità della carestia del 1590, anche il fatto che in città c’erano cumuli di escrementi148. E questo nonostante non poche persone ancora all’inizio dell’Ottocento vivessero raccogliendo e vendendo ai contadini le «bovazze»149. Evidentemente il loro lavoro non era sufficiente a ripulire la città. Lo stesso si può dire delle fatiche dei vagabondi «validi» che si ­voleva togliere dalla strada costringendoli a lavorare, dal momento che erano spesso impiegati proprio nella raccolta degli escrementi150. Per quanto dunque il letame fosse raccolto e impiegato come concime, e in alcune zone anche come combustibile o addirittura come detersivo151, le città ne erano solitamente imbrattate.

Nell’Europa occidentale mancavano quasi completamente, d’altronde, i bagni pubblici, tanto diffusi in Oriente. Un siriano che a fine Seicento si trovava a Parigi lo sperimentò con grande disagio, come narrò egli stesso a Guillaume-Joseph Grelot. L’uomo, infatti, che era di Damasco, in una calda estate parigina «pensò, per rinfrescarsi, di mangiare un gran piatto di cocomeri e latte cagliato, e poi di andare al faubourg S. Marcel dove aveva degli affari», riporta Grelot. «Tornando da questa passeggiata l’agitazione del cammino e la freschezza dei cocomeri al latte che aveva mangiato, insieme con il calore del clima, cominciarono a agire sul suo ventre; e mentre si trovava verso la piazza Maubert, fu preso dal bisogno di andare al gabinetto». «Dal momento che il suo male aumentava ad ogni passo, egli cominciò a guardare da tutte le parti se non trovava questi Adepkanas così puliti e comodi che ci sono al suo paese: ma non vedendo da ogni parte che una gran folla di gente, negozi aperti e strade che non erano adatte a scaricarsi di un fardello così pesante, egli si sentì forse la persona più imbarazzata di Parigi, non sapendo cosa poteva fare in questa occasione. Questa situazione, grave per un Musulmano, gli faceva sospirare il Geroun di Damasco, che è una grande piazza circondata da trenta di questi necessari luoghi comuni. [...] Ma al centro di Parigi, dove si trovano più uomini che pietre sul selciato, che fare per non essere visti e notati in una posizione così poco conforme alla pudicizia? Tutte queste riflessioni non impedirono al povero siriano di arrendersi alla violenza del suo così pressante bisogno prima del ponte del Cambio. Egli fu così obbligato a lasciare la presa». Allora, prosegue Grelot, «si augurò ancor più ardentemente di tutto quello che aveva chiesto prima di trovare al posto del grande Châtelet i bagni tiepidi e salutari che sono nell’isola di Milo, un po’ lontani dalla città, per potersi ritirare e pulire subito dentro, attendendo che qualcuno avesse voluto lavare i suoi abiti, o portargliene degli altri»152. Ma, a differenza dei musulmani, che erano abituati a bagni e lavande, previste anche tra i rituali della loro religione, a quest’epoca gli occidentali guardavano l’acqua con grande sospetto. La situazione che tanto scandalizzava e imbarazzava il viaggiatore siriano allora preoccupava ben poco i parigini, abituati, come molti europei, a città prive di gabinetti pubblici153.

Escrementi umani e animali non erano tuttavia i soli rifiuti che insozzavano le strade. Accanto ad essi c’erano infatti quelli, talvolta fortemente inquinanti, che derivavano da alcuni tipi di lavorazioni e attività, dai macelli alle concerie, che non a caso in molte località si cercava di concentrare in zone marginali.

Nell’analizzare le cause di tanta sozzura non bisogna trascurare il ruolo del fondo stradale. Le strade olandesi sono pulite anche perché sono «lastricate con mattoni». Si tratta di una tecnica originariamente introdotta nell’Italia medievale. Agli inizi del Quattrocento, ad esempio, Perugia è oggetto di ammirazione perché «dentro tucta la piazza è mattonata per choltello», in modo tale, cioè, da avere una particolare resistenza alle pressioni dovute al transito. All’opposto, la sporcizia e la mancanza di igiene di molte altre città dipendono anche dal fatto che la pavimentazione manca del tutto oppure, quando c’è, è limitata alle vie principali; per il resto le strade sono sterrate o coperte solo di sabbia e ciottoli. Pioggia, acque di scolo e rifiuti vi formano dunque pozzanghere, fango e melma. Non a caso, è proprio per ridurre il fango che viene schizzato dappertutto al transito dei carri e rende impraticabili le strade, che fin dal 1185 Filippo Augusto avvia la lastricatura di Parigi. Nel corso dell’alto Medioevo, infatti, la tradizione romana di pavimentare le strade è caduta in disuso, e ci vogliono secoli perché il trend, per così dire, si inverta. In questo senso nella Roma medievale sono lastricate solo le strade in cui sopravvive la pavimentazione antica: bisogna attendere il pontificato di Sisto IV (1471-1484) ­perché venga fatto obbligo di lastricare le vie principali. Anche in altre città italiane, come Mantova o Genova, il XV secolo è un periodo di importanti interventi. In molti altri contesti, invece, l’innovazione è più tardiva: la pavimentazione di Londra non comincia che nel 1533. Ma a fine Settecento c’è chi pensa che la city londinese abbia il selciato, l’illuminazione e le condizioni igieniche migliori d’Europa. La city tuttavia non è rappresentativa dell’intera città; l’East End, in particolare, versa in condizioni drammatiche. Nel secolo dei lumi la lastricatura di alcune città italiane riesce comunque ancora a destare una certa ammirazione, se Montesquieu loda quella di Firenze. Ma nel secolo successivo l’Italia, da questo punto di vista, resta relativamente indietro, rispetto ai contesti europei più avanzati. Nel 1885, nel 38,3% degli 8258 comuni italiani inquisiti dopo l’ultima grave epidemia di colera tutte le strade sono sterrate; nel 24,4% sono selciate solo quelle più importanti: i comuni che le hanno quasi tutte pavimentate non sono che il 37,3%. L’accenno al colera ci ricorda che il problema creato dalla mancanza di pavimentazione non era solo quello di inzaccherarsi le scarpe o i bordi della gonna. A causa di tale mancanza, infatti, i rifiuti penetravano facilmente nel sottosuolo, contribuendo all’inquinamento delle falde acquifere, spesso esposte anche a infiltrazioni dalle fosse biologiche154.

In Età moderna, in effetti, esse andarono moltiplicandosi nei cortili o in qualsiasi altro spazio disponibile. Nel Cinquecento Serlio proponeva in effetti case per i ceti popolari fornite di «necessario», cioè una latrina che poteva essere collocata in fondo all’orto, nel cortile, in un angolo vicino al letto, in cucina155. Nella Londra del Seicento le case spesso attorniavano un cortile che conteneva una latrina, una pompa e altri servizi usati in comune dagli abitanti degli edifici che si affacciavano sulla corte156. Verso la fine del periodo qui analizzato c’era ormai di solito almeno un gabinetto in ogni stabile. In genere era posto proprio nella corte o negli spazi comuni. Nelle case di un certo livello i gabinetti pote­vano essere abbastanza numerosi ed essere in parte ­comodamente collocati vicino alle stanze da letto157. Ma poiché le fognature erano rare, gli scoli di cessi e latrine finivano generalmente per l’appunto in fosse biologiche e pozzi neri158. Proposto già nel 1596 da Sir John Harington, il più igienico gabinetto ad acqua corrente avrebbe cominciato a diffondersi solo alla fine del periodo che stiamo studiando159. L’uso delle latrine era invece affiancato da quello dei vasi da notte e, tra i più ricchi, da quello delle seggette, cioè delle sedie che contenevano un pitale160. Vasi e pitali erano però vuotati anch’essi nei pozzi neri o direttamente sulla strada, come si è visto.

Affollamento, limitata o carente pavimentazione e pericolosa vicinanza tra pozzi e latrine rendevano insomma assai grave il problema delle infiltrazioni e dell’inquinamento delle acque. «Il pozzo deve sempre essere lontano dai pozzi neri almeno tre tese [pari a 5,84 mt]», scriveva Augustin-Charles D’Aviler nel suo Cours d’Architecture (1691), preoccupandosi, come altri architetti, di ridurre il problema al minimo. E «se la fossa biologica non può essere lontana dal pozzo per mancanza di spazio, è necessario fare, oltre al muro della costruzione contro il quale è addossata [...], un muro di rinforzo [...] dello spessore di diciotto pollici». La pavimentazione del fondo della fossa deve infine essere inclinata, in modo da salvaguardare il più possibile il pozzo161. C’è tuttavia da chiedersi quante, tra le fosse che si andavano moltiplicando, rispettassero tali requisiti minimi di sicurezza, visto che le acque dei pozzi erano spesso inquinate162.

L’approvvigionamento idrico. L’inquinamento dei pozzi, che rappresentavano una delle principali fonti di approvvigionamento idrico, rendeva ancor più grave il problema di procurarsi l’acqua necessaria, problema che in città si poneva in termini assai diversi che in campagna. In campagna, infatti, le difficoltà nascevano soprattutto dalla distanza da percorrere. Non tutte le case, infatti, avevano un pozzo, una fontana, un fiume o un ruscello nelle vicinanze. Certo almeno in Inghilterra praticamente tutti avevano un contenitore dove raccoglievano l’acqua piovana. Ma di solito essa non era sufficiente. Le donne di casa dovevano così armarsi di secchi, brocche o altri recipienti e percorrere distanze anche lunghe per procurarsene la quantità di cui avevano bisogno. Infatti, mentre i venditori d’acqua (presenti soprattutto in città) erano generalmente uomini, il compito di prendere l’acqua al pozzo o alla fontana per gli usi domestici era di solito un’incombenza delle donne, oltre che di bambini e servi. Dura e faticosa per il peso dell’acqua, essa diveniva particolarmente ingrata nei casi in cui la siccità costringeva a percorrere distanze maggiori del solito per avere il minimo necessario a cucinare un po’ di minestra o di tè. Da un’indagine condotta in Inghilterra all’inizio del nostro secolo su un campione di case di braccianti risultò che il pozzo più vicino era spesso a 400 mt di distanza e da una successiva inchiesta sulla Scozia emerse che oltre la metà delle abitazioni era priva di acqua corrente: la distanza dall’acqua variava da circa venti metri a oltre un chilometro e mezzo163. Molto probabilmente dal punto di vista dell’approvvigionamento idrico le condizioni di vita delle famiglie che le abitavano erano simili a quelle che in Età moderna erano la norma.

Il problema della distanza, in città, pare fosse di solito meno sentito: le fonti di approvvigionamento erano più numerose e varie. Da un lato è vero infatti che, anche laddove c’erano stati cloache e acquedotti romani, nel Medioevo essi erano in genere caduti in disuso e solo in rari casi erano stati in seguito ripristinati o affiancati da analoghe opere idrauliche. Ma, d’altro lato, a partire dal Quattrocento le realizzazioni cominciarono ad essere più numerose. A Roma papa Nicolò V (1447-1455) fece rinascere la cosiddetta Acqua Vergine, che risaliva al 22 a.C. In seguito – per restare nella città eterna – Sisto V fece portare l’Acqua Felice e Paolo V nel 1609 restaurò l’Acqua Traiana, che si chiamò, da allora, Acqua Paola. Spostiamoci in Francia. A Parigi nel 1457 venne ripristinato l’acquedotto di Belleville, che andò così ad affiancare quello del Pré-Saint-Gervais, una delle poche opere medievali in tale campo; nel 1613 Maria de’ Medici fece risorgere l’acquedotto di Arcueil e oltre mezzo secolo dopo Luigi XIV intraprese i lavori per portare nella capitale le acque dell’Eure. Guardiamo ora alla Penisola Iberica. Nel 1481 tornò in funzione l’imponente acquedotto di Segovia. Nel Seicento in Portogallo – caso eccezionale – erano attivi gli acquedotti di Coimbra, Tomar, Vila do Conde, Elvas. Tra 1729 e 1748 a Lisbona ne fu poi costruito uno nuovo, quello das Águas Livres (delle Acque Libere). Infine il Regno di Napoli (ma senza alcuna pretesa di esaurire, con questa rapida carrellata, l’elenco degli interventi). Nel Settecento Carlo III di Borbone fece realizzare un acquedotto, su disegno di Vanvitelli, per portare l’acqua nella sua splendida reggia di Caserta. Insomma, a partire dal XV secolo ci fu un certo sviluppo degli acquedotti, che contribuì a moltiplicare le fonti di approvvigionamento idrico caratteristica dei contesti urbani, dove era pertanto possibile, di solito, procurarsi dell’acqua senza dover percorrere lunghe distanze. L’aumento degli acquedotti favorì infatti il moltiplicarsi delle fontane. In città, d’altronde, anche i pozzi erano di solito piuttosto numerosi164.

L’acqua però era più facilmente inquinata. Chi si recava al pozzo o alla fontana a causa dell’affollamento era poi più spesso costretto a fare la fila. Certo l’attesa poteva essere un’occasione per far due chiacchiere con le vicine. Ma se si prolungava per tre o quattro ore, come ad esempio pare non fosse raro a Exeter negli anni Venti dell’Ottocento, rischiava di divenire davvero ­sfibrante. E se faceva freddo o picchiava il sole alla noia non poteva che aggiungersi il vero e proprio disagio. Sembra che le quantità ­d’acqua trasportate da una donna adulta oscillassero tra i cinque e i ­trenta litri alla volta, e che la media si aggirasse sui quindici litri: chi li doveva trascinare fino al quarto, al quinto o al sesto piano faceva uno sforzo forse anche maggiore di chi doveva percorrere un chilometro con una brocca sulla testa o i secchi in mano165. Una soluzione più semplice poteva allora essere quella di acquistare l’acqua dai venditori ambulanti presenti in molte realtà. Ma si ­trattava di una soluzione costosa, che non tutti si potevano permettere166.

A parte alcuni monasteri e alcune realtà particolari, solo molto lentamente pompe e canalizzazioni cominciarono a portare l’acqua nelle case dei primi privilegiati. Il rinascimentale Palazzo Ducale di Urbino aveva un invidiabile sistema di fornitura d’acqua potabile e di scolo delle acque sporche. Nel 1530 papa Clemente VII si fece costruire a Castel Sant’Angelo un bagno con tanto di rubinetti dell’acqua calda e fredda. Nel 1596 Sir John Harington aveva inventato, come si è visto, un vero e proprio water closet. E gli architetti si preoccupavano di fornire le cucine dei più ricchi di abbondante acqua corrente (Fig. 49). Ciononostante a lungo solo pochissimi poterono godere di analoghe comodità167. In tutta la Gran Bretagna Londra, all’avanguardia anche a livello europeo, era l’unica città che aveva una certa varietà di sistemi idraulici: verso il 1660 una parte della popolazione aveva acqua da condotte appositamente costruite; altri sfruttavano una pompa azionata da una ruota mossa dalla corrente del Tamigi o da cavalli; a London Bridge dal 1582 era in funzione una macchina che alzava l’acqua del fiume168.

Nel Seicento i ricchi si rivelarono interessati ai problemi idraulici. In parte ciò dipendeva da motivi estetici, a causa della moda delle fontane e dei giochi d’acqua nei giardini. In Francia, in particolare, si spesero cifre da capogiro per costruire opere faraoniche. Ma in parte l’interesse, soprattutto in Inghilterra, era anche di carattere più direttamente scientifico e tecnico. Ne risultarono varie innovazioni, che tuttavia si imposero con lentezza. In questo senso, nonostante la presenza di acquedotti e – dal XVII secolo – di pompe, buona parte della popolazione di una città come Parigi continuò a lungo a fare affidamento sui pozzi. Nella capitale francese si faceva inoltre ampiamente uso delle acque inquinate della Senna, che agli stranieri pare provocassero inevitabilmente diarree e altri disturbi. La città offriva pertanto lavoro a migliaia di portatori e venditori d’acqua. L’inaugurazione, nel 1782, delle pompe dei fratelli Perrier per la fornitura d’acqua a domicilio minacciò di farne dei disoccupati, ma l’impresa fu presto travolta da uno scandalo finanziario (1788) e si dovette attendere a lungo per assistere alla loro completa scomparsa169.

La disponibilità idrica pro-capite dei parigini, all’inizio del XVIII secolo, era probabilmente di meno di 5 litri al giorno per persona: una quantità inferiore a quella che nel 1970 l’Organizzazione mondiale della sanità riteneva il minimo indispensabile al mantenimento della vita. Arrivava forse a 10 nel 1789, laddove nel 1976 nelle città con più di 10.000 abitanti il fabbisogno idrico pro-capite quotidiano era stimato in oltre 400 litri, addirittura in 1500-2000 nelle metropoli americane, canadesi e australiane degli anni Ottanta170. In base ai calcoli effettuati, in Gran Bretagna la maggioranza degli abitanti delle città che non avevano acqua corrente probabilmente solo in casi eccezionali ne consumava più di 25 litri, e in media si accontentava di circa 15 litri171. A Bologna, dotata di una fitta rete di canali che con un complesso sistema di chiaviche portavano l’acqua nelle cantine di molte case, d’estate, quando essi erano quasi asciutti, si faceva il bucato con una melma scura, densa e inquinata172.

Non a caso allora la mortalità per tutta l’Età moderna fu più alta nei centri urbani che in campagna. L’ambiente cittadino infatti era poco salubre, favorevole alla diffusione di malattie173. Se le città crebbero, fu insomma solo grazie a massicci flussi migrato­ri dalle zone rurali. Conseguenza neppure troppo paradossale del­l’aumento della popolazione fu spesso un ulteriore peggioramento delle condizioni igieniche174. Il problema di combattere i miasmi che infettavano l’ambiente cittadino si pose in modo forte, tuttavia, solo nel Settecento: fu allora che, per purificare l’aria, si cominciò a porre il problema di lavare le strade; fu allora che i mutamenti della concezione dell’igiene, della salute e della pulizia fecero apparire intollerabile ciò che per secoli era stato tollerato175.

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